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V.

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Bene! Tu hai cantato e detto: hai cantato strofe e detto verità. E mi viene in mente che oltre codeste verità, diremo così, usuali, di cui io ti sono testimone, ci sia sotto il tuo dire una verità più riposta e meno comune, a cui però la coscienza di tutti risponda con subito assenso. Quale? Questa: che la poesia, in quanto è poesia, la poesia senza aggettivo, ha una suprema utilità morale e sociale. E tu non hai mica ragionato, per rivelare a me il tuo fine. Tu hai detto quel che vedi e senti. E dicendo questo, hai forse espresso quale è il fine proprio della poesia. Ora tocca a me ragionarci sopra. Chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico, il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobiliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza; e vai dicendo. O è il contrario? E il pastore che, parando le pecore, sogna una bottega da avviare nel borgo vicino, e il borghesuccio che fantastica d'un palazzo in città grande e rumoreggiante, sono, essi sì, poeti fantasiosi e sognatori, e gli altri no? Già, per me, altro è sentimento poetico, altro è fantasia: la quale può essere bensì mossa e animata da quel sentimento, ma può anche non essere. Poesia è trovare nelle cose, come ho a dire? il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l'oscuro tumulto della nostra anima.

A volte, non ravvisando essi nulla di luminoso e di bello nelle cose che li circondano, si chiudono a sognare e a cercar lontano. Ma pur nelle cose vicine era quello che cercavano, e non avervelo trovato, fu difetto, non di poesia nelle cose, ma di vista negli occhi. Direte voi (non parlo a te, ora, o fanciullo, ma a cotali fanciulloni), direte voi che il sentimento poetico abbondi più in chi, torcendo o alzando gli occhi dalla realtà presente, trovi solo belli e degni del suo canto i fiori delle agavi americane, o in chi ammiri e faccia ammirare anche le minime nappine, color gridellino, della pimpinella, sul greppo in cui siede? E non voglio dire che non abbondi nel primo, quel sentimento, e non si trovi anzi unito ad altre virtù di scienza e di fantasia che lo facciano giustamente ammirabile; sebbene, come più agevolmente muove, così più presto annoia il suo lettore, e, a ogni modo, poichè le cose assenti, o non viste mai, sono sempre a tutti meravigliose, egli fa come l'uomo che pretenda d'aver rallegrato con sue novellette l'uditore che, pure ascoltando, abbia bevuto largamente del vino letificante. Egli è stato, forse, arguto e festevole: ma chi rallegra con la parola sua schietta, senza bisogno di calici, ha maggior merito.

Or dunque intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove. E sommamente benefico è tale sentimento, che pone un soave e leggiero freno all'instancabile desiderio, il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità. Oh! chi sapesse rafforzarlo in quelli che l'hanno, fermarlo in quelli che sono per perderlo, insinuarlo in quelli che ne mancano, non farebbe per la vita umana opera più utile di qualunque più ingegnoso trovatore di comodità e medicine? E non so dire quanto la comunione degli uomini ne sarebbe avvantaggiata; specialmente in questi tempi in cui la corsa verso l'impossibile felicità è con tanto fulmineo disprezzo in chi va avanti, con tanta disperata invidia in chi resta addietro. Già in altri tempi vide un Poeta (io non sono degno nemmeno di pronunziare il tuo santo nome, o Parthenias!), vide rotolare per il vano circolo della passione, le quadrighe vertiginose: e quei tempi erano simili a questi, e balenava all'orizzonte la conflagrazione del mondo in una guerra di tutti contro tutti e d'ognuno contro ognuno: e quel Poeta sentì che sopra le fiere e i mostri aveva ancor più potere la cetra di Orfeo che la clava d'Ercole. E fece poesia, senza pensare ad altro, senza darsi arie di consigliatore, di ammonitore, di profeta del buono e del mal augurio: cantò, per cantare. E io non so misurare qual fosse l'effetto del suo canto; ma grande fu certo, se dura sino ad oggidì, vibrando con dolcezza nelle nostre anime irrequiete. O rimatori di frasi tribunizie, o verseggiatori di teoriche sociali, che escludete dall'ora presente ogni poesia che non sia la vostra, vale a dire, escludete la POESIA, ditemi: Era o non era al suo posto, nel secolo d'Augusto, il cantore delle Georgiche? Sì, non è vero? Egli insegnava ad amare la vita in cui non fosse lo spettacolo nè doloroso della miseria nè invidioso della ricchezza: egli voleva abolire la lotta tra le classi e la guerra tra i popoli. Che volete voi, o poeti socialisti, che dite cose tanto diverse e le dite tanto diversamente da lui?

