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CAPITOLO TERZO.

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IL CAVALIERE LIONARDO SALVIATI.

Essendo di fortuna e d’ingegno meno che mediocre, mi sento non dimanco avere dalla natura un bene particolare ed egregio, nel quale io mi sento tanto superiore a molti, quanto quasi di ogni uomo in tutte le altre cose mi conosco più basso. Questa è una cotal mirabile inclinazione, ed una come natural conoscenza ch’io ho nella amicizia... Io sono a questa parte quasi rapito dallo Dio del mio ingegno.

Salviati, Dialogo dell’Amicizia.

Come i poeti immaginano una vergine mesta sopra il margine del rio sfiorare una rosa, darne le foglie sparte in balía della corrente, e contemplare l’onda che passa con essa, così Isabella, con la guancia appoggiata alla mano destra, chiuse le palpebre, considerava le care rimembranze trasportate dalla fiumana del tempo. Dove la innocenza? dove le giovanili affezioni? dove la serena purità dell’anima? L’albero della vita, che l’era apparso un giorno sì lieto di perpetua fronda, adesso, oh come orribilmente brullo! E le scarse foglie rimaste crepitano aride, e pronte a staccarsi al primo fiato che vi soffi dentro. È rimasta sola delle figlie di Cosimo: Maria morì di diciassette anni per colpa di amore; Lucrezia, forse [pg!55] pel medesimo fallo, a ventuno spariva dal mondo. Stella d’influsso sanguinoso era stata per le donne di casa Medici l’amore! Quel caro giovanetto don Garzia, da lei amato tanto,11 l’aveva abbandonata pur egli; ed ora non le riusciva pensare a lui, senza che la immaginazione le presentasse quel sembiante di angiolo, che vorrebbe parlare, e non può, e si sforza accennarle col capo, e i capelli grondanti sangue gli contaminano tutta la bellissima faccia. E questo pensiero, Dio sa se le pungeva il cuore! imperocchè la fama della tragedia domestica fosse arrivata fino alle sue orecchie, ma la sua anima rifuggisse inorridita nel crederla vera. Il padre Cosimo, che agli altri figliuoli o rigido, o crudele, ella aveva provato tanto benigno, si era dipartito non vecchio ancora dal mondo; e sebbene morendo le avesse lasciato, come segni manifesti della sua predilezione, scudi settemila, un palazzo, scudi tremila sul Pisano, orti ed abitazioni in Firenze, e gioie che valevano un tesoro, tutta questa copia di beni non giovava a procurarle persona amica, in cui sfogarsi, e da cui tôrre consiglio. Del cardinale Ferdinando non era da farsi conto, come quello che uscito giovanissimo di casa, e ridottosi ad abitare Roma, colà aveva riposto il cuore e i pensieri, o se pensava alla casa, lo faceva per orgoglio, e per istudio di maestà, verso la quale si mostrava propensissimo per modo, che in processo di tempo, assunto al trono della Toscana, prese per insegna il re delle api col motto: majestate tantum. [pg!56] E per di più, ella aveva motivo di reputarselo poco amorevole, avendo nei tempi passati favoriti piuttosto che ripresi gli amori di don Francesco con la Bianca; ma si accorgendo poi come cotesta passione mettesse radici profonde, e tali da partorire disordini, aveva tentato riparare al mal fatto, attraversandola con tutto il suo potere; la quale cosa, siccome valse a concitarle contra il rancore cupo di don Francesco e la vendetta della Bianca, non fu efficace del pari a riacquistarle l’amore del cardinale Ferdinando, e molto meno quello della regina Giovanna sua cognata; Giovanna, piissima donna, ma pure donna, e umiliata nelle più dolci affezioni di consorte, di madre, e nella dignità dell’alto lignaggio, vedendo preposta a lei figlia d’imperatore, e regina nata di Ungheria e di Boemia, una avventuriera Veneziana. E quella angoscia, che del continuo le cruciava l’anima e le guastava la salute, la rese all’ultimo desiderosa di vendetta per modo, che una sera passando sul ponte a Santa Trinita, s’incontrò nella Bianca, e fatta fermare la carrozza, ordinò agli staffieri la prendessero e la gettassero in Arno; e se non era il conte Eliodoro Bastigli, uomo veramente dabbene, che le facesse considerare quanto sconvenisse cotesto atto a regina e a cristiana, aggiungendo che se ne rimettesse a Dio, e gli offerisse le tribolazioni in isconto dei peccati, cotesto era l’ultimo giorno della Bianca;12 imperciocchè gli staffieri, non la guardando tanto pel sottile, già si muovevano per metterle addosso [pg!57] le mani. Però non tanto poteva vincere sè stessa la povera donna, che non aborrisse mortalmente chiunque avesse contribuito ad alienarle il cuore del suo consorte; e tra questi parendole, e non a torto, che primeggiasse Isabella, per questa cosa, e per essere d’indole, di voglie, di esercizj, e di studii non solo diversa, ma contraria, non v’era male che non le desiderasse; e comecchè se ne pentisse poi e se ne confessasse, nonostante, prevalendo la inferma natura umana, tornava a odiarla più ardentemente di prima. Di don Pietro, rotto ad ogni più vituperevole atto, immemore non pure della dignità principesca, ma perfino dello essere dell’uomo, non era da parlarne nemmeno. Ahimè! in tanta angustia si trovava sola: nessuno poteva sovvenirla di consiglio e di aita; in quel momento volgeva tra sè pensieri pieni di amarezza; di quei pensieri che lasciano traccia con una ruga sopra la fronte, e nel cuore tal piaga, che Dio solo può sanare, e la morte far porre in oblio.

Lelio, schiusa la porta della sala, annunziava:

— “Il molto magnifico cavaliere Lionardo Salviati domanda salutarvi, signora.”

— “Lionardo Salviati!” ella esclamò: e stata alquanto sopra di sè, soggiunse: “per certo, Dio me lo manda.”

E Lionardo venne introdotto con le debite cerimonie.

Non vi è che dire: — l’arte vorrebbe ch’io facessi [pg!58] parlare subito questi due personaggi, e m’ingegnassi inventare un dialogo vivo, gagliardo, e vibrato bene, onde non venisse meno il calore della narrativa; tutto quello che nei racconti o nei drammi impedisce che l’azione proceda spacciatamente al suo fine, vuolsi riprendere come errore: le diverse parti hanno da cospirare allo scioglimento a modo di altrettante linee rette, le quali, come sappiamo, compongono il passaggio più breve da un punto all’altro. E a coloro che avessero potuto dimenticarlo lo ricordava quel dabbene Guizot allora quando ambasciatore a Londra non volle che sopra le sue argenterie s’incidesse altra arme tranne una linea retta col motto «linea recta brevissima;» onde ebbe nome di Catone francese, e a Parigi ne fecero le luminarie e i falò: — non vi pare egli che si acquisti a buon mercato in Francia il titolo di Catone? — Io per me non posso ripetere altro che questo, che chi tale si avvisa ha ragione, ma che io non posso astenermi dal commettere il peccato. Quante volte non succede anche a voi, gentili mie leggitrici, di vedere il bene, ed appigliarvi al peggio! E poi io comincio a invecchiare, ed i vecchi nestoreggiano: di più, allorquando consentiva il mio ingegno a esporre queste ed altre vicende per via di racconto drammatico, io disegnai, dietro la scorta di simile accorgimento, fare conoscere quante maggiori cose per me si potesse relative alle persone e ai tempi sopra le quali e sopra i quali verserebbe il mio racconto. Infatti, io non dico a tutte, ma [pg!59] alla più parte di voi, amabili mie leggitrici, chi darebbe simili notizie ov’io non fossi? Ora che siamo qui in famiglia, confessate se voi avreste mai tempo e pazienza di attingerle dai tomi in-foglio o in-quarto, donde io l’estrassi! volumi pesanti e tarlati, che contaminerebbero la lindura dei vostri candidissimi guanti con una traccia di polvere punto meno orrenda a vedersi del sangue sparso sopra il fianco di Adone. Lasciatemi dunque favellare a mio talento; siate un poco amiche a me, che mi professo tutto vostro, e che quanto più posso, con le ginocchia della mente inchine, vi onoro. Forse potrebbe darsi che io non v’infastidissi: dove però andassi errato, il rimedio sta in facoltà vostra: voi potete fare in quel modo, che in caso simile consigliava messere Lodovico Ariosto:

Passi chi vuol tre carte o quattro, senza

Leggerne verso....

che non per questo rimarrà mozza la storia, o procederà meno chiara.

