Читать книгу Centro Storico - Porta Palazzo E Dintorni 1990 - Guido Pagliarino - Страница 5
Оглавление"Centro storico" è un poema epico, o racconto in versi come oggi più comunemente si dice, un racconto corale che si snoda in "canti" intitolati a personaggi le cui vicende sono, direttamente o indirettamente, collegate. L'avevo scritto nel 1990; nel ‘92 era stato fra i 19 finalisti su circa 850 opere partecipanti a un concorso letterario per l'inedito indetto presso il Salone del Libro di Torino dal Baraghini, l’editore degli allora famosi libretti “1000 lire”. Ampi stralci di “Centro storico” erano stati inseriti, in seguito al concorso, in una rivista e l'anno seguente il Centro Studi Cultura e Società – Istituto di ricerca e documentazione – aveva stampato il poema, lasciandomene la proprietà letteraria. Nel 2001 l’avevo ripreso apportando varianti, nel 2006, tornato sull’opera, avevo eliminato circa un decimo dei versi e, infine, alcuni dei rimanenti ho modificato all'inizio del 2008 arrivando alla stesura che qui ripresento.
Passati ormai molti anni, altri personaggi verrebbero alla penna, ma l’opera diverrebbe ibrida e anacronistica, il panorama non sarebbe più quello del centro storico di Torino nell’anno 1990 con quelle figure "nel piccolo mondo che vive a Torino tra il Duomo / la via Garibaldi ed i corsi Regina e Valdocco", come recitava un tempo l’incipit del poema, abolito nella nuova stesura: figure quali quei marocchini, come generalmente erano indicati tutti gli immigrati arabi, che nel 1990 vendevano per via spugnette e accendini, figure ormai pressoché scomparse e, come sappiamo, sostituite, a un estremo, da persone inserite in una seria attività e, magari, raggiunte legalmente dai famigliari, all'altro, da non pochi clandestini caduti nella delinquenza, dei quali era stato fra gli antesignani il mio personaggio Omàr Salazìm. Nel 1990 non c’era ancora, e dunque non appare nel poema, il terrorismo degli estremisti islamici, presenti ormai purtroppo, com'è ben noto, anche nel nostro Paese, i quali, a Torino, si celerebbero prevalentemente proprio nella zona del centro detta Porta Palazzo. Temo che, causa il terrorismo islamico corrente, qualcuno potrà non vedere con simpatia il mio personaggio del “buon marocchino” musulmano Abdùl Satelèch: i collettivismi, come recita Ariano lo storico, altra figura del poema, son bestie feroci, eppure la tendenza a ragionare per insiemi è malauguratamente spontanea e, sia nella storia, sia nel quotidiano, è fomite d'ingiustizia; ad esempio, poiché islamici sono i terroristi, ecco che tutti gli islamici sono, purtroppo, sospettati.
Porta Palazzo, lo dico soprattutto per i non torinesi, è oggi interamente zona d’immigrati, non solo dall’Africa ma dall’Europa orientale e dall’estremo Oriente, soprattutto dalla Cina; anzi i cinesi hanno costituito in zona Porta Palazzo, in breve tempo, una loro piccola China Town, mentr’erano figure pressoché assenti nell'anno 1990 in cui stendevo il poema. Non più molti sono gl’italiani in zona, vuoi perché molti dei più anziani, quasi tutti immigrati dal Sud, una volta pensionati son tornati ai loro paesi s’origine, per nostalgia e perché la vita là costa assai meno, vuoi perché i più giovani, da tempo, hanno normalmente preferito traslocare in appartamenti più recenti in periferia o in una delle località della seconda cintura torinese. È pure di molto diminuito nel centro storico cittadino, e in particolare a Porta Palazzo, il numero dei negozianti italiani, quali i lattai e formaggiai Antonio e Lisa che il lettore troverà nel racconto, esercizi commerciali quasi tutti ormai serrati e sostituiti, non solo in centro ma nell'intera area cittadina, da iper magazzini, ciò che, nondimeno, già annunciavo nel poema: senza bisogno d’essere un nostradamus, in quanto era un futuro non solo prevedibile ma chiaramente sul farsi, con grossi capitali scatenati a eliminare i piccoli negozi di quartiere, tanto influendo politicamente quanto diffamando la categoria coi loro mezzi d'informazione, accaparrandosi nel contempo permessi d'esercizio su vaste aree. È sopravvissuto però interamente l'ambulantato, soprattutto di alimentari e abbigliamento, primo fra tutti proprio quello del mercato di Piazza della Repubblica e paraggi (il più grande d’Europa) comunemente detto “di Porta Palazzo”, ormai con molti venditori immigrati, prevalentemente cinesi e arabi: penso ch'esso non finirà perché il gusto del mercato ambulante è in tanti consumatori ben vivo e, soprattutto, perché i prezzi di Porta Palazzo restano concorrenziali, a scorno dei mega capitali.
