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I

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Suonaron le dieci, lentamente, nell’ombra. Poco dopo i rintocchi si ripeterono più decisi, più rapidi nell’anticamera.

Enrico, dopo avere alcun tempo indugiato origliando tra i due battenti socchiusi, entrò cautamente nella stanza, avvolta in una densa penombra verdognola. L’aria v’era un po’ viziata, benché un diffuso profumo, misto di violetta, d’acqua di Colonia e di tabacco, vi signoreggiasse: v’era quell’odore speciale, direi quasi organico, che ànno le camere dove qualcuno abbia lungamente dormito; e un respiro lieve e alquanto irregolare annunziava appunto che una persona vi dormiva ancora serenamente in braccio all’onda dei sogni mattutini.

Il servo attraversò in punta dei piedi la camera, e s’avvicinò all’alta finestra, ch’era stata accuratamente rinchiusa ma lasciava da alcune connessure penetrare il giorno già avanzato, intersecando di lamine luminose l’oscurità. Aperse senza far remore le imposte; la luce verdognola delle persiane invase, diffondendosi, la stanza, e andò a frangersi nelle ricche dorature e nella lucidezza metallica degli specchi. Nel mezzo ergevasi, tra il lusso del cortinaggio di velluto, il letto di mogano artisticamente intagliato a foggia antica, e qua e là spiccavan varî mobili di diverso stile: una spera altissima rifletteva quell’eleganza un po’ chiassosa in una cornice ad alto rilievo, raffigurante nella base un canotto marinaresco, e negli stipiti, – da un lato, un amplesso di palmizî, i cui ciuffi larghi, protendendosi, componevan l’architrave, – dall’altro, un cespite di arnesi da pesca bellamente raggruppati. Sopra gli usci pendevano dei trofei guerreschi e dei massacri da caccia: dalle pareti, arazzi policromi a soggetti mistici e profani. Era un complesso di lussuosa ricercatezza, in cui, più che il gusto, si notava il desiderio esagerato d’accumulare oggetti ricchi e preziosi in poco spazio.

Enrico, spalancate le imposte, si rivolse e guardò il padrone che dormiva sempre, supino sul gran letto, il viso rivolto verso l’alto, – un viso fino, accurato, un po’ pallido, ma con un’espressione di calma dolcissima. Le dieci eran già battute da qualche minuto, e il servo aveva l’ordine di svegliarlo appunto a quell’ora. Egli s’accostò al letto, sostò alquanto di fronte all’inconsapevol serenità del dormente, poi si decise a scuoterlo dal letargo profondo, chiamandolo una prima volta leggermente, poi un’altra volta più forte.

– Signore!.. Signore!..

Paolo Érmoli si scosse d’un tratto. Aperse quanto poteva gli occhi, li fissò un po’ turbato in volto al servo.

– Signore, sono le dieci! – disse Enrico, impassibile come un’erma.

– Le dieci? – Paolo chiese senza capire.

– Le dieci, – ripeté il servo.

Paolo Érmoli si fregò gli occhi con un moto infantile, si stirò un poco le membra ancor torpide, poi, come un ricordo lieto gli fosse balenato nel pensiero, sorrise ed esclamò allegramente:

– Via, apri le finestre e lascia entrare un po’ d’aria.

Pronunziò queste parole con una così schietta espansione, come volesse dilatare i polmoni a un libero respiro in un’aria fresca e salubre per un istintivo bisogno di forte vitalità.

Enrico obedì prontamente; schiuse le vetrate, spalancò le persiane e un nembo di polvere d’oro precipitò nella camera. Il mattino d’aprile, tepido e chiaro (era il sabato santo), ostendeva al giacente un cielo temprato e puro, d’una trasparenza di cristallo cobalto; i fastigi bianchi delle opposte case riverberavan la gran luce, come fossero incandescenti, nella camera lussuosa, riempiendola tutta d’un chiaror gajo, quasi eccessivo.

Quella luce suprema, quell’aria primaverile, d’un tenue tepor d’ombra, esilararono ancor più il volto di Paolo; gli parve di specchiare in quel giocondo spettacolo mattutino, la rinascenza dell’anima sua; oh, anch’egli in quel giorno trionfava, dopo una lunga lotta combattuta contro gli uomini, e, vincitore, s’incamminava a ricevere il pallio sospirato della vittoria!

