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LA SEMENTA

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L’ALBA

I

Allor che Rosa dalle bianche braccia

aprì le imposte, piccola e lontana

dal cielo la garrì la cappellaccia.

Dalla Pieve a’ Cipressi la campana

sonava l’alba: in alto, sul Mongiglio

erano bianchi bioccoli di lana.

Raspava una gallina sopra il ciglio

d’un fosso. Po s’alzò, scosse la brina,

scodinzolando, con uno sbadiglio.

Ed al frizzar dell’aria mattutina,

nel comun letto si svegliò Viola,

all’improvviso, e mormorò: «Rosina!

Rosina!». E già taceva la chiesuola

lasciando udire un canto di fringuello,

e, per i campi ombrati di viola,

lo squillar de’ pennati sul marrello.



II

E Rosa in tanto, al davanzale, i semi

coglieva d’una spiga d’amorino,

e mondava dal secco i crisantemi.

Si sfumò d’oro un bioccolo argentino:

oh! una mandra, tutta oro, tranquilla

pasceva in alto in mezzo al cilestrino.

Corsero come guizzi di pupilla;

tutto via via razzava: un fil di paglia

nel concio nero, un ciottolo, una stilla.

Ma il sole entrava come in una maglia

sottil di nubi d’un color d’opale,

e traspariva dalla nuvolaglia.

Rosa si ravviava al davanzale:

or luce, or ombra si sentìa sul viso;

ché il sol montando per il cielo a scale

appariva e spariva all’improvviso.



III

Appariva e spariva; e venìa meno

la terra all’occhio, e poi, come in un fiato,

tutto balzava su verso il sereno.

A monte, a mare, ella guardò: guardato

ch’ebbe, ella disse (udiva sui marrelli

a quando a quando battere il pennato):

«Aria a scalelli, acqua a pozzatelli».


NEI CAMPI

I

Il capoccio avea detto: «Odimi, moglie.

Senti le rare tremule tirate

che fanno i grilli? Cadono le foglie;

e tristi i grilli piangono l’estate.

L’altra notte non chiusi occhio, tanto era

quel gridìo! – Seminate! Seminate! —

credei sentire. Poi, sentii ier sera

passar su casa un lungo rombo d’ale:

l’anatre vanno per la notte nera.

C’è sopra il verno. Il primo temporale

cova nell’aria. Sai che, per il grano,

presto è talora, tardi è sempre male.

Domani voglio il mio marrello in mano;

ché chi con l’acqua semina, raccoglie

poi col paniere; e cuoce fare in vano

più che non fare. Incalciniamo, o moglie».



II

E per due giorni consegnava il grano

alle soffici porche. Seminare

volle la costa, seminare il piano.

E per due giorni non uscì da mare

pure una nube; e il garrulo vicino,

«Il tempo è in filo,» gli dicea, «compare!»

Ma egli arava tutto il giorno, chino

sopra le porche. Il terzo dì, cantava

al buio il gallo, prima di mattino.

Ed egli al buio sorse, ed aggiogava

le brune vacche (uscirono mugliando

e rugumando la lor verde bava),

e seminava. Dore al giogo, Nando

era alla coda: Nando, il suo maggiore,

che ammoniva le bestie a quando a quando,

tarde, e la forza pargola di Dore.



III

Forza di Dore, le divincolanti

vacche reggevi; ma tuo padre il grano

pulverulento si gettava avanti.

La sementa spargea con savia mano;

altri via via copriva la sementa.

L’aratro andava, nell’ombrìa, pian piano:

qualche stella vedea l’opera lenta.


PER CASA

I

Vedea nell’ombra qualche muta stella

gli uomini arare. Nella mattinata

ci fu lo spruzzo d’una scosserella.

La casa aveva aperto ogni impannata.

Passò lontano, ripassò vicino

lo stridulo fruscìo della granata.

Fumò nell’aria torpida il camino.

Poi le stoviglie parvero fra loro

rissare nel silenzio mattutino.

Poi la fanciulla dai capelli d’oro

tessea cantando. Andò la spola a volo,

corsero i licci e il pettine sonoro.

