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CAPITOLO II.
ОглавлениеMassaua.—In cerca di abitazione.—Conoscenza della famiglia Naretti.—Notizie dell'interno e consigli pel nostro viaggio.—Descrizione di Massaua.—Un sistema di cura.—Un forno assai semplice.—Gite di caccia.—Il pranzo di Natale.—Invasione di locuste.
Massaua si presenta presso a poco come Suakin, piantata sopra un banco di madrepore e tutta circondata dal mare; si protende come lunga lingua ad est, ove sta un forte e la missione cattolica colla propria chiesuola; segue uno spazio deserto in cui è sparsa qualche capanna, poi viene la cittadina di carattere arabo, seguita dal nucleo maggiore di rozze abitazioni di indigeni; la unisce una diga ad altra isola maggiore su cui sta il palazzo del Governo, abbastanza elegante, che subito risalta all'occhio di chi entra in queste acque.
Avvicinati dalla sanità che con tutta formalità ricevette la nostra patente con lunghe molle in ferro e le espose al fumo di abbondanti profumi, in pochi momenti ci fu concessa libertà di pratica. Il signor Habib Sciavi, delegato sanitario e agente postale, adempie al suo ufficio con vera intelligenza e vero scrupolo; venne a bordo; avevo per lui una raccomandazione che subito ci fece diventare buoni amici; mi piace nominarlo, perchè per lui ho molta riconoscenza, e fu per noi una vera risorsa durante il nostro soggiorno in questa città.
Prima nostra cura fu di recarci dal governatore che ci accolse assai cordialmente; ma ad onta di tutte le nostre buone commendatizie ci disse: telegraferemo a Gordon pacha che siete qui giunti; diremo quanti siete, quante casse e quante armi avete, dove siete diretti, poi dalla risposta decideremo sul da farsi. Non ci restò che far portare a terra tutto il nostro bagaglio e depositarlo nei magazzeni di dogana, poi andarcene in cerca di una casa da affittare, che di alberghi qui non se ne ha idea. Fummo fortunati di trovarne una abbastanza vasta, con un piano superiore e un cortile chiuso; lo stile, arabo; le camere hanno molte aperture, e i vetri sono ignoti; le pareti bianche od almeno lo furono; il soffitto a travicelle, che sono rozzi tronchi non lavorati con sovrappostovi un assito o delle stuoie che portano un grosso strato di terra che forma tetto e serve da terrazza; il pavimento è pure di terra fina e pulverolenta; in complesso presso a poco e forse peggio delle case dei nostri contadini.
Per mobiglia troviamo in una camera un paio di angareb o divani formati da un telaio in legno col sedile di paglia o liste di cuoio intrecciate.
Una delle prime conoscenze fu la famiglia di Giacomo Naretti da Ivrea, che da parecchi anni vive in Abissinia, dove colla sua onestà, col suo grande senno pratico e colla rettitudine e disinteresse nei suoi intendimenti, seppe accaparrarsi la stima e l'affetto del Re che lo tiene come vero amico e pregiato consigliere. Reduce da una gita in Egitto, se ne stava già da parecchi mesi in Massaua aspettando di poter penetrare in Abissinia quando fosse completamente cessato un terribile tifo che decimava la popolazione del Tigré, e sedata una rivoluzione che da tre anni teneva agitata la provincia del Hamasen.
Quantunque si sapesse che il primo andava decrescendo e che per la seconda s'erano intavolate trattative di pace, pure queste notizie non ci giunsero troppo gradite, prevedendo che, per quanto si confidasse che il diavolo potesse essere meno brutto di quello che ce lo dipingevano, bisognava pure rassegnarsi a perdere un tempo che avremmo meglio impiegato nell'avanzare o nello studiare l'interno. Fummo subito consigliati di spedire una lettera al Re Giovanni Kassa per annunciargli il nostro desiderio di recarci a visitarlo, fargli palesi i nostri progetti tutt'affatto commerciali, e domandare la sovrana permissione di entrare nei suoi Stati.