– Portami sùbito il caffè, – gridò Paolo con lo stesso accento di prima al servo, in aspettazion d’ordini su la soglia.

Enrico annuì silenziosamente, e uscì.

Paolo (avrà avuto trent’anni all’aspetto; era magro, ma roseo, con una breve barba a punta assai più bionda dei capelli arruffati) s’appoggiò ai cuscini, socchiuse gli occhi e s’abbandonò all’ebbrezza di quell’esaltazione orgogliosa. Ei si sentiva sodisfatto e felice, e, senza spingere l’occhio nel fosco passato, assaporava sensualmente il dolce benessere dell’ora presente. Non era stato forse il desiderio di tutta la sua giovinezza quell’opulenta indipendenza di vita che or mai poteva godere incontrastata? Senza pensare ai mezzi, con cui era riuscito a raggiungerla, egli si compiaceva ingenuamente nel sottile raffronto tra la condizion presente e gli anni trascorsi di torbide inquietudini e di diuturne umiliazioni; e gli sembrava d’essere uscito da una lunga battaglia, affrontata lealmente, dopo aver conquistato all’avversario le bandiere ed averne invaso trionfante le ubertose contrade. Provava quella stessa gioja orgogliosa che prova un capitano dopo una dura vittoria; e, come a questo, essa gli faceva dimenticare i caduti nella battaglia.

Attraverso però a quel miraggio di felicità materiale, s’insinuava a poco a poco, limpido e crescente, un pensiero più intimo, che forse lo riempiva ancor più dell’altro di dolcezza: uno di quei pensieri sentimentali, che commuovono le più indurite fibre e le più gelide anime, e che riusciva a risvegliare in lui, come per incanto, un cumulo di sensazioni e d’entusiasmi giovenili. Egli lo sentiva salire lentamente dal cuore e godeva di lasciarselo impadronire man mano della mente con la fresca prepotenza d’acqua sorgiva, che, gorgogliando fuor dalle rocce, sopra a queste si distenda e le nasconda nella metallica uniformità della sua lucida superficie.

Un sorriso d’estasi gli increspò le labbra e respirò con maggior forza. Poi chiuse gli occhi quasi per concentrarsi, e nell’oscurità rossastra gli si disegnò con una vaporosità di contorni soavissimi la squisita forma di donna Fulvia, la ricchissima vedova del conte Ateni, l’amante appassionata di Diego Rebeschi, il suo povero cugino. Oh! ella era pur bella, e sarebbe stata sua in quel giorno! Il fantasma allucinante di lei si deformò in un attimo, ma il pensiero lo ricostruì tosto e lo inseguì poi ancora lungamente.

Paolo cominciò a ideare la promettente giornata e a imaginarne con morbida compiacenza gli episodî. Fulvia doveva aver già ricevuto a quell’ora la preziosissima collana di perle, – il dono nuziale, – e doveva aver già letto la semplice e gentile iscrizione: Ora e sempre, che nell’oro del fermaglio egli aveva fatto incidere. Quando sarebbe andato da lei, ella gli avrebbe steso le due piccole piccole mani, arcuando leggermente indietro la flessuosa forma, quasi per mitigare quell’atto d’aristocratica confidenza; ed egli per la prima volta l’avrebbe tratta a sé vincendo la feminile renitenza e avrebbe deposto su quella limpida fronte il primo bacio.

Questa idea gli infocò le vene; sentì un brivido caldo salire dalle reni alla nuca, e, spronato dal desiderio, sorvolò su la insignificante cerimonia ufficiale delle nozze e sul breve viaggio, per correre con l’imaginazione al momento in cui si sarebbe trovato solo, libero e padrone di lei, nella suntuosa e poetica sua villa su le rive del Lario. E gli si presentò Fulvia mezzo discinta con i capelli neri sciolti su le spalle, gli occhi stranamente illuminati dalla prospettiva del piacere: e le indovinò sotto i pizzi ricchissimi, spumeggianti dallo slacciato corpetto, la rosea trasparenza del seno sobrio e sostenuto; e vagheggiò di tuffare la faccia in quel candor misterioso, d’onde doveva sprigionarsi intenso quel mite profumo di ylang-ylang, che nelle strette di mano ella gli aveva tante volte comunicato. Questa fantasia voluttuosa, per mezzo della quale Paolo tentava di prevenire il tempo, lo travolse così co’ suoi fascini deliziosi ch’egli si diede a sviscerare in tutte le più segrete raffinatezze la scena gaudiosa, e vi si appassionò tanto ch’essa finì a prendere l’aspetto veritiero del sogno.

