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Giacomo Leopardi
Canti
IV. NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA

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Poi che del patrio nido

I silenzi lasciando, e le beate

Larve e l’antico error, celeste dono,

Ch’abbella agli occhi tuoi quest’ermo lido,

Te nella polve della vita e il suono

Tragge il destin; l’obbrobriosa etate

Che il duro cielo a noi prescrisse impara,

Sorella mia, che in gravi

E luttuosi tempi

L’infelice famiglia all’infelice

Italia accrescerai. Di forti esempi

Al tuo sangue provvedi. Aure soavi

L’empio fato interdice

All’umana virtude,

Né pura in gracil petto alma si chiude.

O miseri o codardi

Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso

Tra fortuna e valor dissidio pose

Il corrotto costume. Ahi troppo tardi,

E nella sera dell’umane cose,

Acquista oggi chi nasce il moto e il senso.

Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda

Questa sovr’ogni cura,

Che di fortuna amici

Non crescano i tuoi figli, e non di vile

Timor gioco o di speme: onde felici

Sarete detti nell’età futura:

Poiché (nefando stile,

Di schiatta ignava e finta)

Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.

Donne, da voi non poco

La patria aspetta; e non in danno e scorno

Dell’umana progenie al dolce raggio

Delle pupille vostre il ferro e il foco

Domar fu dato. A senno vostro il saggio

E il forte adopra e pensa; e quanto il giorno

Col divo carro accerchia, a voi s’inchina.

Ragion di nostra etate

Io chieggo a voi. La santa

Fiamma di gioventù dunque si spegne

Per vostra mano? attenuata e franta

Da voi nostra natura? e le assonnate

Menti, e le voglie indegne,

E di nervi e di polpe

Scemo il valor natio, son vostre colpe?

Ad atti egregi è sprone

Amor, chi ben l’estima, e d’alto affetto

Maestra è la beltà. D’amor digiuna

Siede l’alma di quello a cui nel petto

Non si rallegra il cor quando a tenzone

Scendono i venti, e quando nembi aduna

L’olimpo, e fiede le montagne il rombo

Della procella. O spose,

O verginette, a voi

Chi de’ perigli è schivo, e quei che indegno

È della patria e che sue brame e suoi

Volgari affetti in basso loco pose,

Odio mova e disdegno;

Se nel femmineo core

D’uomini ardea, non di fanciulle, amore.

Madri d’imbelle prole

V’incresca esser nomate. I danni e il pianto

Della virtude a tollerar s’avvezzi

La stirpe vostra, e quel che pregia e cole

La vergognosa età, condanni e sprezzi;

Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto

Agli avi suoi deggia la terra impari.

Qual de’ vetusti eroi

Tra le memorie e il grido

Crescean di Sparta i figli al greco nome;

Finché la sposa giovanetta il fido

Brando cingeva al caro lato, e poi

Spandea le negre chiome

Sul corpo esangue e nudo

Quando e’ reddia nel conservato scudo.

Virginia, a te la molle

Gota molcea con le celesti dita

Beltade onnipossente, e degli alteri

Disdegni tuoi si sconsolava il folle

Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri

Nella stagion ch’ai dolci sogni invita,

Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe

Il bianchissimo petto,

E all’Erebo scendesti

Volonterosa. A me disfiori e scioglia

Vecchiezza i membri, o padre; a me s’appresti,

Dicea, la tomba, anzi che l’empio letto

Del tiranno m’accoglia.

E se pur vita e lena

Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena.

O generosa, ancora

Che più bello a’ tuoi dì splendesse il sole

Ch’oggi non fa, pur consolata e paga

È quella tomba cui di pianto onora

L’alma terra nativa. Ecco alla vaga

Tua spoglia intorno la romulea prole

Di nova ira sfavilla. Ecco di polve

Lorda il tiranno i crini;

E libertade avvampa

Gli obbliviosi petti; e nella doma

Terra il marte latino arduo s’accampa

Dal buio polo ai torridi confini.

Così l’eterna Roma

In duri ozi sepolta

Femmineo fato avviva un’altra volta.


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