MASSAUA
Questa specie di supplica era già stata preparata al Cairo, dietro suggerimento avutone, e scritta su pergamena in caratteri amarici da un sacerdote cofto. Accompagnata da una lettera di raccomandazione di Naretti, fu subito spedita per mezzo di apposito corriere al campo reale.
Fra il 15º e il 16º lat. nord, è situata Massaua, che come dissi, sorge sopra un isolotto di madrepore che si estende per circa 900 metri da est ad ovest e per 250 da sud a nord elevandosi non più di 6 metri sul livello del mare; un canale di circa 600 metri di larghezza la divide da un altro isolotto di maggiori dimensioni detto Tau-el-hud, ed a questo si accede per mezzo di una diga, come pure per mezzo di altra diga, della lunghezza di 1200 metri, si passa poi dal lato di ponente alla terra ferma. Tutto quello che si vede è aridità assoluta, e solo lungo la spiaggia attecchisce qualche arbusto che può vivere sorbendo acqua marina; non è che durante la stagione delle pioggie che la superficie si copre di uno smalto verde, e nel resto dell'anno, se l'occhio vuol riposarsi, non può che volgersi al sud della città dove un isolotto detto Scek-Said da un santone che vi fu sepolto, è tutto coperto da vegetazione. Geograficamente Massaua dovrebbe appartenere all'Abissinia, ma è occupata dagli Egiziani a cui fu ceduta mediante trattati dalla sublime Porta nel 1865.
Per dare un'idea del suo interno e del suoi abitanti la percorreremo partendo dall'estrema punta dell'isola a levante, dove si innalza un piccolo forte con caserma, da un lato, e la Missione cattolica tenuta da sacerdoti francesi, dall'altro: si attraversa in seguito uno spazio occupato da grandi cisterne scavate, dove si raccoglie l'acqua delle piogge, e da qualche tomba di mussulmani: a sinistra lasciamo qualche meschino gruppo di capanne per vedere sulla destra alcune abitazioni in pietra di carattere arabo, una moschea, l'ufficio di sanità e di posta, il palazzo del governatore, una catapecchia che fu demolita durante il nostro soggiorno e forse or si starà ricostruendo, i magazzini di dogana, un gran palazzone appartenente ad un ricco commerciante arabo: tutto questo forma la fronte che guarda l'ancoraggio dei bastimenti: all'interno qualche altra casa in pietra e moltissime capanne. Partendo dalla spianata che è il pubblico sbarco innanzi la dogana, dove abbiamo ammirato qualche filuka, barca originale del paese, che colla lunga vela tagliata ad ala d'uccello ritorna dalle quotidiane escursioni alle isole vicine, qualche vispo moretto che con piroghe scavate in un sol tronco guadagna di che vivere trasportando le mercanzie da terra a bordo, o qualche pescatore che seduto su due semplici tronchi uniti a zattera, colle gambe pendenti nell'acqua, getta e ritira continuamente l'amo cui spessissimo è appigliato qualche pesce, e dopo aver passati in rivista centinaia di sacchi di stuoia pieni di grano e di caffè, pelli essicate, otri colme di burro liquido, casse imballate in Europa, denti di elefante involti in cuoio, grossi corni di bue pieni di zibetto, mercanzie tutte che mosse dalla forza di robusti biscerini aspettano di pagare il loro scotto per entrare od uscire dal paese, sortiamo da questa specie di recinto, e salutati da una sentinella che guarda un portone, passiamo al primo bazar o via fiancheggiata da casine ad un sol piano, coperta da logore stuoie che dovrebbero riparare dal sole. Qui esercitano il commercio di tessuti e filati importati dall'Europa, i baniani, tipi indiani che in tutto il Mar Rosso hanno quasi il privilegio di questo genere di commercio. Sono generalmente grassi, giallognoli, l'occhio tagliato alla chinese, portano per tutto abito un drappo bianco girato alle spalle o alla cintura, attorno la quale spesso tengono pure un bellissimo monile in argento; le unghie e i denti hanno coloriti in rosso, la testa originalmente rasa lasciando solo sparsa qualche ciocca di capelli, grossi bottoni d'oro od argento con pietre preziose infissi nelle orecchie e molto profumo sparso sulla pelle. Sono tipi effeminati, poco simpatici: vivono senza mai toccar carni temendo trovare nell'animale immolato l'anima di qualche congiunto od amico, e morti si fanno bruciare e sepellire con tutte le loro gioie, che sono la maggiore loro ambizione: sono del resto abitanti tranquillissimi che godono fama di onesti non solo, ma di commercianti discreti.