Enrico, recando il caffè, entrò, sempre in punta dei piedi, per l’abitudine mattutina di metter ordine nel quartierino da scapolo senza risvegliare il padrone: e al romore dell’uscio che s’apriva, Paolo Érmoli riaperse gli occhi, si scosse, si levò ancora a sedere, abbandonando la sua fantasticheria di felicità.

– L’ài fatto molto forte? – chiese per obedire al bisogno spontaneo di espansione, ond’era quasi inebriato.

– Come al signore piace! – rispose il servo.

– Bravo Enrico! – aggiunse Paolo, fregandosi le mani allegramente.

Enrico, poco abituato a quella familiarità quasi affettuosa, lo guardava stupito, ritto presso il letto, stendendogli la tazza fumante.

L’Érmoli la prese in mano, e rimase alquanto ad ammirarla.

“Ecco un oggetto d’arte„ pensò, “e serve per una delle più insignificanti occupazioni della mia vita quotidiana! Io lo stringo un istante nelle mie dita, l’appoggio a pena alle mie labbra, poi lo riconsegno al domestico, e la sua missione per la giornata è finita; eppure un artefice non mediocre vi à stillato un po’ del suo ingegno, vi à speso un po’ della sua vita, vi à giocato un po’ del suo amor proprio!„

L’Érmoli si sentì profondamente lusingato da questa idea: ricordò involontariamente la disadorna tazza, nella quale soleva prendere il quotidiano caffè e latte in quel bugigattolo di via S. Paolo, quand’era un semplice reporter del giornale Il Progresso: percorse con un rapido sguardo la sua vita e giunse fino al momento presente. “Sono stato forte!„ pensò, e si diede a sorbire voluttuosamente la bibita nera.

– Irreprensibile! – esclamò, deponendo la preziosa chicchera sul bacile d’argento.

Il servo sorrise di compiacenza.

– Il signore à qualche ordine da comunicarmi, – chiese poi rispettosamente.

– Sì: di’ a Cesare d’attaccare Leda alla victoria, fra un’ora.

Il servo non era ancora uscito dalla camera, che Paolo Érmoli era già ritornato su le considerazioni intorno alla tazza, avido di prolungare il piacere che gli avevan suscitato nell’animo. “Chi più gode, più vive, perché il piacere, come perpetua la vita nella specie, così l’accresce nell’individuo„: continuò concatenando i pensieri dell’oggi ad antiche memorie di pensieri; e, ricordando i dolorosi ragionamenti che aveva fatti su la singolar condizione di certi uomini, e le stridenti ingiustizie che aveva maledette nei tristi tempi passati di lavoro e d’indigenza, provò come una vertigine d’ineffabile e profonda sodisfazione mentre volgeva lo sguardo per la camera elegante, su quegli arazzi preziosi, in cui madonne e santi, fanti e cavalieri sembravano affollarsi intorno a lui per rendergli umile omaggio. “Io sono nato povero e abjetto„ pensò, “ma qualche cosa già doveva esserci in me di prepotente, di nobile, d’eletto, che m’avrebbe guidato alla vittoria.„ E cinicamente ripeté ad alta voce le parole del giovine Garibaldi: “Noi eravamo destinati a cose maggiori.„

L’idea fatalistica s’impadroniva di lui: riandando le crisi terribili della guerra scellerata, che aveva dato alle consuetudini sociali, egli aveva bisogno di quel fatalismo per ispiegare in faccia alla conscienza morale la sua condotta; egli era di quelli nati per trionfare, per soggiogare, per abbattere, come gli animali da preda, felis homo, e aveva egregiamente rappresentato la sua parte tirannica nella comedia della vita. “Sono onesto io?„ si domandò egli improvvisamente, turbato da un dubbio inconcreto e affatto teorico. Egli poteva farsi sinceramente questa domanda, perché il male l’aveva fatto dopo essersi convinto che il Male non esisteva. “Che cos’è infine l’onestà? O è un principio regolatore assoluto, o è un’opinione relativa e personale su la condotta umana; io non credo nei principî assoluti e, se è un’opinione relativa, io posso essere onesto. È una legge, dura, se si vuole, ma altrettanto immutabile, quella che il superiore vince l’inferiore nella lotta dell’esistenza: se l’uomo è fisicamente più debole, e non ostante abbatte il leone, è perché à saputo convenientemente armarsi: si dirà perciò che la sua condotta non è onesta? Io sono nato in condizioni d’inferiorità materiale, e volendo vincere, ò dovuto armarmi: ma se mi sono armato, è perché dovevo vincere.„

