Читать книгу Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 5
CAPITOLO SECONDO.
ОглавлениеL’AMORE.
E bevea da’ suoi lumi
Un’estranea dolcezza,
Che lasciava nel fine
Un non so che di amaro.
Sospirava sovente, e non sapeva
La cagion dei sospiri.
Così fui prima amante, che intendessi
Che cosa fosse amore:
Ben me ne accorsi alfin....
Tasso.
Messer Antonfrancesco Torelli era dei migliori uomini della terra di Fermo: copioso dei beni di fortuna, onorato dai suoi, riverito dagli stranieri, lieto di moglie egregia, e di un figlio in cui aveva riposta ogni speranza dei suoi anni cadenti.
Beato lui, se avesse creduto vero quello che pur troppo è verissimo; cioè, il migliore ammaestramento che possono apprendere i figliuoli derivare dagli esempii degli ottimi genitori; e non avesse mai accomiatato da casa il dilettissimo suo Lelio! che non avrebbe prodotto contristati di amarezza i suoi ultimi giorni verso il sepolcro. Ma egli compiacendo ai tempi, desiderò il figlio perito nelle arti cavalleresche, ed il suo cuore paterno esultò nel presagio che le gentili donne di Fermo salutassero il figliuolo suo pel [pg!23] più compito e cortese gentiluomo di tutto il paese. — In questo pensiero, avendo Antonfrancesco servitù grande col cardinale dei Medici in Roma, gli venne fatto molto di leggieri accomodare nella corte del granduca Cosimo il suo Lelio in qualità di paggio nero. Ma Cosimo, logoro per lo smodato esercizio di tutte le passioni, essendo venuto a morte non bene ancora maturo, Lelio, giovanetto di leggiadre maniere e di forme venuste, piacque a donna Isabella figlia di Cosimo, duchessa di Bracciano, la quale ottenne che il bel paggio si acconciasse al servizio di lei.
In quei tempi, i gentiluomini servendo in corte dovevano apprendere a trattare le armi di taglio e di punta, a combattere con la spada e il pugnale, ed anche a difendersi inermi dagli assalti improvvisi di stilo o daghetta, e su ciò andarono per le stampe eccellenti trattati, che servirono di modello alle altre nazioni.6 Non trascuravano il trarre di arcobugio, comecchè questa non fosse reputata nobilissima cosa; molto importava maneggiare cavalli, sia nella corsa, sia armeggiando, sia (arte più difficile assai) corvettando davanti alle dame, solenni giudici allora di simili industrie.7 Venivano poi le destrezze della caccia, tra le quali primeggiava quella di lanciare opportunamente gli sparvieri grifagni e i falconi, adesso caduta in disuso, o per quello che io sento solo mantenuta in Olanda; seguitavano gli accorgimenti dello scalco, e del complire con leggiadria le nobili donne. A onore del vero, quei gentiluomini facevano [pg!24] sembianza tenere in pregio le lettere, ma non le virili, nè quelle che sgorgano nuove e bollenti dalla immaginazione infiammata per la virtù del cuore, sibbene le altre calcate sopra forme già ricevute e castrate ad usum Delphini; e queste lettere componevano la delizia degli arnesi di corte, a cui la esperienza e la paura aveva insegnato a toccare cautamente siffatta pericolosa materia. Certamente sarebbe ingiustizia lasciare inosservato qualche scrittore, che acceso dagli estremi aneliti della Repubblica, osò dettare libri se non fortemente, almeno con coscienza; ma gli ultimi sospiri durano sempre poco, e lo scrittore tacque, o piegò il capo ai destini. Ve ne fu qualche altro che scrisse la verità, ma non osò pubblicarla, come se avesse voluto instituire eredi delle vendette i remoti nepoti; e per quello che sembra, i nepoti fecero aprire il testamento, ma conosciuto il legato repudiarono la eredità. Le arti poi e le scienze accoglievansi con migliore viso; ma la chimica era studiata principalmente pel fine di comporre l’oro e i veleni di cui gli uomini di quel tempo, in ispecie i Medici, diventarono solenni manipolatori, e per quello che ne leggiamo, sembra che le ricerche moderne non arrivino a gran pezza l’antica tossicologia. Michelangiolo, immortale monumento della dignità umana, e testimonianza eterna della verità che l’uomo fu creato a similitudine di Dio, quando non ebbe più patria, si consacrava intiero al Paradiso, e gli subentrava Benvenuto Cellini, uomo di arguto ingegno [pg!25] ma scemo di cuore, che logorò la sua potenza nei lavorii di cinti, di monili, boccali, piatti, e simili altre quisquilie del lusso; onde, allorquando egli ebbe a condurre la statua del Perseo, non seppe più sollevare a grandi cose la mente avvezza agli arnesi del mondo muliebre, per la quale cosa Alfonso dei Pazzi la morse con lo acerbo epigramma:
Corpo gigante, e gambe di fanciulla
Ha il nuovo Perseo: sicchè tutto insieme
Ti può bello parer, ma non val nulla.