Insomma, il poema mi appare ormai come un insieme di flash – quasi – storici su di un centro storico torinese oggi in notevole misura diverso e, secondo me, peggiore; dunque il titolo originale "Centro storico" è divenuto, richiamando l'anno di stesura del manoscritto, "Centro storico - Porta Palazzo e dintorni 1990".
Un’altra cosa: s’era supposta a suo tempo un’influenza sul poema dell’"Antologia di Spoon River" e, inoltre, del Pavese di "Lavorare stanca"; così, precisamente, aveva commentato il mai abbastanza compianto Giorgio Bárberi Squarotti in un suo biglietto autografo:
Caro Pagliarino
ho letto con vivo interesse questa galleria di ritratti di personaggi di un quartiere torinese, quasi una specie di "antologia di Spoon River" di vivi (con qualche morto), raccontata dall'autore - testimone nel verso di ampio respiro, ben modulato e scandito, da cui i volti umani, le tragedie, le situazioni paradossali e grottesche vengono fuori con efficace rilievo. Spesso l'attacco fa pensare a Pavese: con un che di ben più cupo e desolato, tuttavia.
Giorgio Bárberi Squarotti
Sull’opera “Spoon River” mi trovo d’accordo, sebbene la mia lettura del Lee Masters precedesse di quasi tre decenni la redazione di “Centro storico” e durante la stesura non l'avessi in evidenza; tuttavia, a cose fatte, non ecludo affatto che il mio inconscio l'avesse presente; quanto invece al Pavese di “Lavorare stanca”, con quei suoi versi che a me, amante del ritmo, pur senza contestarne affatto il valore, tutt’altro, mi suonano un po’ prosastici, penso che quel grande non c’entri, se non per la piemontesità, tanto come carattere di fondo, quanto per la comune, intenzionale traslazione in italiano, qua e là, di forme della lingua piemontese, ciò che però non è invenzione né sua né mia, ma prassi dell’ormai quasi scomparso popolo subalpino autoctono; peraltro, pare proprio che il “Lavorare stanca” pavesiano dovesse a sua volta a Edgar Lee Masters.
Inserisco in appendice al poema la prefazione di Sergio Notario alla prima edizione dell’opera, presentazione che originava da una posizione metafisica e ideologica diversa dalla mia; tuttavia, la capacità e l'umanità del prefatore avevano saputo cogliere sufficientemente bene il mio sentire, nonostante alcuni punti in cui si notava la lontananza di Sergio dal Cristianesimo; ad esempio, laddove affermava che il credente sente tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra, non mostrava d'aver chiara la distinzione fra dolore e male e il fatto che il cristiano non è affatto manicheo ma, al contrario, sente il peccato agitarsi in lui, e si veda cosa ne dice Paolo nella lettera ai Romani, 7, versetti18 e seguente: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”: per i cristiani è vero male solo il peccato, causa di dolore in ogni caso, mentre la sofferenza non sempre deriva dalla cattiva volontà di esseri umani, basti pensare a una malattia; ed è proprio qui che, a mio sentire, il Cristianesimo si distingue dalle altre religioni, col suo Dio ch’è uomo nel suo proprio Essere eterno e prova anche l’esperienza della vita materiale terrena entro la Storia (teologo medievale Duns Scoto1 ) assoggettandosi dunque a soffrire e morire a causa dell’altrui libera scelta (potenti del Sinedrio e del Tempio), rispettando la libertà concessa da Dio stesso a ogni essere umano. A un certo punto della prefazione il Notario parlava del miracolo d’una conversione, ma il lettore non cerchi quei versi, infatti li ho eliminati: da tempo li avevo avvertiti dolciastri; costituivano il vecchio finale nel quale il personaggio di Vincenzo il razzista diveniva credente e buono; adesso il poema si chiude sulla stessa situazione dell’inizio, quella d’un Vincenzo maligno, come normalmente succede nonostante le preghiere altrui, perché Dio rispetta la libertà di coscienza donata a ciascun essere umano, e l’assassinio da lui non impedito di Gesù ne è caso lampante. Sono molto riconoscente a Sergio Notario, poeta oltre che critico, musicista e tant’altro ancora, che, non limitandosi a scrivere la prefazione, aveva continuato a seguire l'opera per diverso tempo dopo la stampa, con presentazioni e letture pubbliche.
G.P.