L’idea fatalistica risorgeva, più solenne, più logica. – Perché dunque la sua fronte si corrugò, come attraversata da un pensiero molesto? Perché le sue labbra s’inarcarono ad un sogghigno triste e amaro?

Egli rimase alquanto tempo immobile, in quell’espressione ambigua e bieca di cordoglio. Ma la giornata era troppo pura e la felicità troppo imminente, per lasciarlo a lungo in preda a quella perplessità. Allungò il braccio e prese sul tavolino l’astuccio d’oro gemmato delle sigarette: ne tolse una, l’accese e, accomodati i cuscini sul capezzale, vi si appoggiò a suo agio.

“Io sono stato forte!„ ripensò inseguendo con l’occhio le mobilissime forme di fumo, che s’espandevan fragili nell’aria. “La scienza stessa à le sue vittime: non deve aver le sue l’egoismo? E sono forse queste sostanzialmente diverse da quelle?„

Nella camera l’aria primaverile aveva portato il complesso e inebriante profumo degli alberi in fiore: Paolo Érmoli respirava largamente quell’aria ossigenata, e sentiva la gioja diffondersi per il sangue copiosamente avvivato.

Abbandonò involontariamente quei pensieri, perché in fondo era in essi qualche cosa di penoso, e, gittata la sigaretta ancor quasi intera, incominciò a vestirsi.

Nell’abbigliamento giornaliero, accuratissimo, egli occupava di solito più d’un’ora del suo ozio signorile; ma quella mattina, spronato dalla vaga e dolce inquietudine che dà un ardente desiderio prossimo ad esser sodisfatto, il condusse a termine relativamente presto, in modo che sonavan appena le undici quando egli uscì dalla sua camera compiutamente vestito.

Così, ricercato ed elegante in ogni particolare dell’abito, egli poteva ben dirsi un bel giovine; il suo volto piccolo e bruno, dagli occhi incavati e neri, dai lineamenti decisi, dalla fronte lievemente sfuggente sotto una breve capigliatura castana, s’ergeva su l’altissimo colletto bianco, con un’espressione di alterezza cavalleresca e di sottile dispregio, certamente studiati; alto, snello, flessuoso, d’una magrezza nervosa, il suo corpo aveva un profilo squisito, che in nulla tradiva la sua bassa origine, dalla piccolezza feminea delle mani e dei piedi, alla linea sostenuta delle spalle, un po’ strette. Egli passò in fretta l’appartamento già avvolto in una misteriosa oscurità a cagion delle imposte rinchiuse: salutò con noncuranza Enrico, che l’attendeva in anticamera per ajutarlo a indossare il soprabito, e discese lo scalone marmoreo, calzandosi nervosamente i guanti. Il portiere gli aperse rispettosamente l’uscio della portineria, e Paolo salì su la victoria, ordinando al cocchiere impassibile:

– Al Cova.

Leda, una magnifica cavalla saura, dai garetti d’acciajo, si slanciò avanti con trotto serrato, all’hip gutturale di Cesare; e l’Érmoli s’adagiò nell’angolo sinistro della carrozza, accendendo negligentemente un’altra sigaretta. La vista della folla a piedi (nella quale si davan di gomito i facchini e le donne gentili in una volgare miscela, che tradiva la brutalità dell’egoismo animale nel contendersi i lastrici, ove si cammina sicuri dalle vetture), gli ricordò quando anch’egli faceva numero tra quel branco d’uomini in ruvido contatto per quella piccola guerriglia della strada. Ne provò su le prime piacere, considerando la propria superiorità intellettuale su quella gente, dalla quale aveva saputo volontariamente elevarsi: ma un pensiero molesto, richiamato da un ricordo non lontano, lo sorprese: “Avrò io l’aria del parvenu

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