Chi era pertanto, e donde veniva questo magnifico messer Lionardo Salviati?

Messer Lionardo nacque da Giovanbatista di Lionardo Salviati e da Ginevra di Carlo di Antonio Corbinelli. La sua famiglia spesso fu nemica dei Medici. Il cardinale Salviati congiurò co’ Pazzi per distruggerli fino dalle radici, andò fallito il disegno, [pg!60] e così com’era in roccetto, lo appiccarono alle finestre del Palazzo della Signoria. Questo accidente non guastò punto la buona amicizia, e molto meno la buona parentela delle famiglie; ed un Salviati fu genero del Magnifico Lorenzo, cognato di papa Leone Decimo, ed avo del granduca Cosimo, nato da Maria d’Iacopo Salviati, per modo che Lionardo poteva considerarsi parente d’Isabella. Lionardo (sebbene questo non si avesse a dire in quel tempo, ma che può bene palesarsi adesso) contava appena due anni più d’Isabella, ed erano stati educati insieme; sicchè questi le aveva portato e portava svisceratissimo affetto, non altramente che sorella o altra persona più congiunta per sangue si fosse. Dotato di temperatura gentile, e di complessione dilicata,13 poco si trovò acconcio ai violenti esercizj cavallereschi del tempo, e si dette intero agli studii delle lettere e della filosofia. Era pallido in volto, con barba scarsa, ed in sembiante mesto; di lena fu debole, e nonostante ebbe voce assai gagliarda, pronunzia chiara e soave da guadagnarsi l’attenzione; e rendendosi nel discorso più simile a pregante che a comandante, a sua voglia delle orecchie e dello animo s’insignoriva di chiunque favellare lo ascoltava. Il granduca Cosimo nel 1569 lo aveva insignito della dignità di cavaliere di Santo Stefano, ed egli, poco uso a vedere delle cose oltre la scorza, portava la croce rossa devotamente sopra il petto, persuaso che non avesse avuto altro scopo, tranne quello di liberare il sepolcro [pg!61] di Cristo dalle mani dei cani (chè in quei tempi così per vezzo appellavano i Turchi, i quali a posta loro ci pagavano a misura di carboni). Lionardo, nato quando i destini della repubblica erano sepolti, nudrito in corte, parente del principe, e ben veduto da lui, non avendo mai accolte nell’animo le parole ardenti dei libertini, di cui parte ramingava in miserabile esilio, parte aveva spento o la morte naturale, o la scure giuridica, o il pugnale dello assassino; anzi avendo sentito fino dalla infanzia vituperarli come facinorosi susurratori per pescare nel torbido, e nemici infestissimi di Firenze, aveva preso a considerare davvero Cosimo I liberatore della patria, tutela fidatissima e sostegno della salute di quella, personaggio insomma di alto affare, da preporre piuttosto agli antichi che da paragonare ai moderni. Aggiungi, che la sua vanità di scrittore rimase pienamente soddisfatta da Cosimo, il quale «pareva bene che amasse i virtuosi, e ne faceva segno alcuna volta piuttosto colle parole che coi fatti; conciossiachè essendovene pure alcuni, nessuno ne fu da lui aiutato, onorato e sollevato, se non leggermente.»14 E di vero, quando Lionardo ebbi recitata la orazione in lode della sua incoronazione, senza far bocca da ridere gli disse: «che tra le altre cose per le quali teneva cara la dignità ricevuta, era questa così degna e così alta orazione che ne succedette:»15 come se Cosimo, che non credeva più al bianco che al nero, fosse uomo da starsi sopra [pg!62] coteste novelle; ma lo faceva così per acquistarsi rinomanza a buon mercato, e perchè, come dettava il proverbio fiorentino, sapeva quanto la carne di allodola16 vada a genio ai letterati, i quali se spesso mandano fuori vento, più spesso ancora vengono di vento pasciuti. E certo non fu colpa di Lionardo se Cosimo non rimase per le sue scritture famoso nella memoria dei posteri, imperciocchè non lasciasse sfuggire occasione di levarlo a cielo con ogni maniera di encomii.

Ma con quanto coraggio, o con quale giustizia potremmo muovere rampogna a Lionardo Salviati, se scrittori solenni, di cui giovi ricordare soltanto Bernardo Davanzati, nel quale il volgarizzamento di Tacito avrebbe dovuto inspirare lo esempio se non dello ardire, almeno del pudore, senza mutare fronte recitavano dai pergami: «la creazione di Cosimo contenere laude divina, avendo egli acquistato il principato, bene di tutti gli umani il più desiderabile e soprano, chiamato per amore, modo di tutti gli altri il più santo e il più giusto; — e per virtù dell’animo, già conosciuta dai suoi in guisa eroica e naturale, averlo spontaneamente fatto principe; — Siena pel suo dolce e piacevole imperio potere quasi dire come Temistocle, fuggitosi in Persia: Se io non perdeva, guai a me, ch’io sarei perduta! — avere a tutti gli sbanditi restituito la patria e gli averi; mite, benigno, pio, clementissimo, diligente a tenere provveduta l’annona [pg!63] onde il popolo non patisse penuria di viveri, a diminuire le pubbliche gravezze studiosissimo sempre, e così alacre cultore della giustizia, che quella amò più di sè stesso; di cui porse manifesto segno allorquando, mentre la guerra ardeva contro Piero Strozzi, pregò Dio che facesse vincere non lui, ma chi avesse mente migliore, e la causa più giusta?»17 Se dunque, dico, da simili e da altre enormezze scrittori nè parenti nè amici non aborrivano, male potremmo muovere rimprovero contro Lionardo, se ignorasse o volesse ignorare le armi apparecchiate dal cardinale Cybo, e la perfidia di Francesco Vettori, di Roberto Acciaiuoli, di Matteo Strozzi, e del più tristo di tutti, Francesco Guicciardini, e i terrori sparsi, e le violenze commesse; e la notte dell’8 gennaio 1537, in cui, Cosimo presente, fu tra i mentovati di sopra, e Alessandro Vitelli, stabilito si eleggesse Cosimo duca, e se il bisogno lo richiedesse, vi si adoperasse la forza; e la mattina del 9, ove tra gli urli dei soldati che gridavano: — Viva il duca e i Medici! — e le minaccie del Vitelli, che giurava se i senatori non si affrettavano ad eleggere il signore Cosimino, erano tutti morti, venne creato spontaneamente duca.

Cosimo aveva promesso al Guicciardino lasciarsi governare da lui; ma per questa volta lo schermitore fu vinto di scherma, e, parve impossibile, da un giovanetto di diciotto anni! Gli aveva promesso ancora di tôrre per moglie una sua figliuola; sennonchè [pg!64] a lui non bastò neanche il cuore di rammentarglielo, e morì avvilito dal disprezzo altrui, e di sè stesso.