Ma ritornando al nostro Lelio Torelli, egli era riuscito a maraviglia in tutti gli esercizi che desiderano forza e scioltezza di membra. Alle discipline, ove bisogna assottigliare lo intelletto, o non avea rivolta la mente, o non vi era arrivato; e nemmeno prendeva vaghezza dei suoni, dei canti, o dei balli; i suoi sguardi cadevano sopra un coro di femmine leggiadre, con minore compiacenza di quella che si fermassero sopra un cespuglio di rose, e infinitamente poi minore di quella, con la quale per piani o per boscaglie teneva dietro al cignale ferito. Nessuno più prestante di lui a balzare di un salto in sella; nessuno più infallibile a lanciare un dardo, o ad assestare un colpo di arcobugio; e per non distenderci in troppe parole, in ogni maniera di prodezza superava facilmente non pure tutti i giovani coetanei, ma si trovava appena chi, anche tra i maggiori, potesse vantarsi a seguitarlo di gran lunga secondo. [pg!26]
Però, assai più che non conveniva a nobile fanciullo, si mostrava voglioso di garbugli e di risse, e in queste palesava indole feroce; imperciocchè se per forza o per inganno gli veniva fatto superare l’avversario, non così di leggieri si placava, ma chiuso ai miti sensi della pietà e del perdono, continuava a percuotere, finchè o la stanchezza, o gli accorsi al trambusto non glielo avessero cavato di sotto. E poi gli durava il rancore; e guai se un giorno avesse avuto luogo a sfogare il tesoro di vendetta accumulato nel profondo dell’anima! i suoi nemici avrebbero fatto bene a procedere, come suol dirsi, con l’olio santo in tasca. Del rimanente, tenace negli amori quanto negli odii, a esporsi nei pericoli sempre primo, anzi egli solo voleva correrli, e quelli che prediligeva avevano a ristarsene; e ciò non si creda già per amore di lode, o per istudio della gratitudine altrui, chè queste cose non cercava, o sprezzava; ma per generosità naturale, ed anche per un certo sentimento di prevalenza ai suoi compagni, di cui lo ascendente era più facile aborrire che evitare. Piuttosto temuto che amato, piuttosto riverito che seguitato, egli sembrava degnissimo d’impero.
Ma certa volta accadde, che donna Isabella avendolo chiamato a gran fretta, egli ebbe appena tempo di sbrigarsi dalle mani del suo avversario, e le comparve così com’era sanguinoso davanti. La nobile signora, vedutolo in cotesto stato, con voce sdegnosa gli disse: [pg!27]
— “Toglietevi dal mio cospetto; voi mi fate orrore.”
Da quel giorno in poi Lelio non sembra più lo stesso: se intende profferire qualche motteggio, che nei tempi passati avrebbe fatto rientrare in gola con furia di colpi allo incauto parlatore, oggi dal comprimere forte che fa delle labbra, dal rossore che gli accende il viso fino alla radice dei capelli, ci accorgiamo come usi violenza a sè stesso per frenarsi, e sorride più dolce, e benignamente guarda. Nella persona va più composto di prima, e cura con diligenza maggiore la chioma biondissima, e la mondizie degli abiti; però quel bel colore di amaranto, che sfumato gli rendeva così fiorite le guance, adesso è impallidito; il volto ha pensoso, e gli occhi azzurri un poco rientrati sotto le sopracciglia. Ma non è tutto ancora: Lelio si apparta spesso dai compagni, e sta mesto e taciturno a considerare lunga ora o un fiore, o un falco che gira con magnifiche ruote per lo emisfero, una nuvoletta che oscilla perplessa pel sereno celeste, come se i venticelli innamorati se la contendessero; e molto più spesso la sera, sopra il pendío di un colle, con ambe le mani intrecciate davanti alle ginocchia, e la faccia elevata con intentissimo sguardo, contempla il sole che declina, e l’oro, e la porpora, e i doviziosi colori della madreperla e dell’iride, co’ quali il potente padre della vita circonda il suo sepolcro momentaneo. Appena guarda il suo giannetto spagnuolo, che si affatica invano risvegliare [pg!28] lo inerte signore co’ nitriti, e invano il levriere gli corre davanti, poi cuccia uno istante, gli torna incontro, fugge di nuovo a precipizio, gli abbaia intorno, lo guarda, gli lambisce le mani, gli salta addosso: Lelio placidamente co’ cenni e con voce gl’impone starsi quieto, sicchè il povero animale, veduti riuscire inutili tutti i suoi accorgimenti, con gli orecchi bassi e con la coda dimessa si pone a giacere ai piedi del padrone: nè incontravano sorte migliore le armi, quantunque talora le afferrasse come mosso da subita smania, e le trattasse così smoderatamente, da venirne tutto molle di sudore, e sentirsi per alcun giorno prostrato di forze.
Madonna Isabella possedeva un volumetto delle rime di messer Francesco Petrarca che si toglieva quasi sempre a compagno delle sue passeggiate solitarie: quel libro disparve, chè Lelio se lo era appropriato, e non si saziava mai di leggervi dentro.
