Читать книгу Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie - G. Beltrame - Страница 5

II.

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Vendette — Guerre — Armi — Coraggio passivo e fierezza — Ostinazione degli Arabi — Il suicidio — Le montagne dei Dénka — Il Tarciàm.

I Baggàra, come tutti gli Arabi e i popoli barbari, non hanno tribunali per deliberare intorno alle pene dovute ai delinquenti; non hanno polizia per invigilare, prevedere ed evitare i delitti; non hanno prigioni per tenervi chiusi i rei o gli accusati e per far loro scontare la pena ch'essi han meritata; e quindi s'attengono alla legge del taglione, che è la legge della Bibbia, di Menu e del Corano. Occhio per occhio (aèn be aèn), orecchio per orecchio (uèden be uèden), sangue per sangue (ed-dàm b'ed-dàm); l'uccisore deve morire quand'egli non acqueti i parenti della sua vittima, cedendo loro una parte delle proprie sostanze.

All'insulto fatto ad un Arabo Baggàra o ad un suo ospite deve rispondere sovente un'intera famiglia, o tutta la tribù dell'offensore.

Il più leggiero pretesto dà origine tante volte a lotte le più lunghe e le più sanguinose fra tribù e tribù.

Io so di una carovana la quale recandosi dal Kordofàn al Dar-Fùr venne di notte tempo assalita, a poca distanza dalle frontiere, dagli arabi Baggàra i quali uccisero quindici uomini, senza darsi alcun pensiero di trafugarne le mercanzie.

Un Arabo, che conosceva appieno e raccontava minutamente le circostanze di questo incidente, asseriva che i Baggàra avevano compiuto così un atto di giustizia, una vendetta, tarda sì.... ma legittima.

Otto anni prima, alcuni mercanti, giallàba, che battevano questa medesima via, s'erano incontrati in pochi Baggàra, la cui marcia era sembrata loro sospetta, e ne uccisero due, mettendo gli altri in fuga. Ma da questo momento i Baggàra vendicati lasciaron libera la strada, che potè essere poi percorsa dalle carovane senza alcun timore.

Il beduino Sciànfara, come dice la tradizione, pretendeva il taglione per la morte violenta di suo padre. Egli aveva ucciso in diverse imboscate novant'otto de' suoi nemici. Finalmente, sorpreso da alcuni all'orlo di un pozzo, non seppe trovar modo allo scampo e dovette egli stesso perire, ma dopo d'averne ammazzato uno ancora con un colpo di pugno nel petto. Egli però aveva giurata la morte a cento, e il suo voto.... verrà esaudito. Il cadavere dell'Eroe fu sospeso ad un albero e non tardò a decomporsi; le sue ossa si disarticolarono; e un pastore della tribù nemica, passando per caso sotto quell'albero, premette col piede sulla punta di un osso e restò ferito. Nello stesso giorno gli si contrassero spasmodicamente i muscoli e dovette soccombere. Così il voto di Sciànfara, secondo la favola, ebbe il suo compimento.

Una delle cause, e forse la più attiva, delle lotte che di quando in quando intraprendono le tribù del deserto, è la sete ardente che tutti i popoli nomadi hanno del bottino. Guerra e bottino suonano presso loro la stessa cosa; essere vincitore vuol dire spartirsi la preda; vedere un Arabo tornare dal campo di battaglia coronato di gloria, è vederlo ricco di montoni e di cammelli tolti al nemico. Insomma l'eroismo degli Arabi è l'eroismo de' Cosacchi. Essi combattono a cavallo armati di lancia e di sciabola, sparpagliati, stuzzicando il nemico di fronte e dai lati, e tenendolo inquieto continuamente; uccidono il cavaliere per avere la sua giumenta; salvano sè stessi per assicurare la propria.

Havvi in ciascuna tribù una quantità di giovani poveri, i quali ambiscono di far mostra del loro coraggio e di procacciarsi in tal maniera la dote che essi debbono, volendo sposarsi, offerire al padre della fidanzata, dote che generalmente consiste in un certo numero di capre, di pecore, di cammelle o d'altro.

Per questi giovani la guerra è una buona fortuna; la loro suscettibilità quindi per il punto d'onore non conosce confini; il più leggiero pretesto dà origine spesso a lotte le più tremende. Raro è il caso che una tribù viva in pace per più di due anni senza che succeda alcuna infrazione delle leggi del deserto. I vecchi allora ne gioiscono, mentre s'incamminano senza inquietudine verso la tomba. Ma la gioventù?... La gioventù s'agita, si lamenta, si dispera per tanta disgrazia; finchè sorge qualcuno fra i principali personaggi della tribù, rinomato per bravura ed esperienza delle cose di guerra, il quale approfittando della speciale condizione in cui trovansi gli spiriti irrequieti della gioventù, la chiama a sè e le dichiara ch'egli è pronto a guidarla ovunque per derubare i vicini de' loro bestiami, per saccheggiare le carovane, per la tratta dei Negri.