È ufficio dello storico (ma io sono un povero narratore di novelle), ebbene, è ufficio di qualsivoglia onesto, riferire i bei tratti di cui si onora questa nostra umana natura. Benedetto Varchi generosamente racconta nel libro quindicesimo delle Storie un’azione generosa: prima di tutto ci ammonisce come nella notte precedente alla elezione spontanea di Cosimo, in una pratica segretissima venisse concluso, ch’ei si creasse duca in ogni modo, quando bene bisognasse adoperare la forza; e poi narra di quell’ottimo Palla Rucellai, che disse arditamente non volere più nella repubblica principi o duchi, e per palesare fatti consuonanti alle parole, prese la fava bianca, e mostratala a tutti la gettò nella borsa esclamando: — “Questa è la mia sentenza.” — Al Guicciardini poi e al Vettori, che di ciò lo riprendevano, notandogli che la sua fava non valeva più che una, rispose: — “Se voi avevate deliberato quello che disegnate di fare, non occorreva chiamarmi;” — e rizzatosi per uscire, il cardinale Cybo lo ritenne con astuta dolcezza, spaventandolo con la mostra delle armi circostanti, e col pericolo che avrebbe potuto correre; ma il valentuomo per nulla sbigottito riprese: — “O messere cardinale, io ho passato sessantadue anni, sicchè poco male oggimai possono farmi.” — Magnanimi esempii sono questi, i quali non possono ricordarsi nè lodarsi [pg!65] abbastanza; e quante volte meco stesso considero, come Benedetto Varchi queste storie per commissione di Cosimo dettasse, a lui medesimo le leggesse, ed egli senza dimostrare animo turbato le ascoltasse, mi è forza concludere, che gli uomini capaci di dire la verità mi paiono anche più rari dei principi capaci di udirla, e le piaggerie essere più spesso una viltà dei cortigiani che una pretensione dei governanti.

Siena, ecco come fu lieta! Di trentamila anime che conteneva sul principio della guerra, si trovò ridotta a dieci: tra miserie, battaglie, e strazii da fare drizzare i capelli, e che possono, da cui ne avesse vaghezza, riscontrarsi nel diario del Sozzini e nei racconti del Roffia, perirono cinquantamila contadini, senza contare punto coloro che in paesi stranieri si refugiarono. Il contado ne rimase deserto, rovinata la cultura dei campi, le industrie distrutte, sicchè tuttavia Siena se ne risente. E così a dire di Tacito, ove fanno solitudine appellano pace. Scipione Ammirato, forse per coscienza, o per orrore, volendo non tradire la verità, e per altra parte non rincrescere ai Medici, con ordinamento dei quali scriveva, prese il partito di lasciare una laguna alla sua storia, e parve il velo dipinto da Timante sul volto ad Agamennone nel sacrificio d’Ifigenia. Bernardo Segni,18 all’opposto, nelle storie che furono pubblicate dopo la sua morte, descrisse questa infamia di Siena concludendo: «Si arresono al duca, avendo perduto [pg!66] tutto il dominio, distrutta ogni loro facoltà; e quasi la vita di tutti gli uomini di quella patria e di quella provincia.»

Circa all’annona, dieci volte fu carestia, e tre volte strinse per modo, che la gente si periva di fame; nè già si creda in piccolo numero, perchè nella carestia del 1554, tra la città e il dominio, morissero meglio di sessantamila persone:19 nel 1549 il grano costò lire ventisette al sacco, nel 1551 lire trentadue; nel 1554 lire trentasei e soldi sedici; e nel 1556 lire quarantadue e soldi dodici.20

Se mite ei fosse e clemente, ne fanno fede certi estratti di memorie manoscritte delle Librerie Magliabechiana e Riccardiana,21 dai quali ricaviamo, centotrenta e più dei principali cittadini di Firenze nel breve giro di pochi anni dichiarati ribelli: quanti capitavano nelle mani, impiccati o decapitati; qualcheduno mandato alle Stinche, a beneplacito, o in galea; parecchi assassinati; a tutti levata la roba, e fino alle donne la dote. Nella più parte dei memoriali in cui veniva supplicato per la vita di qualche ribelle, Cosimo di mano propria scriveva brevemente: s’impicchi.22 In qualche luogo ho letto, che degli assassini stipendiati ne tenesse fino a mille; nè già tutti uomini plebei, ma in parte costituiti in dignità: e poi faceva anche da sè, avvegnachè, lasciando da parte il figlio don Garzia, nessuno storiografo nega che di propria mano trucidasse Sforza Almeni perugino, «lasciando però,» aggiunge Aldo Manuzio, [pg!67] «che i beni di lui andassero agli eredi, ed adempiendo alle volontà del trafitto espresse in certa carta che gli fu rinvenuta nelle tasche.» Non vi pare egli questo un tratto di benignissimo principe?... Della preghiera fatta a Dio nella guerra dello Strozzi perchè desse vittoria alla causa più giusta, possono somministrare buono argomento di verità, e la commissione del vescovo di Cortona mandato in Francia sotto pretesto di complire la regina, ma in sostanza per corrompere i famigli di Piero Strozzi onde gli propinassero il veleno recato seco entro un’ampolla, per cui gli venne nome di vescovo dell’Ampollina,23 e la lettera scritta al capitano Giovanni Orandini conservata nello Annale XII della Colombaria, nella quale leggiamo queste parole intorno all’ordine di assassinare lo Strozzi: «Onde per qualche modo andando a Siena, per via di una archibusata, o in qualunque altro modo che migliore paresse a voi, levarci dinanzi l’arroganza di costui; — il che facendo, si può promettere diecimila scudi di fermo, oltre ad acquistare la grazia nostra, e gradi, e provvisioni.»24 Per la quale cosa è mestieri confessare, che se molto fidava in Dio, moltissimo confidava ancora nelle archibugiate; o piuttosto, che se è vero che invocasse il nome di Dio, ciò facesse perchè chi usa ingannare gli uomini arriva a tanta insania, da credere di potere prendere a gabbo anche Dio. E per dire qualche cosa ancora intorno alla temperanza d’imporre nuovi carichi al popolo, bastino [pg!68] queste poche parole di uno storico lontano dalle cupidigie del principato, quanto dalle enormità dei libertini: «Aggravò i cittadini e i sudditi con inaudite gravezze, raddoppiando gli antichi tributi, e dei nuovi aggiungendone molti; — nel maneggiare lo imperio ha in gran parte distrutto l’onore e la facultà della patria e di tutta la Toscana.»25

Pio certamente egli fu, imperciocchè pene immanissime promulgasse contro la bestemmia ed altri peccati, dopo che un terremoto subissò Scarperia, spaventò Firenze, ed in un giorno sette saette fulminarono il Palazzo della Signoria; e soprattutto poi, perchè con prontezza non mai lodata abbastanza, appena ricevuta la lettera di Pio V, che gli faceva pressa di consegnare al Maestro del sacro palazzo monsignor Pietro Carnesecchi, accompagnata dalla commendatizia del cardinale Pacheco; il quale ammoniva Cosimo com’egli di due cose lo avesse lodato presso il papa, cioè non esservi principe in tutta la cristianità più zelante di lui della Inquisizione, e non esservi atto che per suo particolare contento e consolazione, comecchè grave, non fosse per fare eseguire;26 senza punto mettere tempo fra mezzo, avendo il Carnesecchi in casa, anzi pure seduto alla propria mensa, lo fece arrestare, e consegnare al padre Maestro.27 — Questo sagrifizio dei doveri della ospitalità e dei vincoli dell’amicizia, avvegnachè il Carnesecchi in tutta la sua vita si fosse dimostrato devotissimo a casa Medici, ed avesse servito lungamente [pg!69] Clemente VII come protonotaro, e Cosimo come segretario in Venezia; questo sagrifizio di uomo celebrato per bontà e per dottrina dal Sadoleto, dal Bembo, dal Mureto, e dal Manuzio, comecchè l’Ammirato, studioso di scemare la importanza dell’uomo, lo dichiari non ignorante;28 questo sagrifizio, dico, meritava un premio proporzionato, il quale, se non leggiamo pattuito espressamente, apparisce abbastanza promesso nelle seguenti parole nella lettera del 19 giugno 1566, del cardinale Pacheco a Cosimo: «Tenendo ancora per certo, che da questo caso dipenderà gran parte della buona corrispondenza che V. E. deve tenere col papa in questo pontificato.» Infatti, Pietro Carnesecchi nel 3 ottobre 1567 fu decapitato in ponte, e abbruciato,29 e Cosimo nel 4 marzo 1569 fu per privilegio del papa coronato granduca, con facoltà di usare corona ed armi reali. Ma il Carnesecchi andò a morte con maravigliosa costanza, anzi si direbbe con qualche ostentazione di forza, conciossiachè volesse vestire panni elettissimi, e guanti bianchi: Cosimo poi, quando chiuse gli occhi al sonno eterno, era egli ugualmente tranquillo?

