Читать книгу Personale Sanitario In Tempi Di Pandemia. Una Prospettiva Psicologica. - Juan Moisés De La Serna - Страница 8

CAPITOLO 1. CONTESTUALIZZANDO
La denominazione del COVID-19

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Uno dei problemi degli psicologi sociali è raggiungere la fedeltà dei clienti nei confronti di un marchio, che è quello che comunemente utilizziamo per identificare una determinata persona, prodotto o azienda.

Normalmente quando pensiamo a un’azienda come la Coca-Cola, McDonald o l’Ikea, di solito lo facciamo in relazione ai prodotti che vendono. Se guardiamo ad altri marchi come U.P.S., Iberia o Microsoft, lo facciamo sui servizi che offrono.

Un qualcosa che influenzerà in modo decisivo l’acquisto del prodotto o del servizio in questione, non solo sulla base dei nostri criteri, ma anche in merito all’opinione altrui e del condizionamento dei media attraverso la pubblicità.

Allo stesso modo, quando pensiamo a Stephen Hawking, Barack Obama o Rafael Nadal non lo facciamo più in base ai prodotti o ai servizi, ma per il loro marchio personale, che hanno sviluppato grazie alle loro carriere scientifiche, politiche o sportive; ciò significa che gli aspetti emotivi ad un marchio possono essere riferiti anche a una persona, a un’ azienda e persino a una località.

Bene, la stessa cosa accade quando si deve dare un nome alle “calamità naturali”, ad esempio quando si tratta di appellare i cicloni tropicali che ogni anno tormentano gran parte dei Caraibi e del Nord America.

Come riportato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (2020), questi nomi seguono elenchi prestabiliti che ruotano, lasciando però nel nome molti degli effetti disastrosi dell’uragano Katrina del 2005 o di Ike del 2008.

Quindi, in linea di principio, questi nomi non hanno alcuna relazione con la data in cui il fenomeno si verifica, la sua violenza o le aree più colpite, non ci sono motivi specifici per cui possono venire chiamati in Inglese o in Spagnolo (ad esempio, rispettivamente Barry o Gonzalo), oppure con nomi maschili o femminili (ad esempio, Lorenzo o Laura). Tuttavia, può il nome dei cicloni tropicali avere qualche tipo di impatto sulla popolazione?

Questo è ciò che si è cercato di capire attraverso un’indagine condotta dal Dipartimento di Amministrazione e Società, in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia, il Communications Research Institute e l’University of Illinois Research Laboratory per la ricerca su donne e genere, e al Dipartimento di Statistica dell’Arizona State University (USA) (Jung, Shavitt, Viswanathan e Hilbe, 2014).

Lo studio ha analizzato le conseguenze climatiche degli uragani negli Stati Uniti avvenuti negli ultimi sei decenni, differenziandoli in base ai nomi maschili e femminili. Ciò che si è scoperto è innanzitutto che quelli a cui erano stati dati nomi femminili erano quelli che avevano causato maggiori effetti distruttivi e morti tra la popolazione.

Si ricordi che l’elenco dei nomi è prefissato e che quindi la modalità per appellarli è di tipo consecutivo, così a priori non c’è relazione tra il genere maschile o femminile del nome e la sua violenza. E’ quindi estremamente sorprendente il risultato dello studio, in cui sono stati sottoposti a 346 partecipanti una lista di nomi di uragani, 5 maschili e 5 femminili, per valutare, con una scala tipo Likert da 1 a 7, fino a che punto ciascuno degli uragani sulla lista fosse considerato violento.

I risultati mostrano che gli uragani a cui era stato dato un nome maschile tendevano a essere classificati come più distruttivi degli uragani a cui era stato dato un nome femminile, indipendentemente dal sesso dei partecipanti.

Ciò ha permesso di capire perché a volte gli avvisi delle autorità e i nomi che vengono assegnati alle misure preventive, se maschili o femminili, condizionano più o meno la popolazione.