Il Capo, in due o tre giorni, s'è formata una truppa di circa un migliaio d'uomini, e la campagna incomincia.

Da questo momento esploratori sono inviati qua e là per investigare di nascosto ogni cosa; e il Capo sa minutamente quanto succede di giorno in giorno, di ora in ora, nel deserto e presso le tribù vicine. — Viene egli a conoscere che gli uomini forti di una tribù sono partiti per la guerra o per la caccia? — Egli si mette in marcia, sorprende le loro mandre guardate da piccoli fanciulli, le rapisce e dispare in un istante. — È stata veduta una carovana nel deserto? — Egli dispone subito la sua gente a gruppi, e tutti se ne vanno silenziosi verso la carovana tenendo gli occhi sempre all'erta; e questi la precedono, quelli la fiancheggiano, altri la seguono a poca distanza, protetti dalle colline di sabbia che nascondono alla stessa il segreto dei loro passi. Il Capo frattanto e tutti i suoi bravi la spiano cautamente, contano le sue armi, ne studiano l'accampamento, osservano la maniera di allestire i cammelli; l'aspettano al varco, e allora, la sera o il mattino, quando mercanti, servi e cammellieri sono occupati a scaricare o a caricare le tende, le casse, il mobilio, la cucina, i viveri, le mercanzie, o nel momento che si prendono un po' di riposo, un po' di cibo, o appena desti dal sonno, gli Arabi, ad un cenno del loro Capo, si slanciano contro di loro, uccidono quanti si oppongono all'improvviso loro assalto e tutto portano via, non lasciando colà che un campo di morti.

Qualche anno prima del mio arrivo nel Sudàn, una grossa carovana, composta di 120 uomini e 200 cammelli, cadde vittima d'una insidiosa aggressione degli arabi Benì-Geràr. Un solo uomo, di nome Abd-El-Kàder, ebbe la sorte d'aver salva la vita e di poter dare esatti ragguagli del crudele e pietoso avvenimento.

La carovana, partita da Dòngola, era diretta a El-Obèid nel Kordofàn, ove trasportava merci provenienti dall'Europa e dall'Egitto, e datteri di Nubia. Essa si trovava vicina al pozzo Bir-Uày, ove si sarebbe accampata; quando 600 Arabi dei Benì-Geràr, montati sopra 300 cammelli e guidati da un Capo de' più arditi, passarono un po' a sud del pozzo allo scopo di sorprendere e derubare i Kubabìsc del numeroso loro gregge che intorno a quei luoghi da qualche giorno pascolava. I pastori però ch'erano alla custodia di quel bestiame non appena ebbero qualche sentore dell'avvicinarsi dei Benì-Geràr, lasciarono quel posto e s'avviarono verso il pozzo di Elài, che dista da Bir-Uày un giorno e mezzo circa di cammino. E quando i Benì-Geràr s'accorsero della ritirata dei Kubabìsc, due esploratori annunziarono al loro Capo la venuta della carovana al pozzo Bir-Uày. Quindi il Capo adunò la sua gente per chiedere se fosse miglior partito quello di dar tosto l'assalto alla carovana, o l'altro di seguir prima le orme dei Kubabìsc e impadronirsi dei loro bestiami. E tutti furono d'avviso di mover tosto verso il pozzo di Elài, imperciocchè la carovana per tre giorni almeno sarebbe rimasta al pozzo Bir-Uày per ristorarsi delle fatiche del viaggio e per dar riposo e nutrimento ai cammelli.

Partíron subito, e dopo alquante ore di buon trotto giunsero in Elài, ove il gregge dei Kubabìsc non era custodito che da qualche vecchio e da alcuni giovinetti, i quali, come videro i Benì-Geràr, si diedero alla fuga. I Benì-Geràr s'impadronirono di tutto il bestiame e lo incalzarono verso Bir-Uày, ove arrivarono dopo due giorni. Colà si misero in agguato, presso la carovana, dietro a due lunghe colline di sabbia aspettando il momento opportuno per assalirla.

I mercanti frattanto coi loro servi vivevano sicuri, tranquilli, allegri almanaccando intorno ai guadagni che speravano ricavare dal traffico delle loro mercanzie.