Nonostante questi fatti, noti adesso per trovarsi stampati in tutte le storie, ed allora notissimi per le cose discorse largamente di sopra, io per me vorrei perdonare al Magnifico cavaliere Salviati, se celebrando Cosimo non rifinisse di levare a cielo la clemenza, la strenuità, la prodezza e la mansuetudine sua, e lui ad Augusto preponesse, però che [pg!70] questi ebbe ad usare le proscrizioni, e Cosimo no, quantunque Cosimo si contentasse assomigliare ad Augusto, sotto la costellazione del quale, ch’era il Capricorno, il suo astrologo D. Basilio lo assicurava essere nato;30 ma una colpa, che nè io nè altri possiamo perdonare al Salviati, si è lo insegnamento contenuto nelle parole seguenti, alle quali sentendo ribrezzo di mettere la mano, le riporterò tali quali occorrono scritte: «Quelli che i principati dalle loro patrie o dalle loro repubbliche stati loro profferiti ricusano; ciò facendo, non pure di viltà di animo, ma di empietà ancora, o di arroganza manifestissimo indizio hanno dato. Di viltà, dico, mancando di coraggio, e gli onori rifiutando, e i governi, che sono cose appetibili; di empietà, se atti conoscendosi, hanno negato, in quello che per sè si poteva, di prestar l’opera loro alla patria; d’arroganza, se stimatisi inabili, hanno in questo giudizio a quello della repubblica il lor parere anteposto.»31

Ahi! messere Lionardo, come tristo ragionare è cotesto! Come suona sofistico e callido, e affatto indegno di uomo grave! Come e dove vi trasportava il mal genio, o il bisogno di mentire adulando! Parrebbevi onestà, se alcuno si prevalesse dei doni di uomo preso da manía? Molto più dei doni che non si possono fare, come la libertà della patria che da Dio viene, e a Dio spetta, ed è inalienabile, perchè non appartiene a nessuna, ed appartiene a tutte le generazioni; e la generazione presente, che disereda [pg!71] i posteri, come nemica del suo sangue non opera alto valido. Sarà arrogante il medico, se non abusa della malattia dello infermo, ma pietosamente lo risana? — I popoli, quando stanchi della propria dignità si accasciano in terra come il cammello invocando qualcheduno che li cavalchi (posto che ciò non avvenga, come suole quasi sempre accadere, per tradimento o per fraude), o si possono, o non si possono guarire: nel primo caso, si guariscono, e poi, se lo esempio di Licurgo sembra duro a seguirsi, si adoperi quello di Solone e di Andrea Doria, o piuttosto scelgasi volontario esilio, dacchè l’uomo mal vive cittadino là dove principe imperava; nel secondo caso, consumato ogni sforzo, come Silla getti la scure, e lo abbandoni alla ira di Dio: almeno tali devono governarsi le anime che il mondo saluta grandi, che partite da questa terra esercitano le lingue degli oratori e le fantasie dei poeti, e finalmente che ricordano derivare l’uomo origine divina. Per forza o per ingegno, offerta od usurpata, a verun cittadino è lecito togliere la libertà alla propria patria: questo contende la morale, questo la pietà, questo la religione di tutti i popoli, e principalmente poi la cristiana. — Sì certamente, la carità cristiana, perchè rigettata la distinzione di San Tommaso come scolastica, e proposta piuttosto a modo di disquisizione astratta che vera in pratica, di tiranno imposto a forza, di tiranno recatosi addosso volontariamente, onesta è quella azione che possiamo eleggere sempre, conforme [pg!72] insegna Aristotele. Ora, come l’occupare la libertà della patria può essere cosa eleggibile in ogni tempo? Per la parte dell’occupante, potrà o vorrà consultare vie via il volere degli occupati? Saprà o vorrà egli conoscere se fu spontaneo davvero, e universale il moto che lo spinse in alto, o quando declini, o quando cessi? Per la parte degli occupati, non può essere a meno che non sia momentanea afflizione e infermità della patria: avvegnachè la patria consista nella fida cittadinanza alla quale consacriamo affetti, reverenza, e, al bisogno, le sostanze e la vita; e questa tolta, la città in cui viviamo non può chiamarsi patria altrimenti, nè merita i mentovati sacrificj. E se la patria è più che madre, chi può ridurre in servitù la propria madre? Se questo offerisse la madre, come insana non si deve ascoltare; se questo accettasse il figliuolo, come empio si deve aborrire. E notate, che simili usurpazioni, come odiosissime, vanno circondate da simulacri bugiardi di libera dedizione; e Giulio Cesare stesso ordinò, nei lupercali lo presentassero di una corona. Inoltre, la libertà, dopo la vita, è preziosissima cosa: ora quanto più ci torna cara una cosa, tanto meno se ne presume il dono; e quando pure potesse alienarsi, potremo supporre ceduta legalmente la libertà in un momento di ebrezza, di furore o di errore? Finalmente la città inferma, immaginiamo, che chiami un cittadino a racconciarle il freno; per certo lo chiama e lo desidera fino a tanto che sia stato conseguíto un simile scopo. Ora, [pg!73] o il cittadino è capace a compiere il presagio della patria, o no: se capace, soddisfaccia al bisogno per cui venne chiamato, e si parta; o non è capace, manca al fine, e si parta. Ma io forse mi affatico a dimostrare quello che non abbisogna punto di prova; quale presunzione, quale insania è mai questa di concludere per via di argomento ciò che la natura e Dio scolpivano nel nostro cuore? — E Lionardo Salviati scrivendo le riferite sentenze, forse non le credeva; lo fece per apparato di eloquenza, o piuttosto per amplificazione rettorica, e si accôrse, comecchè tardi, del torto: ma ormai non era più tempo a ripararlo; sicchè non n’ebbe in seguito mai il viso lieto, maledì l’ora che apprese a scrivere prose, e sconfortato dai disinganni, atterrito da memorie di sangue, supplicò Dio, che lo intese, ad abbreviargli una vita tanto male impiegata in disutile della verità e degli uomini da lui pure amati ardentissimamente.

