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VI.

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Mio padre arrivava in mal punto.

Ero, da più giorni, tormentato da questa convinzione della mia inettezza a qualunque cosa che veramente meritasse di occupare l'intelligenza di un uomo. In certi momenti mi domandavo se quella sproporzione tra la mia idea e le mie forze fisiche e mentali non fosse grave sintomo di degenerazione o di pazzia.

Riflettevo:

—Un gran poeta, un gran romanziere, un gran drammaturgo, qualunque grande artista, qualunque gran pensatore è tale quasi senza saperlo. A nessuno di essi dev'essere mai passato per la testa:—Voglio essere questo! Voglio essere quest'altro!—Si sono sentiti artisti, pensatori, o meglio hanno operato da artisti, da pensatori, creando, ragionando, facendo naturalmente, semplicemente la loro funzione. Chi dice, come me:—Vorrei essere questo! Vorrei essere quest'altro!—ha già la coscienza di essere tutt'altro.

Che sono io? Un orgoglioso, un vanitoso! Un uomo mancato!

E inutilmente soggiungevo:

—Al pari di mille e mille altri!

Questo non mi consolava, non leniva il mio tormento.

Fino al giorno però in cui mio padre venne improvvisamente a disperdere le mie ultime illusioni, io non avevo ancora sentito l'abbattimento così disperato che quel giorno mi faceva singhiozzare bocconi sul letto, brancicando la coperta con mani convulse.

Mi sembrava che il mondo fosse crollato attorno a me e che fosse sparita ogni luce.

—Dario! Dario!—sentii chiamare.

Era la voce di mia madre.

Mi asciugai in fretta il viso bagnato di lacrime, cercai di dissimulare la mia angoscia e corsi ad aprire l'uscio.

—Dario!…

Mio padre le aveva accennato qualche cosa di ciò che mi aveva detto poco prima, e la povera donna accorreva per temperare l'asprezza da lei sospettata nelle parole di lui.

—Oh, mamma!—esclamai, gettandole le braccia al collo e chinando desolatamente la testa, sul suo petto ansante.

—Coraggio! Tuo padre ti vuol bene. Non prendere in mala parte i suoi consigli, la sua insistenza.

—Il babbo ha ragione,—risposi con voce cupa.

—Ascoltami, Dario!—ella soggiunse affettuosamente.

E mi condusse per mano verso il canapè forzandomi a sedere accanto a lei.

Era un po' pallida, ma sorrideva con tale espressione di dolcezza e di benignità, che io sentii dileguare quasi tutt'a un tratto quel fremito di rancore destatosi nel mio animo mentre mio padre parlava.

—Ho fatto come tuo padre,—cominciò;—ti ho lasciato pienissima libertà riguardo al tuo avvenire. È giusto che i genitori non pesino per nulla su questa scelta perchè possono facilmente ingannarsi e indurre in inganno.

—Ah! Non ho da scegliere,—la interruppi.—Ogni via mi è chiusa.

—Credi tu dunque di averle esaminate tutte?

—Tutte!

—Lo so; tu vorresti farti onore nel mondo con le opere del tuo ingegno; vorresti arrivare in alto, alla cima; la mediocrità ti fa orrore; me lo hai detto più volte. Hai tentato, ti è parso di non aver forza da riuscire, ed hai perduto la fiducia che ti aveva sostenuto finora. Sei orgoglioso e modesto nello stesso punto, e ciò onora molto la tua intelligenza e il tuo cuore. Io non m'intendo di queste materie; la mia cultura è troppo scarsa da poter giudicare se hai torto o ragione. Mettiamo che tu abbia ragione. Che vuol dire? Se tutti la pensassero come te, la società perirebbe d'inerzia. Ciascuno di noi porta dentro di sè qualche sogno non mai potuto realizzare; ed io credo che sia bene che avvenga così. Non è certo, figliuolo mio, che avremmo raggiunto la felicità o la gloria, realizzando quel sogno. Nella vita poi vi sono còmpiti umili o modesti non meno necessarii nè meno utili del còmpito dell'artista e dello scienziato. E ci vuole grandezza d'animo e quasi eroismo per eseguirli senza rimpianto di maggiori cose, attentamente, amorosamente, non come penoso dovere, per non sopportarli soltanto come inevitabile croce. Non ti meravigliare che io parli così. Non ripeto cose imparate dai libri; esprimo quel che ho pensato e meditato da anni, silenziosamente, portando dentro di me il mio sogno rimasto tale, ed eseguendo il mio còmpito rassegnatamente, con lo stesso amore con cui lo avrei eseguito, se lo avessi scelto di mia libera volontà.

—Anche tu, mamma?—la interruppi stupito.