Com’era avvenuta tanta mutazione nel giovane? — Un giorno, mentr’egli tutto sprofondato nel libro si avvolgeva a sghembo pei sentieri del bosco di Cerreto, certe sollazzevoli giovanette della villa lo aspettarono in cima del viale nascoste dietro alle roveri, e gittandogli copia di viole nella faccia, gli dissero ridendo: — “E’ non sono occhi cotesti da logorarsi su i libri: ridi, e fa all’amore!” — E un castaldo giovialone, che passava portando un paniere di uva sopra il capo, ridendo più forte favellò: — “O voi sì, che ve ne intendete! o mira come ei sia innamorato [pg!29] fracido! Si avvicina il finimondo, le nostre ragazze non conoscono più amore.”
E quando nelle notti serene madonna Isabella, aperti i balconi della sala, diffondeva pel bruno aere torrenti di armonia, cantando e sonando, sia che ripetesse numeri e poesie già composte, o sia che lasciandosi andare alla ispirazione che l’agitava, componesse allo improvviso i versi, e le note alle quali gli sposava, Lelio, come cosa inanimata, se ne stava giù nel giardino appoggiato a un tronco di albero, o ad un piedestallo di statua, e beveva uno incanto fatale, reso più intenso dal tempo, dall’ora, dagli odorosi effluvii, che l’erbe ed i fiori spruzzati di rugiada tramandano, e dalla luce dolcissima che piove dal firmamento stellato; e tanto cotesta estasi rapiva fuori di sè il povero giovane, che chiusi i balconi, remossi i lumi, abbandonati tutti gli animali alla quiete che loro persuade la natura, egli solo rimaneva, immemore, sempre fisso nel luogo medesimo, finchè i primi raggi del sole ferendogli gli occhi non lo richiamassero agli ufficii consueti della vita.
E prima ch’io continui nel racconto di questo amore, mi giovi dichiarare quello che accennava qui sopra; voglio dire come non per finzione di poeta, ma con verità di storico affermassi la Isabella duchessa di Bracciano dotta in comporre versi e prose e musiche non solo pensatamente, ma anche allo improvviso. Nè qui restavano le virtù della inclita donna, che oltre la lingua materna favellava e scriveva [pg!30] speditamente gl’idiomi latino, francese, e spagnuolo; nelle arti del disegno intendeva quanto qualsivoglia più celebrato maestro; ed in ogni ornamento, che a perfetto gentiluomo si addice, e in ogni maniera di donnesca leggiadria così compita, da esserne reputata meritamente piuttosto maravigliosa, che rara. E tutte le cronache che ci sono capitate tra mano, le quali parlano di questa infelice principessa, quasi concordi adoperano le seguenti parole: — «Basti dire, che ella era estimata da tutti, così vicini come lontani, una vera arca di virtù e di scienze, e per queste sue eroiche virtù l’amavano tutti i popoli, e il padre le portava svisceratissimo amore.»8 — Beata lei, se tanti bei doni di natura, e tanto frutto di discipline gentili avesse saputo, o potuto adoperare a rendere avventurosa la sua vita, e la sua memoria immortale!
Lelio, quando gli veniva fatto, s’introduceva nella sala d’Isabella, e quivi, speculato bene che nessuno l’osservasse, prendeva gli strumenti sopra i quali le agili dita della sua signora avevano volato, e li baciava smanioso, al cuore se li accostava e alla testa, e di largo pianto bagnavali; e se rinveniva fogli dove Isabella avesse vergato qualche verso, leggeva e rileggeva, e poi provava a formare rime egli stesso; ma comunque l’anima gli traboccasse di poesia, non rispondeva la voce amica a significare tanto e bollentissimo affetto, nè forse sarebbe riuscito a cui per lungo studio si fosse esercitato nell’arte del dire: [pg!31] sicchè fremeva, seco medesimo si corrucciava, e finalmente concludeva cancellando con le lagrime quanto aveva scritto con lo inchiostro. Però quel conforto, seppure possiamo considerarlo tale, gli venne meno: donna Isabella, trovando le sue polite carte imbrattate, nè le riuscendo rinvenire il colpevole, di ora in avanti le ripose con molta avvertenza.
Ma veramente, eccetto quel guasto dei fogli, donna Isabella non poteva desiderare paggio più assiduo e più diligente di Lelio: dai moti del volto, tanto ei la contemplava fisso, aveva appreso a conoscere i più riposti pensieri dell’animo di lei, nè gli faceva mestieri di altra dimostrazione per soddisfare alla sua signora; la quale assiduità poi cresceva al punto, da comparire fastidiosa quante volte la Isabella conversava col signor Troilo, dacchè egli allora immaginasse mille trovati, o per entrare non chiamato nella stanza, o per non uscirne più. E siccome di rado avviene, che due creature che si odiino, o che divisino nuocersi, per quanto s’ingegnino celare giù nel profondo il proponimento loro, a cagione di qualche indizio non se ne porgano scambievole avviso, così gli sguardi di Troilo e di Lelio s’incontravano acerbi come due spade nemiche; e quanto più Troilo si ostinava a guardarlo bieco, perchè o per reverenza per timore Lelio declinasse gli occhi, questi tanto più si ostinava a tenerglieli fitti nella fronte con espressione inenarrabile di rabbia: il senso delle poche parole che si ricambiavano conteneva sempre [pg!32] qualche cosa di amaro; amaro il suono della voce; amari gli atti, il portamento, ed i gesti.
