Читать книгу Il Giudice E Le Streghe - Guido Pagliarino - Страница 8
ОглавлениеIl dubbio cominciò a nascere cinque anni dopo la pubblicazione del mio tomo.
Era il secondo pomeriggio d'una tepida giornata di fine inverno, ormai quasi al tramonto. Tornando a casa, al mio solito a piedi, m'ero soffermato nel gran mercato di alimenti e tessuti che occupa tutta la piazza del tribunale. Era quella l'ora in cui le bancarelle smobilitano e si può trovare cibo a minor prezzo. Comprata una bella pollastrina viva, che mâero fatta uccidere, me la conducevo verso casa pendula innanzi, tenendola per le zampe nel pugno destro, mentre nel sinistro stringevo, come sempre quando incedevo, l'elsa della mia spada. Intendevo apparire, come ogni volta, fiero e potente nonostante l'imbarazzo di quel pennuto; e debitamente ognuno m'aveva fatto ala e tanto di cappello, sia sulla piazza sia nel resto della via; salvo... Ebbene, un infante sconosciuto, ero ormai quasi a la porta della mia dimora, non s'era scansato! Anzi, mâaveva urtato ed era corso via senza chiedere venia nonostante un mio offeso: âPoffarre!â; di più, quandâera ormai di molte braccia lontano confuso nella folla, avevo dovuto subire lâonta vile dâuna certissima pernacchia. Solo poi avrei compreso ch'era stato quello un segno del Cielo contro la mia superbia e, fors'anche, della visita che, di lì a poco, avrei ricevuto; ma al momento, mâero illividito.
Una volta a casa, un appartamento nei pressi del tribunale dove abitavo solo e con un solo servitore, dismessa lâira col bagnarmi la testa dâacqua fredda, raccomandai al servo l'attenta cottura arrosto della pollastrina. Non era stagione, altrimenti avrei comandato di friggerla nel sugo di quel novissimo frutto che alcuni chiamano il pomo di oro1 ma in realtà , quando giustamente maturo, è rosso inferno, tanto che, come mi era stato riferito mesi prima da una spia, il popolino, ben inteso quando sa di non essere udito, usa chiamare quello splendido piatto âer pollo a la dimoniaâ1 ma i demonologi, subito da me interpellati, assaggiato quel cibo con assoluto scrupolo, ripetutamente, avevano concluso che in quell'ottima pietanza il maligno non aveva dimora e che ogni cristiano poteva mangiarne senza peccato, purché non con gola.
M'ero appena infilato a mio comodo entro la veste da camera e, assiso sulla scranna del mio studio, attendendo il desinare m'accingevo a riprendere una tralasciata lettura de LâOrlando Furioso, quando bussarono all'uscio.
Il servitore m'annunciò la visita dell'avvocato Gianfrancesco Ponzinibio. Era questi il malfamato autore d'un trattato contro la caccia alle streghe, stampato una decina d'anni prima, che io non avevo letto ma conoscevo dai veementi attacchi del teologo Bartolomeo Spina, domenicano gran cacciatore di maligne, contenuti nella sua Quaestio de Strigibus, pubblicata un biennio dopo quellâempio tomo. Le critiche del monaco molto avevano posto a rischio lo sciocco avvocato, anche perché lo Spina era importante e ascoltato funzionario del Medici da Milano che, proprio in quel 1523, era stato eletto papa col nome di Clemente VII e che lâaveva presto levato a cardinale e, dopo non molto, a Grande Inquisitore.
Va ora detto che io non ero più un inesperto magistrato ma tutto ormai, quale Giudice Generale, mi stava sottoposto nel tribunale di Roma, poi che anchâio ero aumentato, tre anni prima, nella stima di Clemente. Infatti, durante il gran sacco dell'Urbe attivato dagli Imperiali nel 1527, mâero adoperato, a rischio della vita, per porre a salvamento i documenti dei processi in corso e di quanto possibile dei passati. Proprio per questo mio potere nel tribunale, come avrei inteso, il Ponzinibio s'era rivolto a me. Ciò aveva osato perché, ormai, egli era forte della protezione di un altro domenicano, l'austero monsignor Gabriele Micheli, ventiseienne soltanto ma assai dotto, potente e stimatissimo nell'Urbe.
Per rispetto al vescovo, che oltretutto già allora godeva fama di santo, ricevetti il Ponzinibio.
Nel suo trattato l'avvocato aveva negato la realtà dei sabba e delle cavalcate volanti e condannato lo strumento della tortura per le confessioni. Ebbene, pare incredibile ma, non appena dopo i saluti, senz'altri convenevoli, egli esordì: "Persino lei, Signoria, confesserebbe d'essere uno stregone se le martoriassero i testicoli con tenaglie roventi!"
Me ne indignai massimamente: come osava parlarmi così, senza cortesi preamboli, senza il dovuto rispetto, senza perifrasi? Tenaglie roventi a me?! "Sappia per certo, mio dotto signore", gli risposi scuro in volto, ma non senza cortesia nella voce e senza affatto scompormi, "che molte streghe confessano non solo senza avere subito tortura, ma non avendone ancora ricevuto la minaccia." Avevo esagerato, perché solo Elvira s'era comportata in tal modo; ma rammentavo l'assoluta conferma che aveva saputo dare alla mia, peraltro già sicura, coscienza.
