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IL BORDONE – L’AQUILONE
ОглавлениеIL BORDONE
Si tagliò da una siepe – era un mattino
triste ma dolce – il suo bordone, e, volta
la fronte, mosse per il suo cammino.
Sì: mosse. E quella era la siepe folta
d’un camposanto, ed era il camposanto,
quello, dove sua madre era sepolta.
D’allora ha errato. Seco avea soltanto
il suo bordone. E qua tese la mano,
e qua la porse. E ha gioito e pianto.
E vide il fiume, il mare, il monte, il piano:
tutto: e a tutto era più presso il cuore
di quanto il piede n’era più lontano.
Disperò sui tramonti, e su le aurore
sperò; sì che la via sempre riprese.
Vuoto era il frutto, ma soave il fiore.
Sopra la soglia d’infinite chiese
pregò. Vide infiniti uomini: alcuno,
Raca! gli disse, ed altri, Ave gli rese:
scòrsero i più, come su lago bruno
ombra di nube nera presso nera
ombra di nube. E fu tutto e nessuno.
Sì ch’ora è stanco. Ed è, ora, una sera
triste ma dolce. E sta, come una volta,
presso una siepe. E questa è ancor com’era.
Ché fermo è là, presso la siepe folta
d’un camposanto; e questo camposanto
è quello dove è sua madre sepolta.
Egli è quel ch’era, ma il suo corpo è franto
dall’error lungo; e nel suo cuore è vano
ciò che gioì, ma piange ciò che ha pianto.
E sta, vecchio e canuto, con la mano
sul bordone d’allora. Ed ecco, vede
che da quel giorno radicò pian piano,
il suo bordone, e che visse, e che diede
già fiori e foglie: sotto le sue dita
germinò, radicò sotto il suo piede.
E gli resta una foglia inaridita
che trema. E il vento soffia. E il pellegrino,
curvo sopra la immobile sua vita,
par che muova ora, per il suo cammino.
IL VISCHIO
I
Non li ricordi più, dunque, i mattini
meravigliosi? Nuvole a’ nostri occhi,
rosee di peschi, bianche di susini,
parvero: un’aria pendula di fiocchi,
o bianchi o rosa, o l’uno e l’altro: meli,
floridi peri, gracili albicocchi.
Tale quell’orto ci apparì tra i veli
del nostro pianto, e tenne in sé riflessa
per giorni un’improvvisa alba dei cieli.
Era, sai, la speranza e la promessa,
quella; ma l’ape da’ suoi bugni uscita
pasceva già l’illusïone; ond’essa
fa, come io faccio, il miele di sua vita.
II
Una nube, una pioggia… a poco a poco
tornò l’inverno; e noi sentimmo, chiusi
per lunghi giorni, brontolare il fuoco.
Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi
dentro il nebbione; e per il cielo smorto
era un assiduo sibilo di fusi;
e piovve e piovve. Il sole (onde mai sorto?)
brillò di nuovo al suon delle campane:
tutto era verde, verde era quell’orto.
Dove le branche pari a filigrane?
Tutti i petali a terra. E su l’aurora
noi calpestammo le memorie vane
ognuna con la sua lagrima ancora.
III
Ricordi? Io dissi: «O anima sorella,
vivono! E tu saprai che per la vita
si getta qualche cosa anche più bella
della vita: la sua lieve fiorita
d’ali. La pianta che a’ suoi rami vede
i mille pomi sizïenti, addita
per terra i fiori che all’oblìo già diede…
Non però questa (io m’interruppi), questa
che non ha frutti ai rami e fiori al piede».
Stava senza timore e senza festa,
e senza inverni e senza primavere,
quella; cui non avrebbe la tempesta
tolto che foglie, nate per cadere.
IV
Albero ignoto! (io dissi: non ricordi?)
albero strano, che nel tuo fogliame
mostri due verdi e un gialleggiar discordi;
albero tristo, ch’hai diverse rame,
foglie diverse, ottuse queste, acute
quelle, e non so che rei glomi e che trame;
albero infermo della tua salute,
albero che non hai gemme fiorite,
albero che non vedi ali cadute;
albero morto, che non curi il mite
soffio che reca il polline, né il fischio
del nembo che flagella aspro la vite…
ah! sono in te le radiche del vischio!
V
Qual vento d’odio ti portò, qual forza
cieca o nemica t’inserì quel molle
piccolo seme nella dura scorza?
Tu non sapevi o non credevi: ei volle:
ti solcò tutto con sue verdi vene,
fimo si fece delle tue midolle!
E tu languivi; e la bellezza e il bene
t’uscìa di mente, né pulsar più fuori
gemme sentivi di tra il tuo lichene.
E crebbe e vinse; e tutti i tuoi colori,
tutte le tue soavità, col suco
de’ tuoi pomi e il profumo de’ tuoi fiori,
sono una perla pallida di muco.