La vigilia del giorno fissato per la partenza, colui che soleva dirigere la carovana diè l'ordine di riunire i cammelli ch'erano sparsi qua e là, lasciati liberi di pascere gli arbusti spinosi della vallata. Tutti furono rinvenuti ad eccezione di un solo, che apparteneva a un mercante, il quale non poteva darsi pace d'averlo perduto; e vedendo appressarsi la notte, comandò a un suo schiavo di ricercarne le tracce e di seguitarle finchè l'avesse trovato. Lo schiavo, riconosciute le pedate, rinvenne il cammello del mercante, ma presso i Benì Geràr, i quali, come del cammello, divennero padroni anche dello schiavo.

Frattanto il mercante, passate alcune ore, vedendo che oltre il cammello anche il servo era scomparso, voleva egli stesso mettersi in cerca dell'uno e dell'altro; ma il suo amico Abd-El-Kàder: no, disse, è notte, e temo che tu smarrisca la via; andrò io, che sono un po' più pratico del deserto.

Abd-El-Kàder aspettò che tutti si fossero ritirati nelle loro tende; si ravvolse in una cappa bianca, e con un triste presentimento nell'anima si diresse pian piano a quella parte verso la quale s'era incamminato lo schiavo. — In tutto l'accampamento regnava un silenzio profondo. — Dopo circa un quarto d'ora, salì sopra una collina di sabbia, discese, traversò una stretta valle, ove qua e là vedeva qualche macchia nera. — Erano cammelli accosciati. — Ebbe allora per un momento la tentazione di rinunziare all'impresa di procedere più innanzi; cominciò a sospettare d'un'imboscata, e temeva d'essere sorpreso da qualcheduno dei nemici. Ma la curiosità vinse la paura e tirò avanti in punta di piedi, finchè trovossi sur una seconda collina e vide a un tratto brillare davanti a' suoi occhi i fuochi accesi dei Benì-Geràr. — L'oscurità della notte lo proteggeva; egli potè arrestarsi un istante; contò press'a poco i fuochi e gli uomini; si stese in terra, e tese l'orecchio; udì confusamente qualche discorso che gli parve si riferisse alla sua carovana; e tutto commosso di ciò che aveva veduto ed udito tornò frettoloso e tremante all'accampamento de' suoi.

Tutti erano quieti nelle loro tende; solamente l'amico l'attendeva con qualche buona notizia; ma quando intese ciò ch'eragli avvenuto: ci siamo, sclamò; ora convien pensare a salvarci.

Furono tosto chiamati a consiglio i mercanti, i servi e i cammellieri, ai quali Abd-El-Kàder raccontò ogni cosa e gli invitò a una pronta deliberazione.

Ecco i due quesiti proposti: «dovrem noi partire stanotte?... o sul far dell'alba?...

