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Giacomo Leopardi
Canti
III. AD ANGELO MAI QUAND’EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE “DELLA REPUBBLICA”
ОглавлениеItalo ardito, a che giammai non posi
Di svegliar dalle tombe
I nostri padri? ed a parlar gli meni
A questo secol morto, al quale incombe
Tanta nebbia di tedio? E come or vieni
Sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente,
Voce antica de’ nostri,
Muta sì lunga etade? e perché tanti
Risorgimenti? In un balen feconde
Venner le carte; alla stagion presente
I polverosi chiostri
Serbaro occulti i generosi e santi
Detti degli avi. E che valor t’infonde,
Italo egregio, il fato? O con l’umano
Valor forse contrasta il fato invano?
Certo senza de’ numi alto consiglio
Non è ch’ove più lento
E grave è il nostro disperato obblio,
A percoter ne rieda ogni momento
Novo grido de’ padri. Ancora è pio
Dunque all’Italia il cielo; anco si cura
Di noi qualche immortale:
Ch’essendo questa o nessun’altra poi
L’ora da ripor mano alla virtude
Rugginosa dell’itala natura,
Veggiam che tanto e tale
È il clamor de’ sepolti, e che gli eroi
Dimenticati il suol quasi dischiude,
A ricercar s’a questa età sì tarda
Anco ti giovi, o patria, esser codarda.
Di noi serbate, o gloriosi, ancora
Qualche speranza? in tutto
Non siam periti? A voi forse il futuro
Conoscer non si toglie. Io son distrutto
Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
M’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno
È tal che sogno e fola
Fa parer la speranza. Anime prodi,
Ai tetti vostri inonorata, immonda
Plebe successe; al vostro sangue è scherno
E d’opra e di parola
Ogni valor; di vostre eterne lodi
Né rossor più né invidia; ozio circonda
I monumenti vostri; e di viltade
Siam fatti esempio alla futura etade.
Bennato ingegno, or quando altrui non cale
De’ nostri alti parenti,
A te ne caglia, a te cui fato aspira
Benigno sì che per tua man presenti
Paion que’ giorni allor che dalla dira
Obblivione antica ergean la chioma,
Con gli studi sepolti,
I vetusti divini, a cui natura
Parlò senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi allegràr d’Atene e Roma.
Oh tempi, oh tempi avvolti
In sonno eterno! Allora anco immatura
La ruina d’Italia, anco sdegnosi
Eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo
Più faville rapia da questo suolo.
Eran calde le tue ceneri sante,
Non domito nemico
Della fortuna, al cui sdegno e dolore
Fu più l’averno che la terra amico.
L’averno: e qual non è parte migliore
Di questa nostra? E le tue dolci corde
Susurravano ancora
Dal tocco di tua destra, o sfortunato
Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
L’italo canto. E pur men grava e morde
Il mal che n’addolora
Del tedio che n’affoga. Oh te beato,
A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
Cinse il fastidio; a noi presso la culla
Immoto siede, e su la tomba, il nulla.
Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
Ligure ardita prole,
Quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti
Cui strider l’onde all’attuffar del sole
Parve udir su la sera, agl’infiniti
Flutti commesso, ritrovasti il raggio
Del Sol caduto, e il giorno
Che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo;
E rotto di natura ogni contrasto,
Ignota immensa terra al tuo viaggio
Fu gloria, e del ritorno
Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
L’etra sonante e l’alma terra e il mare
Al fanciullin, che non al saggio, appare.
Nostri sogni leggiadri ove son giti
Dell’ignoto ricetto
D’ignoti abitatori, o del diurno
Degli astri albergo, e del rimoto letto
Della giovane Aurora, e del notturno
Occulto sonno del maggior pianeta?
Ecco svaniro a un punto,
E figurato è il mondo in breve carta;
Ecco tutto è simile, e discoprendo,
Solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar; da te s’apparta
Nostra mente in eterno; allo stupendo
Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
E il conforto perì de’ nostri affanni.
Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
Sole splendeati in vista,
Cantor vago dell’arme e degli amori,
Che in età della nostra assai men trista
Empièr la vita di felici errori:
Nova speme d’Italia. O torri, o celle,
O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi! a voi pensando,
In mille vane amenità si perde
La mente mia. Di vanità, di belle
Fole e strani pensieri
Si componea l’umana vita: in bando
Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde
È spogliato alle cose? Il certo e solo
Veder che tutto è vano altro che il duolo.
O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa
Tua mente allora, il pianto
A te, non altro, preparava il cielo.
Oh misero Torquato! il dolce canto
Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda,
Cinta l’odio e l’immondo
Livor privato e de’ tiranni. Amore,
Amor, di nostra vita ultimo inganno,
T’abbandonava. Ombra reale e salda
Ti parve il nulla, e il mondo
Inabitata piaggia. Al tardo onore
Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
L’ora estrema ti fu. Morte domanda
Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.
Torna torna fra noi, sorgi dal muto
E sconsolato avello,
Se d’angoscia sei vago, o miserando
Esemplo di sciagura. Assai da quello
Che ti parve sì mesto e sì nefando,
È peggiorato il viver nostro. O caro,
Chi ti compiangeria,
Se, fuor che di se stesso, altri non cura?
Chi stolto non direbbe il tuo mortale
Affanno anche oggidì se il grande e il raro
Ha nome di follia;
Né livor più, ma ben di lui più dura
La noncuranza avviene ai sommi? o quale,
Se più de’ carmi, il computar s’ascolta,
Ti appresterebbe il lauro un’altra volta?
Da te fino a quest’ora uom non è sorto,
O sventurato ingegno,
Pari all’italo nome, altro ch’un solo,
Solo di sua codarda etate indegno
Allobrogo feroce, a cui dal polo
Maschia virtù, non già da questa mia
Stanca ed arida terra,
Venne nel petto; onde privato, inerme,
(Memorando ardimento) in su la scena
Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia
Questa misera guerra
E questo vano campo all’ire inferme
Del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena
Scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto
Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.
Disdegnando e fremendo, immacolata
Trasse la vita intera,
E morte lo scampò dal veder peggio.
Vittorio mio, questa per te non era
Età né suolo. Altri anni ed altro seggio
Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
Paghi viviamo, e scorti
Da mediocrità: sceso il sapiente
E salita è la turba a un sol confine,
Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
Segui; risveglia i morti,
Poi che dormono i vivi; arma le spente
Lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine
Questo secol di fango o vita agogni
E sorga ad atti illustri, o si vergogni.