—Oh, non immaginare niente che possa eguagliarsi a quel che tu desidereresti di raggiungere! Raramente il pensiero di una donna va più in là della famiglia, di quel nido di amore dove ella vorrebbe essere schiava e regina nello stesso punto. Mia madre è stata un'eletta. Tu non l'hai conosciuta. Avresti avuto una nonna adorabile. Era bellissima e di bontà immensa. Più che coi precetti, mi ha educata con l'esempio. Creatura felice, ha fatto felice l'uomo del suo cuore, e quanti le stavano attorno. Credevo che avrei dovuto avere la stessa sorte; potevo ambirne una migliore?… Invece!… Non accuso qualcuno, e meno di tutti tuo padre.

—Anche tu, mamma?—replicai guardandola fisso negli occhi, quasi temessi che ella, non volesse svelarmi il suo doloroso segreto, e tentassi di carpirglielo per forza.

—Non accuso qualcuno,—ella riprese,—e meno di tutti tuo padre. La sua condizione era molto diversa della tua. Un disastro economico della sua famiglia lo ha costretto a rifare col lavoro quel che l'imprevidenza di suo padre e la furfanteria degli altri gli aveva improvvisamente rapito. Poi, quando la fortuna ebbe aiutato i grandissimi sforzi di attività che egli era riuscito a fare, quella stessa febbre di speculazioni, di imprese, di appalti, di scommesse di borsa che lo aveva risollevato in alto, lo ritenne, quasi sua preda, lo sopraffece, gli die' la vertigine. Fu marito e padre soltanto nei primi anni del nostro matrimonio; dopo, è stato, in famiglia, una macchina creatrice di ricchezza; non ha avuto tempo di esser altro. Sballottato di qua, di là, pel mondo, si ricordava di me unicamente per farmi sapere che mi voleva felice, assieme col figlio, e che tutta la sua vita era consacrata a questo scopo. Ma per lui la felicità consisteva nella ricchezza; in niente altro. Io gli sono stata e gli sono gratissima di questa buona intenzione; e ringrazio Iddio che lo ha aiutato in ogni sua impresa. Egli però, te lo dico senza ombra di rancore, ha voluto altrimenti. Io avevo te, ero assorta nelle cure della tua malferma salute, nella tua educazione, e mi mancava il tempo di essere gelosa, di dolermi di esser messa da parte nella sua vita, di essergli divenuta presto, se non un'estranea, certamente non più la donna sua, come sposandolo avevo sognato. Sono stata rispettata, stimata infinitamente; amata, no!

—Povera mamma!—esclamai.

—Non mi compiangere. Ho avuto la buona ventura di rassegnarmi. Quel mio sogno di ragazza mi si è rifugiato in fondo al cuore, vi si è nascosto e addormentato; ed oggi è la prima volta che lo sveglio e torno a guardarlo. Tuo padre non ha mai sospettato che io soffrissi in silenzio, e che rimpiangessi qualche cosa. Mi ha creduto forse indifferente, fredda, anima creata a posta per stare sottomessa, formata per servire un padrone.

—Oh! Tu sei stata dunque una martire, mamma?—dissi, prendendole le mani e baciandogliele ripetutamente.

—Martire è troppo, figlio mio!

Sorrideva serena. Ma negli occhi e in certe pieghe delle labbra le si scorgevano facilmente segni di profonda tristezza.

—Non sono stata felice—continuò—come tuo padre probabilmente ha creduto. Forse, un po', la colpa è mia. Ho avuto un senso di orgoglio che mi ha chiuso la bocca. Nessuno ha mai saputo quel che avveniva dentro il mio cuore. Non mi sono mostrata espansiva neppure con te. E questa casa invidiata, creduta albergo di felicità, ha spesso visto tre ombre aggirarsi per le sue stanze: una, quella di tuo padre, agitata da fantasmi di speculazioni, di intraprese industriali, di progetti di nuovi guadagni; l'altra, la mia, muta, passiva, con una maschera sul viso che impediva alla gente di penetrare il mio doloroso segreto; terza, la tua, povero figlio, tormentata da una gran visione di creazione artistica e di gloria. E siamo vissuti quasi non fosse stato tra noi niente di comune, intendo niente d'intimo; lasciando che ognuno agisse a modo suo, legati unicamente da quelle relazioni materiali di famiglia che bastavano a tenerci insieme. Può darsi che io esageri; può darsi che io giudichi con parzialità. Giacchè tuo padre, in mezzo alla ressa, alla tormenta degli affari, ha pensato sempre a te, al tuo avvenire. Egli ha goduto la vita di viaggiatore che prende qualche cosa, via via, nei buffet delle diverse stazioni, in piedi, senza aver tempo di scegliere, di far lo schizzinoso. Ha cercato il meglio che poteva avere sottomano, si è servito spensieratamente ed ha ripreso il treno, soddisfatto, contento della corsa che lo avrebbe fatto presto arrivare alla mèta del suo viaggio. E viaggiando, ha pensato che coloro che rimanevano in casa sua, dovevano anch'essi essere soddisfatti e contenti perchè potevano godere il frutto del lavoro di lui senza darsi pensiero di nulla. Sono stata forse una donna per tuo padre? Ha supposto che potesse bastarmi l'essere madre quasi per caso. Egli aveva avuto da me quel che desiderava: un figlio. Non voleva averne altri, per non disperdere tra parecchi una sostanza che gli sembrava appena sufficiente a concedere piena indipendenza a un solo. Non me l'ha mai detto; me l'ha fatto capire dal suo contegno; ed io non ho voluto contristarlo ribellandomi. Pensavo:—Chi sa ch'egli non abbia ragione?—E l'idea che facendo diversamente avrei potuto mettere qualche ostacolo al tuo futuro benessere, mi ha infuso la gran forza di rassegnarmi.