Meglio sarebbe stato, secondo il parer mio, appigliarsi al primo partito. I mercanti però risolsero di differire la partenza allo spuntar del giorno, poichè nella notte, com'essi dicevano, il grugnito de' cammelli avrebbe svegliato i nemici, i quali sarebbero accorsi per impedire che fossero caricati. — Ma il grugnito de' cammelli, io dico, gli avrebbe pure svegliati all'alba, quando fossero stati addormentati. — Meglio era partire la notte, perchè allora i Benì-Geràr dormivano senza dubbio; avrebbero dovuto quindi svegliarsi, accordarsi, riunire i loro cammelli; la qual cosa richiedeva tempo e presentava maggiori difficoltà fra le tenebre della notte. Oltre a che la carovana, se fosse riuscita a partire prima d'essere assalita, poteva mutar direzione nel suo cammino e rendere così malagevole al nemico l'inseguirla; e nel caso fosse stata raggiunta, essa avrebbe potuto opporgli una resistenza assai meno pericolosa che durante la lunga e faticosa operazione del suo allestimento, il quale sarebbe stato certamente interrotto dagli Arabi all'alba del mattino. Di fatto, mentre un po' prima dell'aurora i cammellieri, i servi e i mercanti stessi s'affaccendavano a mettere in pronto la carovana, duecento Benì-Geràr montati sopra cento cammelli sboccarono nella valle, e al primo vedere la loro preda saltaron giù dalle cavalcature, e sparpagliati in un grandioso disordine, agitando convulsivamente le lance, imprecando, e mandando grida selvagge, le s'avventarono contro come leoni affamati. I mercanti credendo dapprima di non avere altri nemici da combattere tentarono di resistere all'improvviso assalto; tirarono alcuni colpi di fucile contro di loro che non erano armati che di lance: ma, tutt'a un tratto, e nel momento in cui la carovana cominciava a pigliar confidenza nelle proprie forze, cento cammelli da una parte e cento dall'altra trasportarono sul campo di battaglia quattrocento Arabi ancora. Fu quindi un terrore, un'angoscia da non potersi descrivere. La gente della carovana stretta tutt'all'intorno dai Benì-Geràr venne barbaramente trucidata in pochi minuti. Solo Abd-El-Kàder, non avendo ricevuta alcuna ferita, riuscì a gittarsi a terra e a fingersi morto. Ma un Arabo passandogli accanto lo punse leggermente colla sua lancia, e da un movimento che vide lo riconobbe per vivo; lo fece alzare e lo condusse davanti al suo Capo. — La carneficina era già consumata; tuttavia il Capo allettato dall'odore del sangue propose di legarlo a un albero, e così per passatempo di ucciderlo a colpi di giavellotto. — A un segnale del Capo il crudele divertimento incominciò a spese di quel disgraziato. Ma per un singolare accidente, cui il Capo ascriveva a miracolo, dieci o dodici colpi successivi di lancia sfiorarono la pelle di Abd-El-Kàder senza ferirlo gravemente. Il Capo allora stupito esclamò: la tua vita, o amico, è molto dura, o Dio ti vuol salvo. Ebbene! sii adunque libero, e vattene pure ove meglio ti aggrada. — Abd-El-Kàder che da quel momento era libero, ma libero in mezzo al deserto, senza camicia e senza cibo, stette fermo al suo posto. — E dunque! gli domandò il Capo, tu non pensi di andartene? e che altro t'aspetti? — E dove mai, egli rispose, vuoi tu ch'io me ne vada? e come potrò campare la vita senza alimento alcuno? ho io nè manco un otre per conservarvi un po' d'acqua? — Gli Arabi frattanto si dividevano i datteri tolti ai mercanti; e per far giuste le parti li contavano ad uno ad uno. — Il Capo quindi, messa la mano in una cesta, ne prese trenta e li consegnò ad Abd-El-Kàder, a cui diede pure un vecchio otre, e poi gli disse: or vattene; che ti guidi Iddio e che ti benedica. — Abd-El-Kàder, incerto della via che avrebbe dovuto prendere per imbattersi in qualche carovana ed unirsi ad essa, s'avviò pensoso e sconfortato verso il pozzo per riempirvi d'acqua il suo piccolo otre. Ma l'otre era forato, e invano n'avrebbe chiesto un altro agli Arabi. Egli allora si risolse di non abbandonare il pozzo, e di attendervi rassegnato tutto ciò che di lui avesse voluto il destino. La sera del giorno stesso i Benì-Geràr erano scomparsi, e l'infelice Abd-El-Kàder, sentendosi morir di fame, mangiò i trenta datteri senza poi sentirsene sazio. Fortuna che il torrente che conduceva al pozzo era coperto d'arbusti spinosi chiamati dagli Arabi es-segiàr, e rhamnus lotus dai botanici, il cui frutto, che è una bacca, forniva anticamente l'alimento ai Lotofagi; e gli Arabi, che lo dicono nàbak, ne fanno uso pure oggidì; Abd-El-Kàder dovette rassegnarsi a questa manna che gli dava il deserto, la quale però ci voleva per salvargli la vita. Così tirò avanti per quindici giorni; ma in ultimo era ridotto sì male da non potersi più reggere in piedi, e fu costretto a ritirarsi in un antro sinuoso, ove per pietà invocava la morte. Finalmente un gawàs (sgherro) turco guidato da un Arabo e diretto, a dromedario, verso El-Obèid s'avvicinò al pozzo per rinnovar l'acqua al suo otre.

Abd-El-Kàder, che altro non s'aspettava che la morte, li vide di lontano e cominciò a sperare la vita; fece sforzi incredibili per levarsi da terra e mover loro incontro, ma invano; le braccia e le gambe più non gli servivano: a stento riuscì a strascicarsi fino alla bocca della spelonca e a mandar fuori lamenti e gemiti da intenerire il cuore più duro. Il Gawàs fu il primo ad udir quelle grida, e disse al Beduino che lo accompagnava: ascolta.... ascolta tu pure.... queste sono certamente le grida d'una bestia che soffre dolore.... ed escono da quella grotta che tu vedi là presso il torrente; eccola, eccola la fiera che si contorce.... debbo io inviarle contro la palla della mia pistola?

— No, no, rispose il Beduino: io son d'avviso ch'esse sieno invece le grida d'un infelice che chiede soccorso, e io voglio assicurarmene: balzò giù dal dromedario, e dopo pochi salti fu alla spelonca. — Oh spettacolo!! — Il Beduino levò di peso Abd-El-Kàder e sei portò al pozzo, ov'egli venne trattato con umanità e si sentì subito ristorato. I due passeggieri consecrarono inoltre quel giorno a sotterrare i morti compagni di Abd-El-Kàder, i cui corpi disseccati dal sole giacevano ancora sopra la sabbia rossa del loro sangue; e l'indomani partirono tutti e tre alla volta di El-Obèid.