D’altra parte, il nome delle malattie coniato in ambito sanitario deriva da abbreviazioni che sono correlate ad alcune caratteristiche identificative del sito, della sintomatologia o delle sue conseguenze. Così, già nell’ambito della famiglia dei coronavirus, ci sono stati in precedenza vari focolai, come il SARS-CoV che si è manifestato in Cina nel 2002, le cui iniziali indicano il Coronavirus della sindrome respiratoria acuta grave sualla base della sua sintomatologia; il MERS-CoV emerso in Arabia Saudita nel 2012 e le cui iniziali in inglese si riferiscono alla sindrome respiratoria del Medio Oriente Coronavirus, quindi con chiare indicazioni della sintomatologia e del luogo di origine del suo esordio; mentre per il COVID-19 che sembra sia nato in Cina nel 2019, il suo acronimo in inglese indica solo il nome generico del ceppo del virus, senza fare alcun accenno alla sua sintomatologia o al luogo geografico in cui esso si è manifestato la prima volta.

Si tenga presente che il termine COVID-19 non è stato il primo ad essere utilizzato per questa malattia, ma è il termine modificato e reso pubblico quasi due mesi dopo il primo caso segnalato all’OMS, il che ha portato alcuni ad affermare che le motivazioni di questa modifica, col fine di dare al virus un nome “ufficiale”, nascessero dalla necessità di evitare le conseguenze economiche negative dell’associazione del nome alla malattia nei confronti di una regione o una popolazione. (@radioyskl, 2020) (vedi Figura 6).


Foto 6. Tweet Denominazione del COVID-19


Foto 6 il Presidente dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) Tedros Adhanom Ghebreyesus, che annunciò il cambiamento di nome della malattia in COVID-19. Un morbo che aveva già causato la morte di 1.000.000 di persone.

“Il primo vaccino ”potrebbe essere disponibile in 18 mesi.”

L’obiettivo è evidente: quello di eliminare i termini “virus cinese” o “virus Wuhan”, che indicano chiaramente l’epicentro dell’infezione.

Un atto di deferenza verso la Cina che alcuni operatori sanitari osteggiano, in quanto non è stato utilizzato uguale rispetto nei confronti di altre popolazioni, come nel caso della sindrome respiratoria mediorientale Coronavirus.

Nonostante sia stato dato al virus il nome ufficiale di COVID-19, la popolazione ha continuato a usare i nomi di Virus Cinese e in particolare Coronavirus per informarsi sui sintomi, sulle misure di prevenzione o sulla diffusione della malattia, e probabilmente è ancora troppo presto per capire il motivo per cui il tentativo di dare un nome ufficiale è “fallito”.

Va tenuto presente che per creare un nuovo marchio e farlo aderire ad esso, è necessario affrontare una serie di variabili, come riscontrato in uno studio condotto dalla Taylor University (Malesia) (Poon, 2016.) che aveva l’obiettivo di comprendere le motivazioni del maggior successo di un marchio rispetto agli altri. Per fare ciò è stato selezionato un elenco di cinquanta prodotti giornalieri tra i più venduti di due principali società di marketing, per verificare l’impatto del marchio.

Dopo aver analizzato i messaggi, i depliant e la pubblicità inerenti ai due marchi e diffusi dai media e dalle reti televisive si è scoperto, applicando l’analisi testuale e il metodo interpretativo, che questi marchi si basavano su due pilastri per mantenere la fidelizzazione del cliente.

Il primo era la capacità di generare emozioni positive; il secondo quello dell’estetica dell’onestà, vale a dire, che quel prodotto soddisfa tutte le aspettative pubblicizzate, e ciò ne mantiene alti gli standard di qualità.

Per quanto riguarda la credibilità dell’OMS, sembra che, in base al sondaggio condotto da WIN / Gallup International (ONU, 2014), questo organismo, insieme all’UNICEF, sia una delle agenzie internazionali più quotate al mondo, poiché il 72% degli intervistati ha espresso un’opinione altamente positiva nei suoi riguardi.

Pertanto, è probabile che i cittadini nel tempo faranno proprio questo nuovo termine, tenendo anche conto del divario temporale che si è verificato tra l’annuncio del nome ufficiale dell’agente infettivo l’ 11 febbraio 2020 e la sua effettiva comparsa (vedi Figura 6), cioè circa un mese dopo che la popolazione mondiale era già stata allertata, il 20 gennaio 2020, già con un bel ritardo, dato che il primo caso d’infezione era stato segnalato il 31 dicembre 2019.

Personale Sanitario In Tempi Di Pandemia.  Una Prospettiva Psicologica.

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