Lelio, certo giorno, insinuatosi secondo il costume nella stanza d’Isabella, si era recato in mano il suo leuto, e facendo sembiante tasteggiarlo, prese a cantare una canzone, che più di ogni altra piaceva alla Isabella: non si attentava spiegare tutto il volume della sua voce limpidissima, trattenuto dalla reverenza del luogo, e perchè, ignaro di musica, l’aveva appresa a aria ripetendola chi sa quante volte; ma infervorandosi a poco a poco, cesse allo impeto che lo moveva, e di rado, o non mai, gli echi di cotesto sale risonarono di canto così poderoso. Sopraggiunse inosservata Isabella, e commossa a tanta dolcezza, si accostò pianamente, e quando Lelio ebbe terminato la canzone, gli pose una mano sopra i capelli, palpandoglieli per vezzo, ed esclamò:
— “Chi ti ha insegnato cotesto, mio bel fanciullo?”
— “Amore.... grandissimo, che mi ha preso per la musica.”
— “E tu, segui i consigli di cotesto amore, perocchè lo esercizio delle belle discipline affinando lo intelletto ingentilisca il cuore.”
E siccome la duchessa gli teneva sempre la mano sul capo, Lelio con voce sofferente così se le raccomandò:
— “Madonna..., per amore di Dio, io vi supplico di levarmi la vostra mano dal capo....” [pg!33]
— “Doveva io non porvela mai....” risponde la duchessa con voce un cotal poco risentita; e la ritira a sè prestamente.
— “O signora mia, abbiatemi misericordia, chè ella mi ardeva il cervello.”
— “Io non vedo perchè la mia mano deva farvi ufficio della camicia di Nesso.”
— “Non lo so neppure io.... ma lo sento.” E queste parole profferiva il fanciullo con voce sì tremula, così pietosa, che la duchessa gli accostò il palmo della destra alla fronte, e come atterrita riprese:
— “Dio mio, come ti brucia! povero Lelio!... non vorrei che male lo prendesse.... Aimè! ti svieni! E qui non giunge nessuno per soccorrerlo.... Lelio! Lelio! Ahi, che mi muore fra le braccia! Vergine santa, aiutatelo voi!”
E Lelio fattosi bianco in volto come voto di cera, tutto madido di freddo sudore, chiuse le palpebre, abbandonava il capo sopra il seno di donna Isabella, che lo reggeva con ambedue le braccia; ma di lì in breve rinveniva, e aperte con un gran sospiro le palpebre, poichè riconobbe dov’era, e rammentò il modo e la cagione del suo venir meno, disse mestamente:
— “Mi era parso morire — oh! perchè non sono io morto davvero?”
Allora la duchessa si affaccendò a prendere certe sue acque stillate preziosissime, e gliene bagnò [pg!34] le tempie, comunque il giovane per reverenza ripugnasse.
— “Lascia, lascia,” diceva la duchessa; “io vo’ farti da madre: già per età potrei esserlo....... quasi.... e per amore..... di certo. Bisogna bene ch’io ti ami, perchè tua madre vera è lontana, e non può aiutarti, povero figliuolo. Ma che cosa sono queste smanie? donde viene questo disperarti? Parlami, aprimi il tuo cuore intero: io mi sono accorta del tuo impallidire, del tuo struggerti, e vedo come ti tremi il braccio allorchè me lo porgi per salire a cavallo. — Ami forse? Male accorto, non lo celare a me! Anch’io conobbi gli affanni dello amore e so compatirli. Tu, gentile come sei, non puoi avere posto i tuoi affetti in basso luogo, e se fosse troppo alto, oltre che non vi ha disuguaglianza che amore non uguagli, tu, e per natali incliti, e per censo, e molto più per bontà, mi sembri degno di qualunque più illustre parentado; e se io nulla valgo, ti prometto adoperarmi con tutte le forze per vederti contento.”
Frattanto Lelio era ridivenuto sano come se non avesse avuto nulla; anzi, deposta ogni tristizia, si mostrava ridente, e le guance gli comparivano floride del colore della giovanezza, primavera della vita.
— “Oh! sì, giusto,” rispondeva con finta verecondia; “sanno eglino di coteste cose i fanciulli? sono pensieri da diciotto anni? Che cosa è amore? un frutto, un’arme, uno sparviero? Ho inteso sempre dire che crescendo il giovane smagrisce, ma torna [pg!35] poi più rigoglioso di prima. Io, signora mia, mi sento così lieto, così bene disposto, che non mi riesce desiderare di più; e profferendovi con tutte le viscere quella mercè, che io posso maggiore, per la vostra pietà, mi raccomando affinchè vogliate continuarmi la benevolenza di madre che voi mi avete promessa, dandovi fede di gentiluomo, che io dal canto mio mi studierò sempre a non demeritarla giammai.”