Cantò: «Maria cercava il suo figliuolo.

Maddalena le disse: Ave Maria:

sui neri monti io l’ho veduto: o duolo!

porta una croce e sanguina per via».



II

Tra il colpeggiar del pettine sonoro

ed il suo canto, ella sentì, «Rosina!»

la verginella dai capelli d’oro.

Sorse dalla panchetta ed in cucina

venne e trovò la cara madre pia

«Figlia,» le disse, «staccia la farina.

Viola è fuori con la mucca, via

per Ginestrelle. Babbo oggi non viene

se non al tocco dell’Avemaria.

Sai, per il grano, che spicciarsi è bene:

presto è talora, tardi è sempre male!

E già piange le sue notti serene

il grillo stanco, e il primo temporale

cova nell’aria. Non lo senti a sera

passar su casa un lungo rombo d’ale?

L’anatre vanno per la notte nera».



III

E seguitava: «Io voglio accomodare,

se mi riesce, questi due radicchi,

ch’ho già intoccati, con altr’erbe amare.

E tu, mentr’io soffriggo uno o due spicchi

d’aglio trito, costì, su la brunice,

fa la polenta, buona anco pei ricchi,

quando s’ha un bocconcino che ci dice».


IL DESINARE

I

Ubbidì Rosa al subito comando.

Sotto il paiolo aggiunse legna, il sale

gettò nell’acqua che fremé ronzando.

Stacciò: lo staccio, come avesse l’ale,

frullò fra le sue mani; e la farina

gialla com’oro nevicava uguale.

Ne sparse un po’ nell’acqua, ove una fina

tela si stese. Il bollor ruppe fioco.

Ella ne sparse un’altra brancatina.

E poi spentala tutta a poco a poco,

mestò. Senza bisogno di garzone,

inginocchiata nel chiaror del fuoco,

mestò, rumò, poi schiaffeggiò il pastone,

fin che fu cotto; e lo staccò bel bello,

l’ammucchiò nel paiolo, col cannone

di pioppo; e lo sbacchiò sopra il tarvello.



II

Ora la madre nella teglia un muto

rivolo d’olio infuse, e di vivace

aglio uno spicchio vi tritò minuto.

Pose la teglia su l’ardente brace,

col facile olio; e, solo intenta ad esso,

un poco d’ora l’esplorò sagace.

L’olio cantò con murmure sommesso;

un acre odore vaporò per tutto.

Fumavano le calde erbe da presso,

nel tondo ch’ella inebbriò del flutto

stridulo, aulente; e poi nel canovaccio

nitido e grosso avviluppava il tutto.

E Rosa intanto sospendea lo staccio,

ponea le fette sopra un bianco lino,

stringea le còcche, e v’infilava il braccio.

Tornò Viola, e furono in cammino.



III

Rosa e Viola furono in cammino.

Ma la pia madre altro pensò; discese;

spillò la botte d’un segreto vino.

E poi, tornata, con le figlie prese

pei greppi; lesta, poi ch’una campana

si sentiva sonare dal paese:

non più che un’ombra pallida e lontana.


L’ANGELUS

I

Sì: sonava lontana una campana,

ombra di romba; sì che un mal vestito

che beveva, si alzò dalla fontana,

e più non bevve, e scongiurò, di rito,

l’impazïente spirito. Via via

si sentì la campana di San Vito,

si sentì la campana di Badia

e gli altri borghi, di qua di là, pronti

cantando si raggiunsero per via.

C’era di muti spiriti nei fonti

un palpitare al tremolìo sonoro

ch’empieva l’aria e percotea nei monti.

La donna andava con le figlie; e loro

squillò sul capo, subito e soave,

dalla lor Pieve un gran tumulto d’oro.