Dopo qualche anno alcuni Baggàra raccontavano con tuono di vanto questo avvenimento colle più minute circostanze.

Il suono d'un tamburone, chiamato noggàra, battuto a misurati colpi invita la tribù al combattimento ed annunzia ancora una semplice mutazione di posto per comodità dei pascoli.

L'arma degli Arabi nel Sudàn, e così presso i Baggàra, è la lancia (hàrba), la quale serve loro anche da giavellotto. Questi Arabi non hanno nè arco, nè frombola, che tanto solevano usare i loro antenati. I capi specialmente si servono pure di lunghe spade diritte cui imbrandiscono con ambo le mani.

In guerra si difendono collo scudo che non è altro che un telaio ovale, formato d'un legno flessibilissimo e traversato per lungo da un asse della medesima specie, sopra il quale essi stendono e fissano la pelle del dorso d'un'antilope. La sua larghezza è circa di due piedi, e dai tre ai cinque l'altezza. La superficie esteriore è convessa, e nel mezzo della parte opposta sta l'impugnatura. Sull'orlo poi superiore sono, per lo più, alcune tacche, delle quali si valgono per appoggiarvi l'asta della loro lancia e per dirigerne quindi meglio i loro colpi. Quantunque la pelle di cui è formato lo scudo sia molto dura, pure succede talora che vien perforata dalle punte dei giavellotti; perciò il guerriero cerca di ripararne i colpi o colla sua lancia o collo scudo, che oppone in direzione obliqua alla linea percorsa dai giavellotti. L'Arabo minacciato dal nemico s'abbassa, mettendo un ginocchio in terra e coprendosi nello stesso tempo collo scudo; scatta poi su come una molla allorquando alla sua volta egli tenta di attaccarlo.

I Baggàra combattono possibilmente a cavallo, ed allora non hanno lo scudo, di cui sono quasi sempre muniti i soldati a piedi. Questi vengono tradotti a cammello sul teatro del combattimento; e ciascun cammello ne trasporta due, dei quali l'uno siede sul gibbo e l'altro si tiene in sulla groppa del ruminante. Questo mezzo di trasporto torna nel Sudàn assai facile e pronto; e siccome i cammelli vi si trovano in una quantità enorme, così arrivati a posto i combattenti non se ne danno gran pensiero, ma gli affidano a pochi guardiani, i quali a non molta distanza attendono inquieti l'esito della pugna.

Gli Arabi del fiume Bianco, come i Nubi, hanno quasi tutti legato sopra il gomito sinistro un pugnale del quale si servono a vari usi, e qualche volta per isfogare le loro gelosie o per far mostra del loro coraggio. — Un d'essi ha preso moglie e trovasi contento, beato d'aver ottenuto quella mano, a cui tanti altri aspiravano ardentemente ma invano. Or questi ingelositi della sua felicità non lo perdono d'occhio mai, gli tendono continue insidie, non gli lasciano un istante di riposo; e quand'egli meno ci pensa sente che la punta di un pugnale gli trapassa la polpa d'una gamba o lo ferisce in un braccio o in una spalla. Se il ferito giunge a conoscere il feritore, lo sfiderà poi a duello davanti al Capo della tribù, duello che avrà luogo col pugnale e alla presenza del Capo stesso. Ma nell'atto del tradimento si guardi bene il tradito dal lasciarsi sfuggire un grido, dall'emettere il più piccolo lamento per non meritarsi fama d'uomo debole e vigliacco, servo del dolore; s'egli camminava non s'arresti punto: se parlava non interrompa il discorso, non si conturbi, nè volga il capo verso l'assassino.

Qualche volta un giovine guerriero racconta ad altri giovani le sue prodezze e se ne vanta, dicendo che nessuno può superarlo in valore; e un altro giovine, che non può più tollerare le sue petulanti presunzioni, senza rispondergli afferra il pugnale e se lo conficca in una coscia, e passandolo poi insanguinato al millantatore, lo invita a fare altrettanto s'egli non vuol essere da meno.

Questi costumi sono senza dubbio barbari e feroci; non si può negare però ch'essi imprimano in coloro dai quali vengono praticati una singolare energia, un coraggio passivo, invincibile e stoico. E si noti che questi atti di eroismo si manifestano specialmente fra i giovani che appartengono alle più distinte famiglie della tribù.