— “Lo farò, Lelio,” soggiunse quasi suo malgrado Isabella: “perchè io abbisogni più che non credi di persone che mi amino davvero.... Io, vedi, Lelio, sono misera, ma misera assai, e nessuno sopra questa terra mi ama; mi amava, e svisceratamente, il padre mio, ma mi ha lasciata. O padre mio, perchè mi hai lasciata così sola.... senza consiglio.... derelitta da tutti....?” — E mentre in siffatto modo favellava, Lelio, posto un ginocchio a terra, e baciandole il lembo estremo della vesta, profferiva queste parole:
— “Io faccio voto a Dio essere tutto vostro fino alla morte.”
La duchessa, come quella che per necessità e per uso sapeva padroneggiare i moti dell’animo, accorgendosi essersi lasciata andare più che a lei non convenisse, per distrarre sè e Lelio dai mesti pensieri e dagli eventi.
— “Orsù,” disse, “Lelio, io non voglio che vada perduto il tesoro della voce che ho in voi discoperto: io intendo che non dobbiate più cantare ad aria, e mi vi offerisco disposta a insegnarvi la musica. Se [pg!36] voi proseguite con la medesima prontezza con la quale avete incominciato, non passerà molto tempo che non troverete pari in corte del serenissimo mio fratello Francesco. Prendiamo la musica della canzone che avete cantato pur dianzi; io vi mostrerò le note, e i luoghi dove conviene alzare, dove abbassare la voce: il signore Giulio Caccini, musico romano, l’ha composta espressamente per me; ella è piana, e soavissima per melodia....”
— “Se avessi saputo prima, onoranda signora, di cui ella fosse opera, mi sarei guardato bene apprenderla a mente, e molto più cantarla.”
— “Perchè questo, Lelio? avete per avventura inimicizia col signor Giulio?”
— “Io non ci ho cambiato mai parola; ma cotesto suo volto mi torna sinistro, mi pare che abbia tutto intero un collegio di Farisei dentro il cuore....”
— “A me sembra l’opposto: con tutti è amorevole e discreto; dolce parla, e dolce ride; io mi vi confesserei....”
— “Ed io lo tengo per il più solenne traditore che mai sia stato da Giuda in poi. Notate cotesto suo riso: non sembra suo; io credo che lo abbia accattato da qualche rigattiere; in quelle sue manine vellutate non vedete le zampe del gatto, che ha ritirato gli ugnòli? A tutti raccomanda carità, amore del prossimo, ma per amore suo, perchè non trova conto che la gente cerchi pel minuto, e dopo giusto esame metta i bianchi co’ bianchi e i neri co’ neri.” [pg!37]
Ed Isabella sorridendo: — “Non giudicate, Lelio, se non volete essere giudicato.”
— “Queste sono parole sante, che devono intendersi per filo e per segno, avvegnachè bisognerebbe in caso diverso rinnegare la esperienza e la vita. E poi io posso giudicare, perchè non repugno di essere giudicato.”
E Lelio aveva ragione; e ne fu prova un fatto di sangue. — Le cronache raccontano, come il capitano Francesco degli Antinori dovendo portare a Eleonora di Toledo, moglie di Piero dei Medici, una lettera amatoria del cavaliere Antonio suo fratello, per cagione di cotesto amore confinato a Portoferrajo, aspettato il destro che don Piero uscisse con la sua comitiva, salisse subito in Palazzo-Vecchio, recandosi alle stanze di donna Eleonora, la quale allora abitava quelle dipinte che riescono sopra la Piazza del grano, e subito chiedesse udienza al portiere: ma questi aveva ordine assoluto di non lasciare passare anima al mondo, però che la signora si acconciasse la testa. Il capitano instava trattarsi di cosa importantissima: non badasse a cotesto ordine; gli concedesse passare, o almeno andasse ad avvisarne la signora. Il portiere, nato ed educato in Inspruck, non volle intendere ragione; la signora aveva ordinato che per lo spazio di un’ora non consentisse lo ingresso a persona, e finchè tutti i sessanta minuti non erano scorsi, nessuno doveva passare: e non ci era rimedio. Il capitano prese a passeggiare su e giù [pg!38] per l’anticamera sbuffando; e venutogli presto a fastidio quell’oscillare a modo di pendolo da orologio, vide che anche il mansueto Caccini stava aspettando udienza: mutate seco lui alcune parole di cortesia, e sembrandogli tutto dolcezza, e per di più svisceratissimo della signora Eleonora, cui egli con aria di compunzione e con le lacrime agli occhi chiamava la sua adorata e virtuosa padrona, gli dette incautamente la lettera, raccomandandogli che per quanto amore portava a Dio, guardasse bene di non consegnarla altrui, se non se proprio nelle mani di donna Eleonora. Il musico, appena il capitano ebbe voltato le spalle, si nascose nel vuoto di una finestra dietro la tenda, e aperta la lettera perfidiosamente, conobbe quello di cui correva generale il sospetto, cioè gli amori del cavaliere con la principessa; laonde, nella speranza della buona mancia, ne andò difilato al granduca, ove domandato prima umile perdono dello avere aperta la lettera, scusandosi col dire che a ciò lo aveva condotto lo infinito amore che portava alla dignità del graziosissimo e serenissimo suo signore e padrone, gliela ripose in mano. Il granduca leggendo si mutò in volto; ma, terminata che l’ebbe, con apparente pacatezza la ripiegò a bello agio, e dopo aversela messa nel seno, a voce cupa, com’era il suo costume, così è fama che gli favellasse in brevi parole: — “Musico, qui vedo quattro colpevoli: il cavaliere Antinori che scrisse, il capitano Antinori che portò, Eleonora che doveva ricevere, e te che apristi [pg!39] la lettera: va; ognuno avrà mercede secondo i meriti.”