Rimarrebbe far conoscere adesso quanto nelle lettere il Salviati nostro valesse; ma non lo concedendo, com’io vorrei, la indole di questo libro, m’ingegnerò come meglio io possa, stringendo in poco il molto. Nelle lingue latina e greca egli fu intendentissimo, della italiana maestro solenne; più apprese, e acquistò tesoro maggiore di dottrina di quella che insegnasse o mettesse fuori, secondo l’uso di quei letterati, i quali, meglio che ad altro, possiamo assomigliare alle arche degli avari; compose copia di poesie, gravi e giocose, che come piace a [pg!74] Dio ai giorni nostri ignoriamo, e non istampansi. Dettò a venti anni il Dialogo dell’Amicizia, in cui introduce Girolamo Benivieni a favellare delle lodi dell’amicizia a Iacopo Salviati e a Piero Ridolfi. La occasione sarebbe stata commuovente davvero, fingendo egli che Girolamo per la perdita dell’amicissimo suo Pico della Mirandola, portentoso giovane, chiamato la fenice degl’ingegni, si fosse deliberato lasciarsi morire; ma poi, di repente mutato consiglio, convertì in gioia il dolore, pensando che Dio aveva, come meritevolissimo, chiamato per tempo il Pico al premio dei Santi: ma la parola priva di calore, le distinzioni scolastiche, il difetto di fantasia e di passione, muovono a tutto altro che a piacere o a pietà, e il fastidio precede di troppe pagine il laus Deo. Le commedie, la Spina e il Granchio, e’ sono uno impasto fatto con lievito avanzato nella madia di Plauto e di Terenzio, sicchè pensate voi se infortito! — Solite balie mezzane, soliti bari e truffatori, e vecchi che credono tutto, e vicende impossibili, e riconoscimenti inverisimili, e riboboli fiorentini, e favella dura, sicchè noi restiamo maravigliati come la gente prendesse diletto a coteste rappresentanze che oggi oseremmo appena imporre come penitenza dei peccati. Delle cinque lezioni sopra un sonetto del Petrarca, è da dirsi che ci somministrano piuttosto la misura della pazienza grandissima dei nostri padri, che del grande ingegno dell’oratore. Le orazioni, le funebri in ispecie, paiono proprio fiori da morto. [pg!75] Sotto il nome dello Infarinato, contristò con acerbe scritture l’anima dolorosa di Torquato Tasso; ma la Gerusalemme rimane, e cotesti scritti non si leggono più da nessuno: e questa azione fa torto al Salviati come scrittore e come uomo, seppure anche in questo non lo scusa la sua cieca devozione per casa Medici. Castrò, come si diceva in quei tempi, il Decamerone di Giovanni Boccaccio; ma i posteri hanno riso della castrazione, e, lasciato al Salviati il frutto della castrazione, hanno voluto il Boccaccio intero. Grande però fu la sua venerazione per questo sommo scrittore, e scrisse tre volumi di Avvertimenti intorno alla lingua ricavati dal Decamerone: questi volumi possono anche ai giorni nostri, e forse più che mai nei giorni presenti, consultarsi dagli studiosi della gloriosissima nostra favella. La lingua adoperata dal Salviati è pura, ma non dice nulla; pare un ornamento di cadavere: non idee, non pensieri, non immaginazioni; costretto a evitare il grande, che sta nel vero, forza è che ricorra al falso, e già vediamo spuntare in lui la sinistra aurora del secento. Di ciò sia prova questa figura della Orazione per la incoronazione di Cosimo I: — «Queste mura, Beatissimo Padre, e queste case, e questi tempii, pare che ardano del desiderio di presentarsi davanti ai piedi di Vostra Santità; e questo fiume, e queste piaggie, e questi monti, par che piedi desiderino per venire; e questi mari e questo cielo, lingua per favellare, e per potere di tanto beneficio, se non quello [pg!76] che hanno in animo, rendervi almeno qualche grazia, e presenzialmente riconoscersi debitori.» — Parole copiose, eloquenza nessuna; epiteti, aggiunti, riempitivi a ribocco; un periodo intramezzato vie via da molti altri periodi tra loro parimente rompentisi, sicchè la locuzione procede confusa, ardua, imbarazzata, e sopra modo penosa. Parini reputò potesse leggersi con profitto: io, tranne gli Avvertimenti che ho detto sopra, non lo credo; e Annibale Caro, sebbene indirizzasse il suo giudizio al medesimo Salviati, lascia conoscere abbastanza che non reputava commendabile il suo stile, come quello che abbondava di parole, vagava incerto, era pieno di epiteti oziosi, di periodi lunghi, e di molti più membri che non bisogna alla chiarezza del dire; il che sapete che fa confusione; e si lascia indietro gli auditori.

Insomma messere Lionardo non fu buono cittadino, e nemmeno valoroso scrittore, e nonostante uomo di eccellente naturale, tenero degli amici, e del bene loro studiosissimo. Alcuni reputeranno impossibile che possa uno individuo essere uomo ottimo e cattivo cittadino; pure, se contrarietà è, noi la vediamo in natura, e potrei citare esempii moderni, se la discretezza lo consentisse.

Lionardo, entrato nella stanza, ebbe cura di assicurarsi prima se bene il paggio avesse chiuso la porta, tirò la portiera, poi si mosse alquanto sorridente verso Isabella, le stendendo in atto amico la [pg!77] destra. Ma Isabella gli andò incontro con impeto, ambe le mani gli pose sopra le spalle, ed appoggiò il capo al suo seno, esclamando:

— “O buono, o egregio mio Lionardo, voi almeno non vi siete dimenticato della vostra Isabella!”

Lionardo confuso per cotesto abbandono, e commosso profondamente, replicava:

— “Mia cara Isabella, signora duchessa, o come, e perchè avrei dovuto dimenticarvi io?”

Così rimasero alcun poco di tempo; e quindi postisi a sedere sopra al lettuccio, Isabella guardandolo in faccia continuò:

— “È tanto tempo che non ci siamo veduti! E’ mi parete un po’ male disposto. Lionardo, il soverchio studio vi nuoce....”

— “O Isabella,” disse Lionardo, “il mio male sta qui dentro,” e si percosse il cuore; “ed io prego continuamente Dio che mi chiami alla sua pace, e sembra che egli, com’è misericordiosissimo, già cominci ad ascoltarmi. Ma lasciamo di me, ch’io per me qui non venni, o duchessa. Ora vi scongiuro, ascoltatemi come fratello. Finchè io vi conobbi, se non felice, sicura, stetti lontano da voi. Avrei desiderato che voi vi manteneste felice...., perchè” e qui abbassò la voce “felicità vera consiste nello esercizio della virtù; — ma i miei sforzi tornarono inutili, e inutili gli avvertimenti di Cosimo vostro padre, il quale pure vi ammoniva sovente, dicendo: — Isabella, io in questo mondo non ho da vivere sempre....”32 [pg!78]

Isabella riprendendo la donnesca alterigia, lo interrompeva così:

— “Messere Lionardo, ch’è questo che voi dite? S’io male non mi appongo, voi mi recate oltraggio....”

— “Isabella, per certo io non veniva a questo. Credete ch’io goda parlandovi come faccio? Pensate ch’io abbia così male spesi i miei anni vivendo, da avventurare parole inconsiderate, o peggio? Perchè mi respingete? Perchè infingervi meco? Ma non importa: io non cerco i segreti del vostro cuore; se non mi credete degno di parteciparmeli, io consento ignorarli; ma udite quello che si crede di voi, udite il pericolo e provvediamo al riparo....”

— “Io non commisi errore: chi può incolparmi? Quale traccia....?”

E il Salviati le susurra nell’orecchio: — “La traccia è fuori della Porta a Prato....”

— “Ah!” gridò spaventata Isabella: e dopo alcuni momenti balzando in piedi in atto di partire, soggiunse: — “Almeno egli sia salvo....”

E Lionardo trattenendola per la vesta: — “Fermatevi, meglio provvederemo noi qui.”

E Isabella, scotendo il capo, e con ambedue le mani tirandosi indietro dalla fronte i capelli, come se, fatta audace per la disperazione, volesse che vi leggessero intera la propria vergogna, mormorava:

— “Ebbene, io sono colpevole....!”

— “Isabella voi correte pericolo di vita....” [pg!79]

— “Io, e da cui?... Forse tornava di Roma Giordano?”

— “No; ma e che cosa importa Giordano?”

— “E chi, se non egli, vorrebbe con giustizia attentarmi alla vita? Francesco forse? Punirebbe in altrui il suo peccato? Piero?... così sprofondato in ogni maniera di più sozzo vizio, che l’acqua di Arno non basterebbe a lavarlo?”