Molti fra noi male sopportano un forte dolor di capo, di denti, di stomaco; la più leggiera ferita strappa loro un grido; ma l'Arabo invece saprà sostenere senza risentirsi e senza rammaricarsi i più atroci tormenti; e non è ch'egli non soffra; egli soffre quanto noi soffriamo; ma il punto d'onore gli fa dire come allo stoico: «Non sarà mai, o dolore, ch'io ti confessi in nessun modo.» Non la sete, non la fame nè la stanchezza nè le ferite profonde di una lancia potranno indurlo ad inquietarsi; e mentre nei divani dell'Egitto si veggono i Fellahìn, condannati al bastone o alla sferza, trascinarsi piagnolosi ai ginocchi delle autorità turche perchè sia loro conceduto il perdono o alleviata la pena, s'è ammirato più d'una volta l'Arabo del Sudàn subire lo spaventevole supplizio del palo senza accordare a' carnefici assetati di vendetta il trionfo di un gemito, la soddisfazione di una lagrima.

Io so d'un Arabo il quale, facendo parte d'un drappello militare che aveva seguito il governatore del Kordofàn in una spedizione contro i Baggàra, si rese colpevole d'omicidio, ed assiso quindi presso il cadavere della sua vittima attendeva paziente e tranquillo che i satelliti del Governo venissero ad arrestarlo. Alcuni soldati, che di là passarono per caso, lo videro, l'afferrarono e lo condussero alla tenda del Governatore.

Più di venti uomini stringevano l'omicida il quale non opponeva alcuna resistenza; e chi lo tirava per le braccia, chi per le gambe, chi pel collo e chi per i capelli; e com'egli fu davanti al Governatore: «Sappi, o Signore, sclamò, ch'io non ebbi la viltà di fuggire dopo l'uccisione del mio Capo, ma attesi imperterrito la mia cattura; or dì adunque a' tuoi cani che mi lascino in pace, affinchè libero io possa, se mai, marciare al supplizio come un uomo.» Il Governatore ordinò fosse lasciato libero; e l'Arabo allora cominciò ad esporre i motivi che, secondo lui, erano più che sufficienti a giustificare il suo delitto. Ma il Governatore lo condannò a morire legato alla bocca di un cannone carico a palla, a cui egli stesso avrebbe dovuto dar fuoco. Mentre si facevano i preparativi per l'esecuzione della sentenza, l'Arabo che aveva sentito con tutta indifferenza la propria condanna uscì dalla tenda ove si trovava, e avvicinatosi a un gruppo di soldati che lì presso erano accoccolati, pregò uno di essi che fumava a voler cedergli un istante la pipa; quindi si raccolse più che gli fu possibile in sè stesso, fumò mezza pipa, e quando lo si venne ad avvertire che tutto era pronto pel suo supplizio, la restituì al padrone, lo ringraziò, lo salutò e mosse con passo fermo verso il cannone, infame strumento della sua morte.

Le esecuzioni, di cui noi fummo parecchie volte testimoni in Europa, offrono uno spettacolo ben differente; la maggior parte dei colpevoli che prima d'essere caduti nella mano inesorabile della giustizia facevano i rodomonti, vinti poi dal terrore furono veduti strascicarsi sul palco più cadaveri che persone vive.

Noi abbiamo veduto l'Arabo fiero e dotato della più squisita suscettibilità; ma invincibile è pure la sua ostinazione; non c'è caso di smuoverlo quando egli si sia fissato con la mente in un'idea, in un capriccio qualunque; le preghiere tornano vane, inutili le minacce, il bastone e la sferza; la morte stessa non l'indurrebbe a mutar consiglio; meglio è allora abbandonarlo a sè stesso finchè da sè stesso rinsavisca.

Un mercante europeo viaggiava in un deserto del Sudàn, e guida della sua carovana era un Arabo, a cui solo era nota la via che si dovea percorrere per giungere a un dato luogo. Dopo due o tre giorni di cammino, l'Arabo non avendo di che cibarsi chiese al cuciniere, che preparava la cena pel mercante, qualche cosa da mangiare. Il cuciniere gli rispose con mal garbo d'aver pazienza un poco. L'Arabo aspettò un quarto d'ora, e poi rinnovò la domanda. Il cuciniere indispettito gli diè sulla voce, e intanto capitò là il mercante che fece all'Arabo un acerbo rimprovero, perchè voleva essere servito prima di lui ch'era il padrone. L'Arabo, che credeva di non meritare tali parole di censura e di biasimo, insistette nella sua domanda, che questa volta espresse con un «voglio mi si dia da mangiare.» Allora il mercante: ebbene, disse, poichè sei così prepotente da volere quel che vuoi tu, e non quello che voglio io, sappi che ti tratterò da qui innanzi come un asino indocile.... e stasera non cenerai per dio! — Così fu — l'Arabo tacque, abbassò il capo e si ritirò in disparte.

