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Caro Vincenzo

Voi sapete che io amo la Sicilia; e non solo nel suo cielo e nel suo mare, ma nella sua terra; e non solo nelle sue memorie, ma nel suo presente; e non solo nei suoi ruderi, ma nel suo popolo.

O popolo taciturno e severo! S'arma e non parla, anch'esso, tutto, come voi, uno.

Chi osservi quanti artefici del bello e scopritori del vero, col libro, col quadro, con la statua, dalla cattedra, dalla tribuna, dall'officina, onorino fin d'oggi la Sicilia, può indovinare qual fermento agiti l'isola del fuoco. Virum seges. Spunta una gran messe d'uomini, la quale non fa più rumore dell'erba che cresce. Chè questa è una fantasia di tanti che discorrono del mezzogiorno: darsi a credere che voi altri gesticoliate, chiacchieriate, cantiate continuamente come folli. Oh! sì! I gesti? Il cenno di Giove cuncta supercilio moventis. La chiacchiera? Il monosillabo del Lacone. I canti? Li ho uditi, nell'alta notte, i vostri canti: flebili melopee che riconducono al cuore il sogno di ciò che è di là della morte; della morte piccola e della morte grande: oltre i millenni della storia e oltre il passato della nostra vita: tra le colonne abbattute di Selinunte e dentro le nostre domestiche tombe. Qual «dolcezza amara» in quel canto che voi ripetete così bene:

Lu suli sinni va: dumani torna:

si minni vaiu ju, non tornu chiù!

Voi altri siete un popolo che tace. — Oh! oh! — dirà alcuno — tu consenti nel rimprovero che si fa appunto ai siciliani: di tacer troppo, di amare, essi così prediletti dal sole, l'ombra e la tenebra — Ahimè! La mafia... Dobbiamo parlarne? Due parole.

Tristo il silenzio intorno al delitto! Un uomo è calato nel sepolcro prima del tempo. Una famiglia piange senza mai fine. Chè non le è possibile la rassegnazione. Essa non potrà alzar gli occhi al cielo, donde viene la rugiada e l'oblio: li gira attorno a sè, gli occhi, per cercare nella terra chi ha presa, a danno infinito di lei, la parte dell'«antico uccisore». Tristo allora il silenzio degli altri, se è indifferenza! Orribile, se è compiacimento! Abbietto, se è viltà! Ma se è l'assenso dei molti, dato con dolore, al pensiero di quelli infelici, cui nulla ormai può consolare nemmeno la giustizia?...

Io ho dovuto fare spesso nella mia vita (al fine, confesso, di non odiare i miei simili) le riflessioni che pongo qui a capo di questo libretto, e ci sono anche in fondo. Mi par bene che si trovino al principio e alla fine, a mostrare che per me la questione umana è precipuamente morale. Ecco dunque. Dove sono, non dico in Italia ma nel mondo, quelli che illuminano volentieri la giustizia? e dove è, nel mondo civile o barbaro, la giustizia che sembri alle coscienze buono illuminare? Se in qualche popolo trovate un vero furore di giustizia; tanto che si fucili, impicchi, bruci senza esitazione e formalità; guardate a fondo: troverete che quello è un furore sì, ma non di giustizia; un furore di conservare e di preservare: interesse, paura, egoismo. In quei paesi, ancor nuovi, in cui la parola vela già, ma pochino pochino, la cosa, un buon cittadino non disdegna, qualche volta di farsi carnefice; sebbene... si mette la maschera! Ma da noi chi vorrebbe farsi esecutore della giustizia? Ma da noi chi, in fondo in fondo, prova sentimenti, poniamo, di gratitudine per i carcerieri, che sono ministri, sebbene non tanto vistosi, della giustizia? E via e via. In verità la giustizia intralcia la nostra coscienza che rifugge dal fare il male, e, quanto al punirlo già fatto, oh! vedete! approva che si perdoni. E dunque?

Dunque la coscienza d'un popolo, se è retta o torta, s'ha a giudicare non dall'aiuto che il popolo presta, o no, alla giustizia che viene, a pie' zoppo, dopo il male fatto; ma dall'osservanza, o no, che abbia per la giustizia che precede il male da fare e impedisce che si faccia. Questa è la giustizia che deve bandir quell'altra, la quale par che si chiami così, giustizia, dallo aggiustare, ch'ella tenta, le cose dopo. No, non si possono aggiustare l'anima e la vita umana, una colta rotte: bisogna non romperle prima. E bisogna che ciò si sappia e si veda, che ci son cose che non si possono riparare. Se non ci fossero i concini, chi sa? si romperebbero meno stoviglie.

Ma torniamo a noi, mio buon Vincenzo, che tacete, come tace il vostro popolo. Oh! voi non fate chiasso attorno ai libri che pubblicate, con tanto vostro dispendio e tanto poco favore degli italiani. Voi non volete creare, con arte che è così facile a tutti, e che a voi intelligentissimo sarebbe facilissima, nella mente dei lettori e compratori di libri, un'opinione sul merito del libro prima che lo comprino e leggano. E io sono di accordo con voi, che fate, a vostre spese, esperienza del guaio che affligge tutta l'umanità presente. Ella è schiava, capite? e nel suo tutto e nelle sue parti. Non si pensa con la propria testa, capite? ossia, non si pensa più. E tutti i progressi, pur così evidenti, delle scienze lasciano perplesso l'osservatore e amatore degli uomini; perchè, in vero, qual fede si può avere nei guizzi lunghi d'una lampada in cui l'olio viene a mancare? qual fede nella ricca fioritura d'una pianta, la cui radica è rósa? I frutti non terranno. La lampada si spegnerà.

Libertà! Libertà! Questa è l'idea che pervade il libricciolo, che io v'offro: libertà da cima a fondo. E perciò lo dedico a voi, che non solo assomigliate a me, nel disdegnare ciò che mette i ceppi al pensiero, ma che, nel mio cuore, figurate, uno, giovane, ardente di fede e parco di parole, franco ma a monosillabi, libero ma a cenni, la vostra Sicilia. La Sicilia, con tutti i discorsi che si sono fatti sulla mafia siciliana, non è terreno da piantarvi la selva oscura del partito, ossia del non-volere, ossia del non contar più se non come uno sterpo in un gran viluppo inerte e infecondo. Che! In ogni siciliano il proprio io è lì che negli occhi grandi e profondi sta in guardia della persona, piccola (come la vostra) e cara! E la Sicilia tutta non vuol liquefarsi nel resto d'Italia: bene! E, per questo suo medesimo sentimento, non vuole che l'Italia sia annullata dal resto del mondo: benissimo!

Caro Vincenzo, e io non ho trovato in Sicilia uno più siciliano di voi e più italiano di voi. E perciò vi amo. E siete fiero. E perciò vi ammiro. E lavorate in silenzio. E perciò vi venero. E vi arriderà il successo? cioè, avrete mai la ricchezza, e quella, che non pare si possa avere, se non dopo avuta la prima, e ciò per la forza delle cose piuttosto che per mal volere degli uomini, la croce del lavoro? Voi vi armate: sarete mai armato cavaliere?

Di codesto, dubito. Ma eccomi qua. Ricordate che in certi casi i nobili guerrieri si davano la accollata a vicenda nel campo di battaglia, sparso del loro vivo sangue?

Ebbene, vi faccio cavaliere del lavoro, io!

Prendetela da un compagno d'armi l'attestazione del vostro valore; prendetela, la croce, da uno che della croce ne ha avuta sin troppa; da un lavoratore, il premio del lavoro.

Giovanni Pascoli

31 dicembre del 1902.

Miei Pensieri di varia Umanità

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