— “Giustizia!.... E voi, figliuola di Cosimo, cercate giustizia quaggiù? — Francesco odia in altrui quanto indulge a sè stesso: una fama incerta gli è pur giunta all’orecchio, che i suoi nemici, estrema gioia dei vili, dileggiano la sua casa pubblicando vituperii, che o non sono veri, o, se veri, la più parte procedono da lui; e poi nel cupo animo teme della sua Bianca, e intende spaventarla, ove mai pensasse ad altro affetto che non fosse il suo....”

— “Lionardo, voi favellate fiere parole, le quali come non posso impugnare, così non posso accogliere interamente. Insomma, e’ paiono timori più o meno verosimili; ma da pensare una cosa a volerla, e da volerla a farla, corre sempre un gran tratto....”

— “Sì certo, i parenti vostri sono usi di commettere le feroci voglie alla ragione: ma io farei tristo ufficio sparlando presso voi delle persone di cui la fama vi è cara. — Isabella, credetelo sopra l’anima mia, voi correte pericolo di vita....”

— “Lionardo, voi così savio capirete troppo bene come in casi tanto importanti male può l’uomo [pg!80] convincersi dell’altrui convinzione; voi avete fatto molto, avete fatto anche troppo, onde mi neghiate onestamente il meno....”

— “È vero; e poi io venni qua disposto a mettere in avventura la vita: non vi raccomando discrettezza per me, ve la chiedo per voi, e per tale, che so che amate più di voi....”

— “Sta bene, parlate.”

— “Ieri mi recai di buon mattino da Francesco, il quale mi aveva mandato a chiamare, ond’io lo informassi intorno alla correzione del Boccaccio, che ho impreso dietro gli ordini di lui: egli era sceso nella officina chimica; io nonostante mi feci annunziare da uno staffiere, il quale di lì a poco tornò dicendomi, che andassi pure costà, che il serenissimo padrone, come persona di casa, mi riceveva senza cerimonie nella officina. Io rinvenni Francesco tutto affaccendato intorno ad un fornello, considerando certa sostanza chiusa dentro un’ampolla di vetro. Appena mi vide, così mi parlò: — «Buon giorno e buono anno, cugino Lionardo; io sto dietro ad una esperienza che non mi riesce condurre a termine; or ora leggerò il vostro lavoro del Decamerone, che avrete emendato da pari vostro, lasciando stare le bellezze, e togliendo quanto offende i buoni costumi e la religione. Peccato, che cotesto grande uomo non avesse costumi buoni! Ma non vi è pericolo, Lionardo, ch’ei sia andato perduto? N’è vero, cugino, che messere Giovanni prima [pg!81] di morire si pentisse, e lasciasse il mondo in odore di santità?» — Alla quale domanda risposi, che il Beato Giovanni Colombini nella vita del Beato Pietro dei Petroni ci assicura, come il Beato Pietro, poco prima che si partisse a vita migliore, mandasse Giovacchino Ciani a riprendere il Boccaccio dei suoi scritti e dei suoi costumi meno che onesti, e nel tempo stesso a svelargli certi segreti così riposti nel proprio animo, che il Boccaccio teneva per fermo nessuno, tranne lui, potesse saperli. Della quale cosa percosso, messere Giovanni pianse amaramente i trascorsi passati, e rendendosi a Dio ne fece mirabile penitenza.33 — «Gran mercè, riprese Francesco; voi mi avete dato una consolazione desideratissima, accertandomi che il nostro messere Giovanni adesso stia in luogo di salute. Or via, siatemi cortese di aspettarmi per un po’ di tempo, tanto ch’io mi sbrighi da questa faccenda: andate costà in libreria, vi troverete in buon dato libri, e parecchi nuovissimi.» — Entrai nella libreria, fingendo leggere il primo libro che mi capitò tra mano, ma seguitava con occhio obliquo il lavorío di Francesco. Costui non finiva mai di soffiare nei carboni, guardare attraverso l’ampolla, e poi volgersi a un vasetto sopra la tavola; e quindi presa un pocolino di polvere tra le dita, considerandola attentamente diceva: «Bisogna dire che i nostri vecchi ne sapessero più di noi, che ce ne abbiano date ad intendere a serque: il colore ci è; l’apparenza l’ho [pg!82] trovata; ma il sapore.... il sapore...., e l’arsenico sembra fuori di dubbio che ci entrasse: eppure nelle note al mio Poggio, e nella Cronaca Trivigiana leggo che il Conte di Virtù.... — in fè di Dio, gli era proprio tagliato a suo dosso questo titolo! — avvelenasse con tossico che pareva in tutto e per tutto sale, lo zio Bernabò, facendoglielo porre così naturale sopra i fagiuoli.... ma non mi riesce a trovarlo; io darei mille ducati....!» — In questa, ecco uno staffiere entrare nella officina, ed annunziare il bargello. Io non so per quale motivo presi a tremare; guardai la stanza, speculando se vi era modo di quinci partirmi, e trovai una porta che metteva in cortile. Sul punto di uscire. Dio m’inspirò tornare: seguitai la prima ispirazione, che quasi sempre ho provato buona, e mi posi cautamente in ascolto. Il bargello era entrato, e così favellava: «Il cavaliere Antinori, come sa la Eccellenza Vostra Serenissima, arrivò ieri da Portoferraio....”

— “Come!” interruppe Isabella, “il cavaliere Bernardo venne a Firenze senza che noi ne abbiamo notizia?”

— “Il cavaliere Antinori a questa ora è sepolto. Dio faccia misericordia all’anima sua!”

— “Gran Madre del Signore! ch’è quello ch’io sento! Lionardo, ne siete voi sicuro?”