"Se permette, dottissimo giudice", continuò il vagheggione come se neppure avesse udito, "andrò indietro di secoli, perché meglio possa capire."
Una nuova impertinenza! Ebbi l'impulso di farlo cacciare dal mio servitore; ma pensando alla nobile figura del suo protettore, mi trattenei.
"Andiamo all'inizio del decimo secolo", proseguì, a un manoscritto del monaco Regino di Prüm, oggi a mani del saggio padre monsignor Micheli, cioè alla trascrizione del Canon Episcopi, a sua volta di molti secoli precedente."
"Il Canon Episcopi?" feci eco, cominciando a prendere interesse: "Dei primi secoli della Chiesa?"
"Sì. Potrà leggerlo presso il suo attuale possessore, del quale io sono qui messaggero; ma intanto, se permette, gliene farò accenno."
L'avevo sino ad allora tenuto in piedi, sulla porta del mio studio. Avendolo saputo ambasciatore di tanto protettore, ed essendomi ormai incuriosito, lo feci accomodare e mi accomodai.
"Magia e stregoneria", continuò non appena sedutosi, "seguono la storia dell'uomo, da ben prima del Cristianesimo. Riti stregoneschi son descritti nell'antica letteratura, come in Apuleio, or novamente oggetto di lettura e studio da parte di letterati distinti; e la scoperta inoltre e l'indagine su vecchissimi testi, quali l'Hermetica e la Cabala, da parte del Ficino, del Pico della Mirandola..."
L'interruppi, di nuovo infastidito: "Mio sapiente signore, queste cose sono vere, ahinoi! e ben note anche a poveri insipienti come questo Giudice Generale che pazientemente la sta ascoltando; ma esse di più portano, semmai, a vegliare e a difendersi. Certamente il demonio è attivo in tutta la storia! Pensa di dirmi qualcosa di nuovo? e crede non sappia, ad esempio, dellâantichissima strega di Endor, che predisse la sventura al re Saul?" aggiunsi a mostra del mio sapere, citando il primo caso che mi era venuto alla mente; e, storcendo all'ingiù la bocca, lo fissai negli occhi onde fargli abbassare lo sguardo; ma egli non l'abbassò affatto, e mi sorrise; poi chinò la testa assentendo come a scusarsi e, subito levatala, riprese: "Mi perdoni, mio giudice, ma voleva essere solo un'innocente premessa. Non dubitavo affatto del suo sapere."
Mostrai d'accettare le scuse abbassando, ma più brevemente di lui, il capo per un attimo: "Venga al Canon Episcopi", gl'intimai, "o non la tratterrò oltre"; e cominciai, per buon peso, a tamburellare sul bracciolo del mio seggiolone colle dita della man destra.
Accelerando allora fin quasi a unire tra loro le parole, il Ponzinibio seguitò: "Il Canone, chiedo venia, Signoria, afferma che esistono cattive femmine che credono di cavalcar animali di notte con la dea Diana e di coprire gran distanze in breve tempo e in luoghi segreti svolgere con spiriti incarniti cerimonie blasfeme, ma sottolinea che si tratta soltanto di allucinazioni o di sogni, provocati dal diavolo per impossessarsi della mente delle persone; e sa quali sono i rimedi stabiliti?" Non mi lasciò il tempo di parlare e proseguì: "Penitenza e preghiera. Così è detto nel Canone e così opera la Chiesa fin verso il 1000; poi, bastano pochi anni: un secolo dopo, come risulta da altri documenti presso monsignor Micheli, la gran parte del clero accetta invece, ormai, la realtà esterna di quei fatti, mentre il popolo tutto ne ha l'assoluta certezza; e la magia del diavolo, il suo apparire in persona, visibile, ad adunanze di streghe e stregoni diviene nei secoli cosa sempre più indubitabile."
"Infatti, indubitabile è; e può costare assai caro il pensare altrimenti", replicai severissimo. Stavo per aggiungere una maggior minaccia verso il Ponzinibio, quando mi risovvenni del suo potente protettore e, avendo ormai capito châegli pure la pensava così malamente, tacqui.
Nel mio tacere, l'avvocato replicò: "Eppure, mio giusto signore, il mite atteggiamento del Canon Episcopi indicherebbe, forse, che gli antichi nostri padri erano sprovveduti? Possibile che, mentre fino all'undicesimo secolo, sin quando la tortura fu illegale e a tutti glâinquisiti si garantì un processo giusto", il Ponzinibio, guardandomi dritto negli occhi, calcò la voce su quel giusto, "streghe e stregoni fossero fenomeno assolutamente di secondaria importanza e invece, dopo, vie più ne sia aumentato il numero fino ad essere considerati oggi uno dei più grandi pericoli? Ciò che appare rimedio non sarà invece causa? Come dissi, chi potrebbe resistere al dolore o, anche solo, alla sua attesa certa senza dirsi colpevole? Possibile che negli ultimi secoli, che tanto mostrano di tenere in gloria la sapienza, e in questo particolarmente, si sia persa la ragione, gloria del Cristianesimo nel primo millennio?" Finalmente concluse: "Monsignor Micheli prega per lei e desidera ardentemente vederla, signor Giudice Generale. Egli l'attende giovedì nella sua casa, due ore dopo il levar del sole. Cosa devo riferirgli?"
"La mia obbedienza verso monsignore è assoluta. Gliela manifesti e gli dica che verrò."