Dei due fraterni poeti Augustei (chè non si può parlare di Virgilio senza soggiungere Orazio) voi direte che fu la filosofia che li addusse a quella ragione sana e pia di considerare la società e la vita. E no: fu il fanciullino che li portò per mano, dicendo: Vi dirò io dove è nel tempo stesso la poesia e la virtù. Fu il fanciullino che, se mai, fece che trascegliessero tra le opinioni dei filosofi quelle che confermavano il loro sentimento.

Considerate. Catone e Varrone scrissero di agricoltura prima di Virgilio. Erano uomini di molto giudizio e sapere, essi. Per esempio, Catone, suggerendo al pater familias che cosa deve dire e fare, quando si reca alla villa, conclude: «Venda l'olio, se si vende bene; il vino, il frumento che avanzi, lo venda. I buoi incaschiti, le fattrici non più buone, così le pecore, la lana le pelli, un barroccio vecchio, ferramenti vecchi, uno schiavo attempato, uno schiavo ammalazzito, e altra roba che ci sia di troppo, la venda. Un padre di famiglia deve tirare a vendere, non a comprare.»[10] Quegli schiavi, tra la ferraglia vecchia e l'altra roba d'avanzo, a noi fanno un certo senso; eppure era naturale che si nominassero a quel punto. Varrone in fatti riferisce questa elegante distinzione delle cose con le quali si coltivano i campi: «Altri le dividono in tre generi: strumento vocale, semivocale e muto; vocale, in cui sono gli schiavi, semivocale in cui sono i bovi, muto in cui sono i carri».[11] È naturale, s'intende, che Virgilio scrivendo di proposito sull'agricoltura, in versi bensì ma non a fantasia, in versi ma dopo avere studiato l'argomento anche sui libri degli altri, parlasse a ogni momento, oltre che dei plaustri e dei bovi, di quello strumento precipuo della coltivazione che erano gli schiavi. Noi, per esempio, dobbiamo aspettarci che come insegna quale profenda dare, erbe in fiore e biada, al polledro da razza,[12] e ai manzi in tanto che si domano, non sola erba e frasche di salcio e paleo di padule, ma anche piantine di grano appena nato;[13] così ammaestri il buon massaio sul pane e companatico, vino e vestimenta, da fornirsi alla familia. Parlando di olive, è certo che egli penserà al pulmentarium familiae. Catone, gran maestro, dice pure:[14] «Indolcisci quanto più puoi, di olive caschereccie. Quindi le olive anche buone, da cui non possa uscire che poco olio, indolciscile: e fanne grande risparmio, perchè durino il più possibile. Quando le olive saranno mangiate, dà allec e aceto». Tornava bene, mi pare, discorrere di codeste olive da riporre per gli schiavi, e così anche dei vestimenti; che poteva cadere in taglio, a proposito della lana, fare per esempio un'osservazione di tal genere: «quando a uno schiavo dài una tunica o un pastrano nuovo, prima ritira il vecchio, per farne casacche a toppe (centones)». Insomma queste e simili provvidenze erano buone a mettersi in bei versi con quel tanto garbo del poeta che sa parlare con solennità e gravità di umili cose.