VI
Due anime in te sono, albero. Senti
più la lor pugna, quando mai t’affisi
nell’ozïoso mormorio dei venti?
Quella che aveva lagrime e sorrisi,
che ti ridea col labbro de’ bocciuoli,
che ti piangea dai palmiti recisi,
e che d’amore abbrividiva ai voli
d’api villose, già sé stessa ignora.
Tu vivi l’altra, e sempre più t’involi
da te, fuggendo immobilmente; ed ora
l’ombra straniera è già di te più forte,
più te. Sei tu, checché gemmasti allora,
ch’ora distilli il glutine di morte.
IL TORELLO
I
Su la riva del Serchio, a Selvapiana,
di qua del Ponte a cui si ferma a bere
il barrocciaio della Garfagnana,
da Castelvecchio menano, le sere
del dì di festa, il lor piccolo armento
molte ragazze dalle treccie nere.
Siedono là sul margine, col mento
sopra una mano, riguardando i pioppi
bianchi del fiume; e parlano. Ma il vento
porta brusìo di voci, eco di scoppi
di mortaretti, eco di passi presta
ed un confuso tremito di doppi.
Dolce ascoltare allora, con la testa
voltata altrove, quelle due parole…
coperte un po’ dalle campane a festa!
altrove… al Serchio che risplende, al sole
che prende il monte… o Nelly, anco ai vivagni
del tuo pannello, anco alle mucche sole
che brucano il palèo sotto i castagni.
II
To’… quel vitello – al cui grande occhio appari
immensa, con un lento albero in mano,
quando con una vetta tu lo pari —
guarda stupito, nuovo, al monte, al piano:
tutto una selva, il monte; la costiera
sembra un velluto tenero di grano.
Egli che non sapea la primavera,
la dura coda svincola, saluta
il mondo bello. Prima, esso non c’era:
ci si ritrova: fiuta l’aria, fiuta
la terra: all’aria sobbalzando avventa
le brevi corna della fronte bruta;
e con le zampe irrequïete tenta
la terra. Il cielo è tutto pieno d’oro,
Nelly, ed il suolo è tutto pien di menta.
Vuole empir della sua gioia il sonoro
spazio, il vitello, e trae dalle profonde
fauci un muglio arrotato, agro, di toro.
Una giovenca lontana risponde.
III
Dunque, Nelly, rimeni oggi un torello:
savio, però, che sempre ha te di fronte
con nella mano il grande albero snello.
Arrivi a Castelvecchio, alla sua fonte
nuova, perenne, a cui vengono in fila
le gravi mucche nel calar dal monte.
Queste, da un canto, alla marmorea pila
succhiano l’acqua; e quando alzano il collo,
l’acqua dalle narici nere fila.
Dall’altro, suona, empiendosi al rampollo
vivo, la secchia: una fanciulla aspetta
con sui riccioli bruni il suo corollo.
A questa fonte, o Nelly, ora s’affretta
il tuo torello, a bere: dalla piena
conca l’acqua discende alla cunetta,
così ch’ell’ha come un pulsar di vena.
Egli guarda coi grossi occhi, né beve;
ché dentro l’acqua che si muove appena,
vede un coltello azzurro ondeggiar lieve…
IV
Mugola e fugge. E poi mugolando erra
due dì, da selva a selva, nel suo colle,
strappando qualche fil d’erba alla terra.
Cerca dolente le segrete polle
verdi di capelvenere; vi mira
dentro: il coltello taglia l’ombra molle.
Aspetta al pozzo, quando alcuna tira
la secchia: l’acqua vi trabocca e sbalza:
dentro, il coltello gira gira gira.
Allora, al botro: dall’aerea balza,
scende: il coltello posa su la ghiaia;
ma la corrente un po’ l’urta, e lo scalza
forse, e lo porta. Aspetta egli: si sdraia
sui lisci giunchi, e coi grandi occhi spia,
fissando l’acqua di tra la giuncaia,
se mai quell’ombra della morte via
portino l’onde. Sopra la sua testa
il tempo corre per la muta via.
Aspetta: e l’acqua passa e l’ombra resta.
V
Il terzo giorno… «Ecché tu piangi, sciocca?
Sa ‘ssai! En bestie, ‘un ci han lunari: scólta:
‘un si sa gnanco noi quel che ci tocca!»
dice tuo padre, o Nelly. Tu sei volta
alla Via Nova, guardi nella valle,
per vederlo passare anche una volta.
Passa: un uomo alla testa, uno alle spalle:
è impastoiato, ad or ad or trempella…
Passa… Oh! poggi solivi! ombrose stalle!
E quanto fieno! quanta lupinella!
IL SOLDATO DI SAN PIERO IN CAMPO
I
Era poc’anzi nella valle il ronzo