Isabella per eccellenza di naturale singolarissima femmina, e dai casi ardui della vita resa mesta, non diffidente, di subito soggiunse:
— “Chiunque mi vuol bene, ha da smettere questi mali umori senza ragione: a mio parere, sono disonesti ed ingiusti, e per lo più palesano indole inchinevole alla tristizia. Tutti abbiamo diritto di essere giudicati a seconda delle opere: tu fa, Lelio mio, di avere sempre migliore l’animo della mente, e ti parrà la vita meno infelice che agli altri figliuoli di Adamo. Ora vieni, e impara la canzone di questo valoroso Romano. Come vuoi tu che l’uomo capace di concepire così dolci note, abbia dentro di sè un cuore malvagio?”
Vedi maniera di giudicare degli uomini!
La duchessa, recatasi in mano la carta della musica, e ordinato a Lelio male repugnante le sedesse a lato, incominciò a indicargli dove la voce avesse a posarsi, e come e dove scorrere distesa, o avvolgersi in gorgheggi melodiosi; insomma tutti gli accorgimenti del musico arguto. Ma Lelio badava assai più alle mani candidissime, che non alle note; più che alle mani, al volto angelico che si animava al canto; e rimasto estatico, non pure cessava dallo accompagnare la signora Isabella, ma egli era gran fatto se durava in lui l’alito vitale. Ed Isabella gli diceva: — “Ma seguita.” — Ed egli, traendo a fatica [pg!40] un filo di voce, continuava per tacere un momento dopo; ed Isabella di nuovo: — “A che ti stai?” — E così alternavano i rimproveri e il silenzio. Lelio poi, come lo persuadeva l’amoroso desio, accostava il suo al volto della duchessa; onde avveniva sovente che qualcheduno degli anelli della chioma nerissima di lei, agitati dal moto della testa, gli toccassero la guancia: allora vedevi trepidare il fanciullo per tutte le membra, corruscargli gli occhi di luce maravigliosa e di lacrime; le labbra aride crisparglisi; pareva gioia, ed era dolore. E poi la guancia (maraviglioso caso!) nel punto tocco dai capelli diventava ad un tratto vermiglia come se vi avessero applicato una piastra candente di metallo, e la voluttà che ne veniva al giovane paggio così lo agitava acre e convulsa, da non la potere sopportare; ma riavutosi alquanto, tornava alla prova, in quella guisa appunto che vediamo la farfalla condotta dallo istinto fatale ostinarsi ad aleggiare intorno alla fiaccola che la consuma. Così, nulla badando al tempo che fuggiva, dimorarono lungamente i nostri personaggi; finchè la duchessa, levando a caso gli occhi, vide starle davanti messere Troilo Orsino.
Troilo dalla pallida fronte. — I suoi occhi sotto le ciglia nere ed irsute sfolgoravano come quelli del milvio intenti alla preda. La destra teneva dentro la sopra-veste di velluto nero, con la sinistra sopra il fianco reggeva il cappello a larghe falde ornato di piume nere, immobile così, che lo avresti creduto [pg!41] inanimato. Isabella senza sospetto al mondo sostenne cotesto sguardo sinistro, e non lo badò; e con modi facili disse
— “Benvenuto, messere Troilo, prendete parte nelle mie contentezze: ecco che io ho scoperto in questo dabben giovane una nuova virtù; canta come un angiolo, ed io mi propongo coltivargliela, finchè arrivi alla eccellenza; onde tornato a casa, sua madre ne abbia gioia, ed egli sia la delizia delle gentildonne di Fermo.”
E Troilo:
— “Voi rinnoverete la ingiustizia di Amerigo Vespuccio, dacchè io prima assai di voi aveva scoperto che cotesto fanciullo col debito governo sarebbe riuscito, più che altro, musico maraviglioso.”
Sentì Lelio l’acerba e disonesta puntura, e divampò per la faccia; pur tacque.
— “Signora duchessa,” proseguiva Troilo “io ho da parlarvi di cose che non sono senza rilievo: piacciavi concedermi ascolto. — Paggio, prendete; riponete nella mia stanza, e avvertite di non comparirci davanti prima della chiamata.”
— “Salvo il vostro onore, messere Troilo, io m’intrattengo qui ai servigi della clarissima duchessa mia signora; epperò, ove a lei non piaccia diversamente, pregovi a tôrre in pace s’io di qui non mi rimuovo.”