Oh! sì! Non ci sono schiavi per Virgilio. Nei suoi poemi non c'è mai nemmeno la parola servus: c'è serva due volte, e a proposito di altri tempi e di altri costumi:[15] tempi e costumi in cui il poeta vede bensì i re serviti da molti schiavi; eppur chiama questi famuli e ministri, non servi.[16] Ma i suoi campi, quelli che esso insegnava a coltivare, quelli che arava e seminava con i suoi dolci versi, quelli non hanno gente incatenata e compedita. Il poeta che nella prima delle ecloghe pastorali mette sè in persona d'uno schiavo liberato, ha proclamato nelle campagne italiche quella parola che con tanta enfasi suona dalla sua bocca di Titiro: LIBERTAS.[17] Gli agricoli di Virgilio nè sono schiavi nè mercenari. Essi sono di quelli di cui parla Varrone,[18] che coltivano la terra da sè, come tanti possidentucci con la loro figliolanza. Questi ha in mente Virgilio, quando esclama che sarebbero tanto felici, se conoscessero la loro felicità, con tanta pace, con tanto fruttato, tra tanto bello, senza il rodìo o della miseria o della soverchianza altrui, lavorando alla sua stagione, godendosi la famiglia in casa e le care feste fuori.[19] Di gente che lavori per altri, nemmeno una traccia. L'ideale del poeta è quel vecchiettino Cilice, trapiantato dalla sua patria nei dintorni di Taranto. Aveva avuto pochi iugeri di terra non buona nè a grano nè a prato nè a vigna: una grillaia, uno scopiccio. Ebbene il bravo vecchiettino ne aveva fatto un orto, con non solo i suoi cavoli, ma anche gigli e rose, e alberi da frutta, e bugni d'api, e vivai di piante.[20] Sì: il poco e il piccolo era il sogno dei due grandi fraterni poeti. Virgilio diceva: loda la campagna grande, e tienti alla piccina.[21] E Orazio: Questo era il mio voto: un campicello non tanto grande, con l'orto, con una fonte, e per giunta un po' di selvetta.[22] Chi non dovrebbe preferire la campagna grande alla piccola, quando non toccasse di coltivarla a lui? Ma ai due poeti, quando erano poeti, non si presentava al pensiero questa considerazione così semplice. A dir meglio, il fanciullo che era in loro, preferiva, come tutti i fanciulli, ciò che è piccolo: il cavallino, la carozzina, l'aiolina. Oh! c'è chi ha rimproverato a Orazio quest'amor della mediocrità! Ma esser poeta della mediocrità, non vuol dire davvero essere poeta mediocre. Il contrario, anzi, è vero. Non ama, chi dice di amare un serraglio di donne. Non è poeta, chi non si fissa in una visione che i suoi occhi possano misurare. E le cose grandi, le cose ricche, le cose sublimi non riescono poetiche, se non sono sentite o dette in persona di chi stupisce avanti loro, perchè appunto esso è piccolo, è povero, è umile. Il poeta è il poverello dell'umanità, spesso anche cieco e vecchio. E se tale non sembra, se anzi è gran signore e giovane e felice, ebbene vuol dire che se è ricco lui, è pauperculus però il fanciullino che è in lui; cioè si è conservato povero, come a dire fanciullo. Perchè poverino è sempre il bimbo, sia pur nato in una culla d'oro, e tende sempre la mano a tutto e a tutti, come non avesse niente, e desidera il boccon di pan duro del suo compagno trito, e vorrebbe fare il duro lavoro del suo compagno tribolato. Per questo non Virgilio proprio, ma il fanciullo che egli aveva in cuore, non voleva gli schiavi nei campi. Diremo noi che Virgilio attingesse dai libri di qualche filosofo o di qualche profeta questa legge di libertà? No: egli stesso ne era forse inconsapevole, di questa libertà che proclamava. Era la sua poesia che aboliva la servitù, perchè la servitù non era poetica. Non era poetica, e il divino fanciullo che non vede se non ciò che è poetico, non la vedeva. Tanto che noi se non avessimo dei tempi di Virgilio altro testimone che Virgilio, dovremmo credere che non esistesse allora più questa miseria e vergogna che non è cessata nemmeno ai nostri, di tempi. Oh! dovremmo credere che il Cristo non anco nato ispirasse al poeta contadino dell'Esperia, come il vaticinio del suo avvento, così il presentimento della grande fratellanza umana! Non c'è la schiavitù nell'Italia Virgiliana: nemmeno c'è il salariato, nemmeno il mezzadro!

Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza addarsene, portando, per dirla con Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore e ardore della lampada che è la poesia; è, come si dice oggi, socialista, o come si avrebbe a dire, umano. Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia. è quella che migliora e rigenera l'umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l'impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l'estetica proclama brutto. Ma di ciò che è cattivo e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato filosofo. È il fanciullo interiore che ne ha schifo. Il quale come narrando le imprese dei suoi eroi, e dicendo tutto di loro, e, oltre le battaglie e i discorsi, anche i pasti e i sonni, e figurando a noi, per esempio, i loro cavalli, e ridicendo che brucavano e sudavano e spumavano, pur non dice mai (tu vedi che procuro quanto posso, che tu non torca il nasino) non dice mai che stallavano; così della nostra anima non racconta che il buono e della nostra visione non ricorda che il bello. Che per cantare il male bisogna fare uno sforzo continuo su sè stesso, a meno che non si tratti di pazzia. E in questo caso, la pazzia sta appunto in questo, di pensar da buoni e cantar da cattivi.

Così, caro fanciullo, hanno gran torto coloro che attribuiscono, per ciò che tu non vedi che il buono, qualche merito di bontà a colui che ti ospita. Il quale può essere anche un masnadiero, e aver dentro sè un fanciullo che gli canti le delizie della pace e dell'innocenza, e la casa dove non deve più riposare, e la chiesa dove non sa più pregare.

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