All'indomani il mercante si levò di buon'ora, e com'era solito di fare, uscito dalla tenda, risvegliò la sua gente ed ordinò il carico de' cammelli; quindi rientrò a bervi il caffè aspettando che tutto fosse in punto per rimettersi in via. Ma poco dopo un servo veniva ad avvertirlo che la guida si ricusava di sellare la sua cammella e di continuare il cammino. Egli stimò bene di tacere, sperando che l'Arabo non l'avrebbe durata a lungo nel suo proposito; fece un giro intorno all'accampamento; passò vicino alla guida fingendo di non essersi accorto di nulla. Venuto il momento della partenza, l'Arabo colla sua lancia in mano era sempre là immobilmente assiso sopra la sabbia come uno che non dovesse far parte di quella carovana. Ma.... come? — disse il mercante — tu non se' pronto ancora? — No, rispose, poichè non posso partire; tu non ignori che ieri io non assaggiai briciola; il mio ventre è vuoto ed ha bisogno di riposo. E poi tu mi dicesti, n'è vero? ch'io sono un asino; e tu pure devi sapere che non è possibile che un asino possa guidare degli uomini. — Alzati, te lo impongo, gridò allora con voce animata il mercante. — L'Arabo non si mosse di così com'era. — Ed egli lo percosse con un colpo di sferza. — E l'Arabo sempre fermo al suo posto come una statua. — Il mercante cavò quindi dalla sua cintura una pistola, e drizzatane la bocca alla fronte della guida: tu partirai, le disse, o ti farò saltare in aria la dura tua cervice.

Un Italiano, un Francese, un Inglese, un Turco avrebbero ubbidito, o si sarebbero difesi. Ma l'Arabo? l'Arabo armato della sua lancia nè volle ubbidire nè difendersi, e levatosi ben tosto da sedere, gittò via la lancia e cominciò a danzare davanti al mercante dicendo: ammazzami adunque, ammazzami presto: sono io forse un turco da temere la morte?

Il mercante ch'era ben lungi dal credere che la cosa la sarebbe andata a finire così, si trovò in un bell'imbarazzo. Aspettare che di là passasse qualche carovana e unirsi ad essa.... avventurarsi senza guida in un deserto ove non esisteva traccia alcuna di via.... era un esporsi a morir di sete con tutta la sua gente. Egli s'appigliò finalmente al partito, ch'io credo sia stato il migliore, di seguire cioè le tracce già stampate da' cammelli nella sabbia, e rifare così la strada, la quale l'avrebbe condotto ad un pozzo, che aveva abbandonato da circa due giorni; sperava frattanto d'incontrarsi in alcuni Arabi e di provvedersi d'un'altra guida. Montò in sella, e senza lasciare trasparir nulla di ciò che lo inquietava moltissimo comandò alla sua gente di ritornare verso il pozzo, mentre egli contava i passi del suo cammello, risoluto di retrocedere e di uccidere la guida, se prima d'averne contati cento non l'avesse veduta marciare alla testa della carovana.

Ma non appena questa si mosse, ecco l'Arabo che si rizzò lestamente, si diresse verso la sua cammella, la sellò in un batter d'occhio, le si slanciò sopra, e raggiunta la carovana la rimise sul sentiero che dovea condurla là dove il mercante era diretto. Or questi in tutto quel giorno non fece parola alla guida come non l'avesse veduta, e come niente fosse accaduto. Venuta la sera, e posto l'accampamento, l'Arabo si prostrò ai piedi del mercante piangendo come un bambino; ma il mercante due volte lo respinse; e due volte l'Arabo, pentito, gli s'inginocchiò davanti dicendo: ah! perdonami, o Signore; non è il gastigo da me giustamente meritato ch'io temo; conosco il male che feci e l'angustia che ti recai colla mia condotta, e son pronto a scontarne la pena; ma ti supplico, per ciò che hai di più caro al mondo, a non conservar rancore contro di me, a volere dimenticar tutto; e ti giuro che non avrai più di che lagnarti del mio servizio. — Il mercante ordinò al cuciniere gli si portasse da mangiare; l'assicurò del suo perdono, ed imparò ancora una volta come gli Arabi debbano essere trattati.

Vogliamo notare però che, quando l'Arabo non sia giunto a un certo grado di ostinazione, se v'ha mezzo d'indurlo a far qualche cosa è quello delle minacce e della forza, non mai quello delle promesse e della preghiera.

Il suicidio è rarissimo fra gli Arabi, e non v'ha, si può dire, caso in cui lo si approvi o lo si scusi; tutti, senza eccezione, lo condannano e gli si dichiarano contro più o meno severamente secondo i motivi dai quali esso è determinato. E faccio qui osservare che gli Arabi, quelli almeno coi quali io parlai, non vogliono nè manco supporre che l'attentato contro la propria esistenza possa avvenire con volontà pienamente libera, e quindi con perfetta coscienza dell'atto che viene commesso. L'istinto naturale della propria conservazione è così sentito, che non permette loro di fare una tale supposizione.