Parallelo a questo abbiamo il bazar proprio del paese, ancora più originale. È qui dove si incontrano i mille tipi diversi: l'arabo che ti fa i sandali, il piccolo negoziante che ti vende grano, riso, datteri attorno ai quali svolazzano nubi di mosche, l'altro che t'offre su un gran bacile qualcosa che somiglia a caramelle, la donna che vende latte acido, burro, pallottole di tamarindi. Un odore nauseante ci annuncia che siamo vicini al friggitore che prepara continuamente frittelle e pesci e tien pronta una gran pignatta piena di riso cotto. E mentre passiamo questa rivista, un ragazzetto verrà ad offrirci un mazzolino di insalata raccolta nella mattina, od una ragazzina dai modi semplici ma garbati, avvolta solo in un lurido cencio, ma ornata di braccialetti alle mani e ai piedi, di grossi anelli d'argento alle dita e alle orecchie, di qualche collana di conterie o di conterie intrecciate ai capelli, e col naso forato da uno stecchetto, insisterà perchè da lei comperiamo qualche limone, cercando collo sguardo penetrante di farci capire che non è solo quello che intende offrirci. Avanziamo di pochi passi, ed avremo il macellajo, che non ha bottega, ma ammazza in pubblico il suo bue, leva la pelle che distesa al suolo diventa tavola, e su questa, colle mani, le braccia, e quella poca camicia tutte rosse di sangue, divide in pezzi la sua vittima a seconda delle richieste, misurandone le parti su una bilancia delle più primitive, che fra l'altre cose i pesi son pietre: rimpetto abbiamo un arabo che vende focacce, e a pochi passi una di quelle botteghe come alle volte si vedono alle nostre fiere, che non hanno nulla di intatto, tutto vi è scompagnato e rotto; non vi si vede oggetto che sembri possa servire, ma pure trovano i loro amatori. Qui vedete qualche panierino colla sostanza che serve a tingere in rosso le unghie, o la galena per tingere l'occhio, qualche droga, poi un'infinità di cianciafruscole cui non si sa adattare nè un uso nè un nome. Siamo sbalorditi da tutta questa novità e dal baccano che rammenta certe viuzze di Napoli; ci ritiriamo per evitare un somaro carico di pelli piene d'acqua e ci sentiamo nella schiena qualcosa di tenero, è un otre colmo di burro fuso portato da una vecchierella, accompagnata da qualche ragazzetto in costume prettamente adamitico, che ci rivolge lo sguardo intelligente che dinota timore o sorpresa: vorremmo accarezzarlo se fosse un po' meno sucido, non possiamo però trattenerci dal mettergli nelle manine qualche piastra.
Usciti da questi bazar ci troviamo in una piazza dove è il caffè, logora tettoia di paglia sotto la quale si radunano le poche persone trattabili che qui abitano, e vi passano delle ore intiere sorbendo caffè alla turca e fumando sigarette o narghillè: da qui proseguendo, abbiamo qualche abitazione ancora in pietra ove stanno alcuni greci che nelle loro botteghe tengono di tutto, dalle sardine alle scarpe; il vice-consolato di Francia che occupa una delle più belle case, e una massa di capanne rettangolari ove abitano gli indigeni sempre poveri, ed una massa di donne abissinesi che superbe della loro bellezza vengono qui a sciuparla facendone vilissimo mercato.