E tu nascesti Dio da un piccolo Ave…



II

– Tu che nascesti Dio dal piccolo Ave,

dalla sorrisa paroletta alata

(disse la voce tremolando grave):

tu che nell’aia bianca e soleggiata

eri e non eri, seme che vi avesse

sperso il villano dalla corba alzata;

ma poi l’uomo ti vide e ti soppresse,

t’uccise l’uomo, o piccoletto grano;

tu facesti la spiga e poi la mèsse

e poi la vita: fa’ che non in vano

nei duri solchi quella gente in riga

semini il pane suo quotidïano.

O Dio, neve raffrena, pioggia irriga,

sole riscalda quei futuri steli;

fa’ che granisca la futura spiga,

o tu cui l’uomo seminò nei cieli! —



III

Così diceva tremolando grave

la voce d’oro su l’aerea Pieve;

e gli aratori l’Angelus e l’Ave

dissero; e in mezzo alla preghiera breve

la dolce madre a lui venìa; non sola:

l’erano accanto con andar più lieve

bionda la Rosa e bruna la Viola.


IL CACCIATORE

I

Po le seguiva, il fido cane. Or essi

siedono su la porca assai contenti.

La Pieve sorridea sotto i cipressi.

Po ringhiò, fece biancheggiare i denti:

passava un uomo, un cacciator; ristette.

«Giovine, giunto qui tra le mie genti!

ciò che avanza per sei, basta per sette»

disse il capoccio; e poi con lieta cera:

«Male per voi, che bene per noi mette!

Noi ci vedemmo, o giovine, alla fiera

di Castiglione, all’osteria di Betto.

Tuo padre, Andrea buon’anima, non c’era

l’uomo più bravo e tuttavia più schietto;

e dava tempo al tempo: ecco e tu ari

un campetto con siepe e con fossetto…

Bevi il mio vino e siedi tra’ miei cari!»



II

Ed ei s’assise, il giovane, tra loro,

e bevve il rosso vino. Era di faccia

alla fanciulla da’ capelli d’oro.

Ma la fanciulla dalle bianche braccia

non lo guardava. Ed il capoccio allora

gli domandò della sudata caccia.

E lui: «La prima non ho fatto ancora;

e sì, che non so dir con quanta pena

io tutta notte l’aspettai, l’aurora!

Che ieri io rincasava a notte piena,

pensando ad altro, a non so che: zirlare

io sentiva nell’alta ombra serena.

Erano i tordi, che già vanno al mare,

in alto, in alto, in alto. Io sentìa quelle

voci dell’ombra, nel silenzio, chiare;

e mi pareva un canticchiar di stelle.



III

Ma i tordi ancor non calano, e non sento

se non il fischio delle ballerine

seguire il solco dell’aratro lento;

e lo scoppiettìo trito senza fine

del pettirosso mattinier… Comincia

il passo. Sono piene le saggine

e le olivete. Sì; ma c’è la cincia!»


LA CINCIA

I

Sorrise, e disse che una volta c’era

un re piccino; e s’egli era piccino,

la sua reggia era grande e nera nera.

E un aio aveva questo reattino

nero, e l’aio era lì sempre a gracchiare,

e più, quando vedea torbo il mattino.

Il re veniva alle finestre a mare,

il re veniva alle finestre a monte:

«Avessi l’ale! Potessi volare!»

Nitrir sentiva alla sua voce pronte

le sue pulledre sparse alla pastura

nel grande prato ch’era dopo il ponte.

E quel nitrito, per le antiche mura,

per gl’infiniti muti colonnati,

destava i cani; e nella reggia oscura

rimbombavano in tanto alti latrati.



II

Or una fata l’ode. Ecco, sia fatto!

La gran reggia doventa una gran macchia

a colonne di pino e d’albogatto.

Nera tra i lecci vola una cornacchia.

È l’aio. Vola su brentoli e mortelle,

libero, il recacchino, il redimacchia.

E il curvo collo svincolano snelle

quelle pulledre scalpitando, ed ecco

ch’elle frullano azzurre cinciarelle.

Tengono l’osso ancora (od uno stecco?)

le cinciallegre, piccoli mastini,

sotto le zampe, e picchiano col becco.