— “Lasciate che io termini. — Il bargello continuava: — «Lo conducemmo subito dal cavaliere Serguidi, che gli fece una bravata terribile per [pg!83] l’onta recata al suo principe, ammonendolo che si costituisse in colpa, e si commettesse alla clemenza vostra. Ma il cavaliere negava a spada tratta, finchè il Serguidi con voce minacciosa cavò una lettera dicendo: — «Or via, negherete voi questa?» — Il cavaliere, visto appena quel foglio, diventò come un panno lavato; tutto sbaldanzito alzava le mani supplichevole, senza potere articolare parola. — «Andate via;» conchiuse il Serguidi, «voi non meritate perdono.» — Il cavaliere si partiva che pareva ebbro, sì gli tremavano le gambe sotto, e tirava di lungo per andarsene a casa come se non fosse fatto suo: io gli tenni dietro con la famiglia, volendomi un po’ prendere spasso di costui.» — «Delle tue,» — interruppe Francesco; «porgimi quel soffietto; va innanzi, ch’io ti ascolto: non mi tacere nulla, chè ci prendo propriamente gusto.» — E il bargello: — «Ei camminava d’inspirazione, perchè si avviava verso il Palagio. Quando fu alla porta dei lioni, io me gli scopersi, e gli dissi: — Messere, togliete in pace ch’io vi serva da maggiordomo: il serenissimo nostro padrone vi ha preparato un quartiere da pari vostro qua dentro.... — Il cavaliere mi guardò come trasognato, e si lasciò condurre a modo di agnello: stamane poi prima di giorno sono entrato in prigione col cappellano, e se la dormiva ch’era uno incanto....» — «Dormiva?» interrogò Francesco alzando la faccia, che pareva imbrattata di sangue, di sopra agli ardenti carboni. — «Dormiva.» — «Egli [pg!84] non doveva dormire!» — «Eppure dormiva.» — «Voi gli avete lasciato passare l’ultima notte in pace. Così si può dire che non abbia sofferto nulla! E non posso tornare da capo.... n’è vero?» — Il bargello faceva col capo cenno affermativo. — «Io l’ho scosso, ed egli si è svegliato alzandosi a sedere sopra il letto; e ha domandato: — Che ci è egli? — Svegliatevi un momento, gli ho risposto; poi dormirete a bello agio: eccovi un prete; voi non avete più di una ora a morire.» — «Ed egli?....» cercava di nuovo Francesco. — E il bargello: «Egli ha risposto: sia fatta la volontà di Dio.» — «Come, propriamente così?» — «Così per l’appunto.» — «Ma che non hanno paura di morire?» — «E’ pare che ce li abbiate avvezzati.» — «No, in questo modo è troppo poca cosa la morte: provvederemo. Séguita.» — «Si è confessato per filo e per segno, e poi mi ha chiesto in grazia di scrivere: gli ho dato carta, penna e calamaio; ma tremava così forte, che non poteva formare lettera. Vedete, Serenissimo.» — E mostrava una carta. Francesco, deposto il soffietto, l’ha tolta in mano, e la esaminando parlava: — «Mira un po’ i bei grotteschi! non vi leggo nulla.» — «Ve lo diceva che non potè scrivere parola. Allora io ho creduto bene osservare: Messere cavaliere, poichè mi accorgo che voi non potete fornire il fatto vostro, consentite ch’io faccia il mio; e messegli prima le manette, gli ho passato la corda al collo, e l’ho fatto strangolare in buona [pg!85] regola....» — «Va bene: e il capitano Francesco?» — «Oh! Il capitano ha preso vento; si è cacciato la calcosa tra i viandanti, ed in Firenze non si trova....» — Qui non è da dirsi in quale matta frenesia abbia rotto Francesco: mandava spuma dalla bocca, sangue dagli occhi: — «Va, corrigli dietro!» urlava; «spedite cavallari apposta, scoppiate cavalli.... ai confini.... ai confini.» — E il bargello non sapeva che cosa farsi. Intanto l’ampolla di vetro, non so per qual causa, si è spezzata: le schegge in parte hanno colpito la faccia del bargello internandosi nella carne; quel tristo cacciava fuori dolorosissime strida. Allora Francesco ad un tratto è tornato cupo e silenzioso; se non che volgendosi al bargello, gli ha detto freddamente: — «Affrettate a curarvi, perchè il vetro è avvelenato.» — Il bargello fuggiva a precipizio mugolando: — «Povera moglie! poveri miei figliuoli!....» — Se in quel punto mi avessero tratto sangue, non me ne sarebbe uscita una goccia: mi sentivo come inchiodato là dov’era; già mi tenevo spacciato raccomandando la mia anima a Dio. Per ventura Francesco si è lasciato andare giù sopra una sedia, abbassando la testa come uomo che si sprofonda dentro un pensiero; ed io distintamente più volte, e ve lo giuro sopra la vita di mia madre, ho sentito mormorargli fra i denti: — «Ora provvederemo alle femmine, e presto; — ma Giordano è in Roma, — e senza il consentimento suo non mi parrebbe ben fatto; — potrei [pg!86] arbitrare, — ma no; — pensi egli a renderne conto.... — a cui? A Dio, a Dio.... O questo Dio ne pretende pure tanti dei conti!....» — Avendo intanto ripreso animo, mi sono appressato pianamente alla porta del cortile, e sono uscito a ripararmi sotto il cielo; imperciocchè io temeva, da un punto all’altro, che sprofondasse la volta del luogo maladetto....!”

Isabella a quel truce racconto si era rimasta come impietrita; e il misero Leonardo, nascondendosi il volto tra le mani, in suono quasi di pianto diceva:

— “O Signore! Ed io ho potuto usare la favella, il nobile dono che voi avete compartito alla creatura, per laudare costoro! Che cosa penseranno i posteri di me? Possano andare disperse le opere mie! Possano dimenticarle presto i nepoti! — E tu. Dio, che vedi se sia dolore il mio di augurare la morte ai figli della mia mente, intorno ai quali la salute ho spesa e lo ingegno, tu sai ancora se questo voto si parta proprio dal cuore.”

Veramente io penso che grandissima dovesse in quel momento l’amarezza contristare la povera anima di Lionardo Salviati!

Ma indi a poco richiamando lo spirito ai casi presenti, il Salviati voltosi alla Isabella favellò:

— “Orsù via, Isabella, coraggio....”

— “Non è viltà la mia.... è raccapriccio, è ribrezzo. — Infelice Eleonora! così giovine, così lieta, tanto affezionata ai piaceri e alla vita! Bisogna salvarla.... bisogna avvisarla.” [pg!87]

— “Duchessa, ricordatevi non essere vostro il segreto; intorno a salvarla ci adopreremo.... poi.”

— “Sì, unico amico mio, mio padre, mio tutto; io mi rimetto, anima e corpo, nelle vostre braccia....”

— “Bene! il tempo stringe. Voi dovete scrivere una lettera a madama Caterina di Francia: ella è donna di cuore alto; educata nei mali, deve avere appreso a soccorrere i miseri; e nata Medici, aborrirà che la sua casa s’infami con tragedie domestiche. Il sangue ancora può darsi che qualche cosa faccia: sicchè ognuna di queste considerazioni per sè, o tutte insieme riunite, mi sembra pure che abbiano ad essere attissime per muovere il reale animo suo a concedervi asilo, e provvedervi mezzi di fuga. Io assumo il carico di farle pervenire la lettera fino a Parigi: stasera parte un mio congiunto dei Corbinelli, accorto giovane e discretissimo, per Lione, e la consegnerà al luogotenente della città, o se non gli parrà mezzo affatto sicuro, per amore mio si condurrà sino a Parigi. Tosto che torni la risposta, non sarà arduo trasportarvi a Livorno, e colà imbarcarvi per a Genova, o meglio per a Marsiglia: quivi giunta, si può dire che siate in salvo....”

— “Ma, e la Eleonora...?”

— “Allora faremo in modo avvisarla, e potrà venire con esso voi, o andare in Ispagna dal duca di Alva, meglio dal suo fratello vicerè a Napoli. — Or via dunque, scrivete la lettera, chè il tempo vola....” [pg!88]

E Isabella si pose a scrivere; ma comecchè ella possedesse maravigliosa facilità a comporre, adesso le mancavano le parole, cancellava, tornava a cancellare, faceva da capo; gli affetti che molti e profondi le turbavano la mente, di leggieri possono immaginarsi. Alla fine la lettera fu scritta, e:

— “Lionardo,” prese a dire, “sentite un po’ se così va bene. Io non ho mai durato tanta difficoltà nel mondo, quanta nello scrivere questa lettera. Dimenticate che siete lo Infarinato, vi prego....”

— “Porgete.” — «Onorandissima come Madre. Persona che vi è congiunta per sangue, la sola superstite delle figlie di Cosimo dei Medici, vi scongiura che le salviate la vita. Se io sia innocente o no della colpa che intendono vendicare nel mio sangue, concedete che io taccia; ma se pure fossi in colpa, la giovanezza, la lontananza del marito, e le occasioni, e gli esempj, e il cuore di femmina pur troppo inchinevole ad amare, parmi che non mi dovessero fare considerare del tutto indegna di perdono. Molto ho da temere dal duca di Bracciano, più molto dal mio fratello Francesco. Io mi vi raccomando quanto più so e posso: porgetemi aiuto secondo che la urgenza del pericolo domanda, affinchè non venga tardo. A me salverete la vita, alla casa nostra la fama, e voi farete azione da quella magnanima Reina che siete, di cui vi darà Dio condegno merito. Dove meglio reputerà la prudenza vostra opportuno, io [pg!89] mi chiuderò in qualche santo monastero, intendendo e volendo spendere al servigio di Dio quanto mi avanza di questa misera vita, per ottenere dalla infinita sua misericordia la remissione delle mie colpe.

»A Caterina reina di Francia....»