Questa volta toccò a Troilo farsi rosso; e già muoveva le labbra a qualche acerba risposta, quando Isabella interpostasi prestamente così favellò: [pg!42]
— “Lelio, obbedite a messere Troilo.”
E Lelio, presa spada, guanti e cappello, inchinatosi prima in atto di ossequio, s’incamminava lentamente verso la porta.
— “Paggio!” gli gridò dietro l’Orsini, “fate di sostenere la mia spada con ambedue le mani; è pesa, e potrebbe cadervi.”
E Lelio, tratta di un lampo la spada dalla guaina, e la volgendo in velocissima ruota attorno alla sua persona, con voce baldanzosa, e senza interrompere il cammino, rispose:
— “State di buon animo, messere Troilo; chè il cuore e la lena mi bastano da sostenerla come conviene a gentiluomo contro a qualunque cavaliere onorato; — intendete, contro a qualunque cavaliere....”
E non fu sentito se aggiungesse altre parole, perchè già si era fatto lontano.
— “Ed ecco come,” parlò dispettoso Troilo chiudendo l’uscio della sala, “la tua biasimevole rilassatezza ti educa intorno una corona d’insolenti.”
— “Degli insolenti non mi era anco accorta, bensì di qualche ingrato, Troilo....”
E qui sedutosi accosto, cominciarono a favellare con parole sommesse, ma concitate; e dagli atti e dalle sembianze era dato argomentare come non piacevolezza, non benevolenza, o affetto altro più tenero, reggessero cotesto colloquio, sibbene rampogne, e rancori, e paure, avendo la Provvidenza nei suoi eterni [pg!43] consigli ordinato che l’uomo per delitti non abbia ad essere lieto giammai.
Ora io voglio che i miei lettori, e meglio le mie leggitrici, conoscano essere decorsi tre buoni anni dal giorno in cui costoro si giurarono eternità di un affetto, che non avrebbe mai dovuto avere incominciamento; e tre anni fanno molte eternità nelle cose di amore. — Eternità! vedete un po’ voi se sia concetto o parola che alla mente e alle labbra dell’uomo, e più a quelle della femmina, convengano! I contratti di amore principiano ordinariamente bilaterali, e spesso terminano unilaterali; il meglio sta, ma è raro, nello scioglierli a tempo fisso per consenso scambievole. I contratti di amore hanno di particolare anche questo, che mentre nelle permute, nelle compre, nelle locazioni, e simili, il contraente prima di obbligarsi vuole conoscere il fatto suo circa le stime, gl’inventarii, e gli accessorii, con diligenza consueta praticarsi da qualunque che non sia improvvido del tutto, qui poi stipula e si obbliga col capo nel sacco, riserbandosi a cose consumate di stimare e inventariare quanto abbisogna. E questo giorno tristissimo dello inventario per Isabella e per Troilo era arrivato e passato, e a questa ora chi sa quante volte lo avevano compilato. La verità della storia però ci consiglia a manifestare come la donna si fosse trovata in grande scapito, cosa che aveva contribuito assai ad alienare gli animi. Infatti, in lei era ardore di arti ingenue, e scienza, e vaghezza di scienza; ingegno pronto e felice, ed [pg!44] entusiasmo grandissimo; bontà d’indole somma; sensi disposti alla compassione; modi eletti, leggiadrie donnesche, e cortesie veramente regali. Rimane il sentimento di amore: e che in lei mancasse potenza di amare, io non vorrei dire perchè non sarebbe vero, ma ella stessa restava delusa scambiando lo impeto della immaginazione per una necessità invincibile del cuore; e siccome nulla conosciamo di più etereo della fantasia, nè che più presto svapori, così ella si sentiva sovente non pure maravigliata, ma atterrita di trovarsi fredda per cose o per uomini, verso le quali ed i quali l’era parso ardere poco anzi. Avventurosa lei, se la natura o l’arte avessero equilibrato meglio il suo cervello col suo cuore! Maestri gravi e solenni insegnamenti non l’erano mancati; ma se fra i precetti suasivi rigidezza, ed i precetti consiglieri di facilità, vediamo come più amabili preferire i secondi, tra rudimenti severi poi, e sciolti esempj, non è da domandarsi nemmeno se ottengano preferenza questi ultimi! E nella casa paterna la circondarono esempj pessimi; e poi, misera! punirono in lei, più di tutti innocente, colpe o conseguenze di colpe di cui avrebbero dovuto più giustamente portare le pene i fratelli. Infatti, le varie cronache che ho esaminate concordano in un giudizio medesimo, espresso così da una di quelle:« — E ciascuno diceva, che bisognava averci rimediato prima che il principe Francesco e gli altri suoi fratelli si servissero del mezzo suo per cavarsi le loro voglie con le altre gentildonne [pg!45] della città; menandola tutta notte fuori vestita da uomo, e pretendere poi ch’ella fosse una santa.»9 — Isabella pertanto possedeva, o, a meglio dire, era padroneggiata da ciò che chiamano temperamento poetico; cuore caldo in balía d’immaginazione ardente, o cavallo sfrenato a cavaliere furioso, condizioni piene di eventi luttuosissimi.