L'uomo, dice il Beduino, deve colla sua savia condotta saper evitare la passione, il dolore, il rimorso, l'infortunio che lo inducono a tanta viltà; o se pure è colto da qualche sciagura improvvisamente, deve trovarsi apparecchiato ad affrontarla e a vincerla. L'Arabo insomma non la intende di scusare in nessun modo il suicida da lui sempre considerato qual vile insofferente del dolore; e però sommamente spregievole.

E chi crederebbe esservi fra noi, che pur non siamo beduini, chi loda ed esalta il suicidio? — Si volesse almeno riflettere che mentre fra gli Arabi il sentimento di alta riprovazione dei suicidi ne diminuisce grandemente il numero, presso noi invece la lode e la scusa tanto spaventosamente l'accrescono.

La riva destra del fiume, da Chartùm al 12º grado, non presenta al viaggiatore quell'interesse che gli desta nell'animo la riva sinistra.

Passato il confine della dominazione egiziana, e dopo le secolari foreste vergini e impenetrabili che a sinistra la dividono dalla potente e brutale razza dei Negri Scìluk, s'ergono a destra del Bàhr-el-Àbiad le montagne dei Dénka. — Ed ora mi tornano alla mente con affettuoso e profondo sospiro i bei momenti quando io e la buon'anima del missionario Angelo Melotto, mio collega, nel 17 marzo del 1859, salimmo la cima di una delle più alte di quelle montagne, per adocchiare in un istante tutta la parte da noi con tanta fatica esplorata nella penisola del Sènnaar ove abitano alcune tribù dénka, fra le quali speravasi di fondare la Missione Italiana. — Le montagne dei Dénka, poste tra il 12º e il 13º grado di latitudine, diconsi Niemàti dalla tribù più vicina degli Abialàñġ; e sulla carta del Werne trovansi del pari fra questi due gradi e son chiamate da lui G. Njemàti; le vedo pure segnate sulla confusa carta di Brun-Rollet sotto il nome di Dj. Hemàja, e su quella del Zimmerman di Jeb.-jemàti. Dagli Arabi poi sono dette Giobàl-ed-Dénka, perchè un tempo i Dénka della penisola s'estendevano a nord fino a quelle montagne; ma, fatti scopo alle continue incursioni degli Arabi Abù-Ròf, si ritirarono poi alquante miglia geografiche verso sud. Tuttavia gli Abù-Ròf fanno a cavallo frequenti scorrerie tra i Dénka per derubare il dùrah, di cui abbondano, e, potendo, anche i loro figliuoli[3].

Questi Negri, abitanti tra il 12º e il 9º lat. N., sono chiamati Dénka dagli Arabi della penisola del Sènnaar; dagli Arabi poi situati alla sinistra del fiume Bianco sono detti Gianghè, come la tribù che divide i Scìluk dai Nuèr. Ma gl'indigeni si riconoscono col nome di Gièn; e con questo nome generale appellansi tutte le tribù che parlano la lingua dei Dénka, avendo ciascuna anche un nome proprio significativo, come meglio vedremo parlando delle tribù Dénka del Nilo superiore, le quali hanno con queste comuni i costumi.

I Scìluk però e i Nuèr non sono compresi nel novero dei Gièn, dai quali vengono considerati come antichi invasori delle loro terre. E in fatto essi fanno uso di un'altra lingua, sebbene intendano e parlino pure quella dei Dénka.

Chi amasse entrare in particolari sulla conquista che la potente e fiera tribù dei Scìluk fece, molti anni sono, del Sènnaar, rendendosi tributario il paese fino a Bèrber, non ha che a leggere il Bruce e il Brocchi[4].

Presso l'11º grado, a destra del fiume Bianco, s'alza un piccolo monte, che gli Arabi nominano Tefafàn o Bìbar, e i Dénka Kur-uìr, cioè masso del fiume. In questo punto Brun-Rollet sulla sua carta segna un influente, ch'io trovo notato anche su altre carte, a cui dà il nome di Pìper (dal monte Bìbar); ma in realtà non è che un canale, o, per usare della frase dei Dénka, un occhio del fiume (ñġàen) chiamato da essi Tarciàm, il quale esce dal fiume presso il monte Bìbar, e dopo un giro di circa quindici miglia geografiche ritorna nel fiume stesso. La sua maggiore distanza dal fiume è dalle quattro alle cinque miglia. Ciò riscontrai col mio collega defunto Angelo Melotto in una nostra esplorazione fra i Dénka Abialàñġ.

Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie

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