Dunque, dagli albigatti esse e da’ pini

fanno la guardia, e il re ne’ suoi sambuchi,

tra molta signoria di fiorrancini,

regna, e si svaga con la caccia ai bruchi.



III

Così, vedete, il cacciator che gira,

vede calare un branco. Egli bel bello

s’appressa, egli già mira, egli già tira…

suona un nitrito tremulo d’uccello,

come starnuto, suona un bau bau chiaro,

come doppio squillar di campanello;

e il branco fugge prima dello sparo.


L’AVEMARIA

I

E poi sazi sorgevano: le zolle

sbriciò l’aratro, della terra nera,

dietro le vacche non ancor satolle.

Rosa, con gli altri e con Viola, a schiera,

ricopriva le porche col marrello.

Babbo voleva aver finito a sera.

Il dì passò tra sole e solicello:

il sole s’insaccò, né tornò fuori,

e Montebello si pose il cappello.

Stridule, qua e là, di più colori,

correan le foglie: non s’udia per gli ampi

filari che il vocìo degli aratori.

Palpitavano, a tratti, larghi lampi;

serrava il cardo le argentine spade;

ma tutta la sementa era nei campi.

Venne la sera ed abbuiò le strade.



II

E le vacche tornavano alle stalle;

e la gente, ciarlando per la via,

saliva co’ marrelli su le spalle.

Sonò, di qua di là, l’Avemaria:

si sentì la campana di San Vito,

si sentì la campana di Badia.

Era nel cielo un pallido tinnito:

Dondola dondola dondola! – A nanna

a nanna a nanna! – Il giorno era finito.

Ora il fuoco accendeva ogni capanna,

e i bimbi sazi ricevea la cuna,

col sussurrare della ninnananna.

E le campane, A nanna a nanna! l’una;

l’altra, Dondola dondola! tra il volo

de’ pipistrelli per la costa bruna.

A nanna, il bimbo! e dondoli, il paiuolo!



III

La madre era su l’uscio, poi che intese

un parlottare ed uno scalpicciare

tra la confusa romba delle chiese.

Ed un lampo alitò sul casolare,

e bianche bianche illuminò le strade;

e il capoccio ella udì dal limitare,

che diceva: «La festa il dì che cade!»


LA NOTTE

I

Nella notte scrosciò, venne dirotta

la pioggia, a striscie stridule infinite;

e il tuono rotolò da grotta a grotta.

Egli, il capoccio, avvolto nel suo mite

tacito sonno, non udiva. Udiva

nascere l’erba. Vide le pipite

verdi. Il grano sfronzò, quindi accestiva.

Nevicava, in suo sogno, a fiocco a fiocco:

candido il monte, candida la riva.

No: quel bianco era fiori d’albicocco

e di susino, e l’ape uscìa dal bugno

ronzando, e il grano già facea lo stocco:

Anzi graniva; ch’era già di giugno.

La cicala friniva su gli ornelli.

Egli l’udiva, con la falce in pugno.

L’acqua veniva stridula a ruscelli.



II

L’acqua veniva, stridula, a ruscelli.

Rosa dormiva e non udiva: udiva

cantare al bosco zigoli e fringuelli.

Era nel bosco, nella reggia estiva

del redimacchia. Intorno udìa beccare.

gemme di pioppo e mignoli d’uliva.

E la macchia pareva un alveare,

piena di frulli e di ronzìi. Ma ella

sentiva anche un frugare, uno sfrascare,

un camminare. Chi sarà? Ma in quella

che riguardava tra un cespuglio raro,

improvvisa cantò la cinciarella.

E sonò d’ogni parte il bau bau chiaro,

come un tintinno, delle cincie; ed ecco

pronto all’orecchio risonar lo sparo.

Ma era un tuono, che rimbombò secco.



III

E tra il tumulto carezzò Viola

che s’era desta e che piangea. Pian piano

l’addormentava. E Rosa rifù sola.

Pensava… i licci della tela, il grano

della sementa, il cacciatore… e Rosa

lo ricercava. Dove mai? Lontano.

In una reggia. E risognò… Che cosa?


Primi poemetti (1904)

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