E Troilo, quale era egli comparso nel dì dello inventario? Troilo dalla pallida faccia, dalle ciglia irsute, e dall’occhio grifagno? Se consideriamo la persona, a vero dire, pochi sarebbero occorsi cavalieri in Italia da sostenere il paragone con lui, avvegnachè così comparisse in ogni suo membro ottimamente composto, e nel volto formoso, che artisti di grido lo pregarono a voler fare da modello, onde non è da dire in quanta superbia fosse salito costui. Costumava rasi i capelli, polite le guance, e copia di peli nerissimi sopra il labbro e sul mento: avendo anche sentito dire, come Alessandro Magno declinasse alquanto il capo sopra l’omero destro, egli per non essere da meno di lui, aveva imitato quel vezzo: vestiva panni o velluti sempre neri; mesto le più volte, e pensoso; di rado parlante; non già perchè si reputasse poco valente favellatore, che all’opposto presumeva tanto di sè, da degradarne Marco Tullio, ma perchè la sua natura porgeva così. E quando discorreva poco, lasciava la gente persuasa ch’ei fosse uomo di alti spiriti e sottile speculatore delle cose umane; ma se lasciava andarsi a troppo lungo sermone, [pg!46] allora tutta si faceva manifesta la vanità dell’animo suo, siccome avvertivano i nostri vecchi, che dal suono si conosce la saldezza del vaso. Come poi i cieli avessero lasciato sdrucciolare quel capo sopra coteste spalle, era tale quesito da non si potere sciogliere così sopra due piedi: certo è, che avrebbe formato la disperazione di quanti si avvisarono argomentare dai segni esterni le passioni o i concetti dell’anima. Di mano era prode quanto qualunque gentiluomo dei suoi tempi, e più feroce di tutti; negli scontri sanguinosi fra i baroni, pei quali andavano infami le strade di Roma, primo sempre al cimento, era ultimo nella ritirata; forte nacque, e forte combatteva, sebbene la prodizione fosse il bello ideale delle sue imprese, e il suo eroe prediletto quel famoso Alfonso Piccolomini, guastatore di strade, che Ferdinando dei Medici da cardinale salvò di sopra alle forche, e da granduca ve lo mise.10 Ma nelle battaglie, dove più che la ferocia giova lo ingegno, o l’una temperata dall’altro, mostrò tanta dappochezza, da non potergli mai affidare la condotta di un colonnello di fanti: e nei negozj non riuscì punto meglio, perchè talora con importuno silenzio inspirò sospetto; tale altra con vaniloquio anche più importuno, dispetto; onde ristettero da spedirlo più oltre e lo tennero in casa come il Bucintoro, arnese dorato ed inutile che i Veneziani mettevano fuori per la pompa delle nozze del doge con la Teti adriatica; così le sue commissioni consisterono in congratulazioni, [pg!47] come ne fanno testimonianza le tre ambascerie di Francia, dove una volta fu mandato per rallegrarsi della vittoria riportata dal duca d’Angiò a Moncontour contro l’ammiraglio Coligny, la seconda quando Carlo IX condusse per moglie la secondogenita dello imperatore Massimiliano, e finalmente la terza allorchè il duca d’Angiò, che poi fu Enrico III, venne eletto re di Polonia. E non ostante, vanitoso com’era, non rifiniva mai di volere fare toccare con mano alla Isabella quale e quanto sacrificio durasse per lei non combattendo le guerre che non avrebbe mai combattuto, e sospirando le vittorie che non avrebbe riportato giammai. L’amore suo per Isabella fu ozio, fu impeto di sangue giovanile, fu superbia di vincere donna venustissima di forme, e chiara per meritata celebrità; e presto gl’increbbe, imperciocchè le forme, comunque belle, piacciano svariate, e lo ingegno della donna, come quello che lo umiliava, era per lui argomento piuttosto di odio che di ammirazione. Io non affermerò che odiasse Isabella, ma soffriva impazientemente quel laccio, e con tanta maggiore impazienza, quanto conosceva non potere ormai liberarsene, e stringerlo irrevocabilmente con nodo fatale: chiuso l’animo al gentile, al decoro, al retto, e al bello, se Isabella declamava le poesie altrui o le proprie, il sonno lo prendeva: atroce ingiuria per qualsivoglia poeta, ma per una poetessa fuori di misura sanguinosa! La musica gli provocava la emicrania. Con tutto questo, una gelosia fredda e [pg!48] spassionata lo agitava, non perchè egli amasse Isabella, ma perchè Isabella dovesse amare lui: tutti doveano leggere intorno al collo di lei le parole che usavano anticamente incidere sopra il collare degli schiavi: — Appartiene a Troilo Orsini! — Insomma sopraggiunsero i tempi in cui la lieve ghirlanda di dittamo e di rose tessuta dallo amore si era convertita in una catena grave di rimorso e di rampogna uscita dalle mani delle Furie infernali.
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