— “Mi sembra che vada a dovere; copiatela, e aggiungete, che la risposta sia con sopraccarta diretta al mio nome.”

— “Ma!” riprese Isabella abbassando gli occhi e tingendosi in volto di rossore.... “e Troilo lo abbandonerò io...?”

— “Troilo,” disse gravemente messere Lionardo, “conosce come il Turco minacci la Cristianità: egli deve andare in Ungheria a combattere contro i nemici della fede, e con morte onorata acquistarsi il perdono di Dio.... Ma a lui soprattutto guardatevi di fare trapelare cosa alcuna; egli vi perderebbe di certo, e sè stesso con voi....”

Isabella sciolse un profondo sospiro, e si pose con mano tremante a copiare la lettera. Appena fu terminata, Lionardo arse la minuta, e con molta diligenza compose un plico. Mentre che il Salviati, dopo avere suggellata la lettera con le armi dei Medici, stava per iscrivere la sopraccarta, si sentì un rumore come di corpo che sospinto con violenza investa in parete, o percuota nel pavimento; e schiusa allo improvviso la porta, fu visto Troilo, che alzando la portiera, e mettendo in avanti il capo, teneva la faccia di profilo, esclamando con ira: [pg!90]

— “E’ pare che ti sia venuta in fastidio la vita....”

Lionardo quanto più speditamente potè nascose la lettera in seno; ma non gli venne fatto con tanta prestezza quel moto, che Troilo non se ne accorgesse. Troilo, mutati due passi oltre la porta, si fermò, volse attorno quel suo sguardo sinistro, e poi, fissando la duchessa con amaro sorriso, favellò:

— “Dacchè ponete guardie alla vostra porta, io vi conforto, signora, a sceglierle se non più proterve, chè questo è impossibile, almeno più gagliarde....”

— “Io aveva creduto che in casa mia la manifestazione della mia volontà fosse bastevole....”

— “E voi avete creduto male, dacchè vedete come io sia penetrato qua dentro.” — E in questo punto deposto il riso, e dandosi in balía al furore, continuò: — “Che sotterfugi, che tradimenti sono eglino questi? Voi mi volete condurre alla mazza, madonna Isabella! e se alla mazza si ha da andare, dobbiamo essere in due. Se voi siete dei Medici, io sono degli Orsini; e fo voto a Dio che cane mai non mi morse, ch’io non volessi del suo pelo. — Che fate voi, cavaliere? Che cosa è il foglio che vi siete nascosto nel seno? Presto, mettetelo fuori; io voglio vederlo....”

— “Cavaliere,” riprese il Salviati con voce pacata, “ella è cosa che non riguarda punto voi, e non potete pretendere onestamente....”

— “Questo è ciò che vedremo quando avrò letta la carta.” [pg!91]

— “Concedete ch’io mi astenga dal soddisfarvi.... cavaliere.”

— “Signor Salviati, io sono poco uso a sentirmi contrariare: datemi la lettera, che buon per voi!”

— “Troilo, per quanto avete cara la nostra grazia, io vi comando tacervi, ed uscire....”

— “Isabella, è tempo ormai che dismettiate i comandi, e cominciate a obbedire....”

— “Messere Troilo, io vi assicuro sopra la coscienza di cavaliere onorato, che questa lettera non vi riguarda....”

— “La coscienza! forse quella con la quale diceste le lodi del serenissimo signor Cosimo? Un cavaliere onorato non s’introduce fuggiasco in casa altrui, non si mescola dei fatti che non lo riguardano, non viene a ordire trame; e se trame non fossero, non repugnereste a darmene conto....”

— “E chi siete voi dunque, messere Troilo, di grazia....?”

— “Io...! Io sono quegli a cui dava in custodia la sua donna il duca di Bracciano....”

— “Ed osate farvi un diritto di questa custodia? Ah! messere Troilo....”

— “Che cosa intendete? Salviati, guai a voi! Io sono uomo da mozzarvi la lingua.... sapete....”

— “Troilo! ove trascorrete? Voi gli dovete onoranza, non altrimente che se mi fosse fratello....”

— “Onoranda gente davvero sono i fratelli vostri.... La lettera, Salviati, la lettera!” [pg!92]

— “Io non sarò per darvela mai....”

— “Badate, ch’io vi adopererò la forza....”

— “Userestemi voi villania? Non vedete voi ch’io sono disarmato....?”

— “Tanto meglio: così verrò più agevolmente a capo dei miei desiderii. E, aveste spada, tornerebbe lo stesso: chi tratta la penna regge male la spada....”

— “La lettera mi sta sul cuore,” disse il Salviati, facendo croce delle braccia sopra il petto; “e non l’avrete se non mi strappate ambedue....”

— “E lo farò....”

— “Forsennato! Prima di giungere a lui, e’ vi sarà forza passare sopra il mio corpo!” grida Isabella ponendosi tra mezzo a Troilo e a Lionardo.

— “Indietro!” proruppe Troilo; e di un urto mandò la duchessa traverso al lettuccio.

— “Ahi misera! misera Isabella! a quale uomo sagrificasti la tua vita....”

— “La lettera....!”

— “Vi ho detto il modo per averla....”

— “Il sangue vostro sia sopra di voi.” — E traendo fuori la daghetta, Troilo cacciò innanzi la mano manca per afferrarlo. Lionardo non mosse passo; imperterrito, con le braccia incrociate sul petto, si disponeva a patire una violenza contro la quale, e per la fievolezza della persona e per trovarsi disarmato, non poteva opporre nulla. Troilo già lo afferrava, quando si aperse fragorosa la porta, [pg!93] ed entrando in sembianza turbata Lelio Torelli, a voce alta gridò:

— “Il magnifico signore duca di Bracciano....!”

Questo nome parve la testa di Medusa per Troilo: dette indietro, ripose prestamente la daga nel fodero, e s’ingegnò ricomporre il volto; se non che quei due affetti contrarii, di furore e di reprimento, invece di ricondurvi la serenità, glielo sconvolsero in modo che metteva paura a vederlo.

Isabella, che giaceva tolta fuori di sè, si drizzò sopra il lettuccio come per virtù di elettricismo, e stette disfatta con gli occhi intenti verso la porta.

Il cavaliere Salviati, pensando che non essendo di casa poteva allontanarsi onestamente salutando il duca così di passaggio, salvo a complirlo in modo convenevole a suo tempo, senza affrettarsi troppo, e con la solita sua compostezza quinci si tolse.

Percorrendo le sale, e giù per le scale, maravigliò forte di non incontrare il duca, nè vedere nel cortile o alla porta vestigio alcuno che indicasse l’arrivo di tanto personaggio: non sapeva come spiegare la cosa, ma non riputando prudente tornare addietro per chiarirla, pensò che gli sarebbe bastato un’altra volta.

Isabella e Troilo tennero per alcuni istanti gli occhi drizzati verso la porta, pure aspettando di vedere comparire messere Paolo Giordano; ma poichè ebbero atteso invano, Troilo rinvenuto primo dal suo sbigottimento, domandò a Lelio: — “Ebbene, il duca..?” [pg!94]

E Lelio, che avvisava ormai avesse potuto mettersi in salvo il cavaliere Salviati, con aria ingenua a un punto e beffarda si volse a Isabella, e riprese a dire:

— “Il magnifico signore duca di Bracciano manda a salutare la signora duchessa, e le fa sapere che sbrigate alcune sue faccende a Roma, conta venire a starsi con esso lei verso la metà del prossimo mese di giugno....”

E fatto un profondissimo inchino, non senza sogguardare così un tal poco alla trista Troilo, si ritirò. Troilo si accôrse dell’inganno, e forte mordendosi le mani, mormorò fra i denti:

— “Sozzo cane traditore, tu me la pagherai!”

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Isabella Orsini, duchessa di Bracciano

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