Io non osavo d'interromperla, e l'ascoltavo vinto da un senso di maraviglia e di compassione. Una dolce vena di tenerezza mi scaturiva, inattesamente, nel cuore, e me lo inondava tutto. Mi sembrava che quanto di umano, di affettuoso, di carezzevole era fin allora rimasto quasi condensato in ghiaccio nella profondità del mio organismo, si liquefacesse soavemente, cominciasse a circolarmi per le vene, mi infondesse una vitalità nuova di cui non avevo nessuna idea.

Mi sembrava di essere tornato bambino, di crescere di mano in mano, là, sotto gli occhi di colei che mi guardava amorosamente pronunciando, con voce flebile ma armoniosa, quelle significative parole che non erano suoni soltanto ma onde luminose e benefiche.

Così capivo di essere ancora giovane, di avere aperta davanti ai miei passi una via di vita, di gioia, di attività assai ben diversa da quella che l'aridità dei miei studi mi aveva fatto fin allora intravedere. Così mi balenava allo sguardo interiore dell'anima la possibilità di essere qualche cosa anch'io, quantunque non più quel che avevo fantasticato nell'orgoglioso raccoglimento in cui ero vissuto tant'anni.

—Parla, parla ancora, mamma!—avevo esclamato con voce tremante, e sentendomi riafferrare dalla disperazione appena l'avevo creduta quasi vinta.

—Io ho atteso con fiducia questo momento,—ella rispose.—Ricordi? Ogni volta che mi confidavi i tuoi alteri progetti di avvenire e mi mettevi a parte delle tue angosce, delle tue delusioni, delle tue nuove illusioni, io ti dicevo:—Tu puoi giudicare meglio di me, povera donna quasi ignorante. Sei troppo giovane, hai tempo di riflettere!

—E soffrivo per te, non già perchè il tuo sogno mi sembrasse irraggiungibile, ma perchè diffidavo di quel sogno, da donna, da madre. Ti vedevo, con profondo dolore, cercare la soddisfazione della tua anima, la tua felicità là dove ero convinta che non avresti potuto trovarle. Ma non osavo dirtelo; non me ne riconoscevo l'autorità, per quanto il mio dovere di madre potesse scusarmi, se mai lo avessi tentato. Ora però….

—Parla, parla, mamma!—imploravo.

—Ora che tu stesso….

—Ah!… È orribile, mamma! Mi par di morire!

—No, la vita non consiste tutta nell'intelletto; somiglia a una immensa gradinata. È bello aspirare di salirne la cima, di poter parlare al mondo da quell'altezza con la parola dell'arte o della scienza; ma non è avvilente fermarsi a metà o più giù….

—Confuso tra la folla, zero che dà valore a un'unità!—la interruppi amaramente, sentendomi tutt'a un tratto affluire alla bocca il fiotto attossicato della mia delusione, vedendo sparire, quasi irridendomi, gli ultimi lembi del miraggio che mi aveva abbagliato e sedotto.—Oh!—continuai rizzandomi in piedi.—Rinuncio a tutto! Vegeterò, non vivrò. Tu mi aiuterai a sopportare la lunga agonia, se questo miserabile mio corpo si ostinerà a durare! Non aprirò più un libro, non penserò più! La mia intelligenza dovrà atrofizzarsi alfine, e lasciarmi bestialmente tranquillo. Oh!… Rinuncio a tutto; vegeterò, non vivrò!

E così esclamando, avevo la strana sensazione che un'altra persona parlasse a quel modo per bocca mia.

Allo sdegno, al rancore si mescolava intanto quel senso di tenerezza che la rivelazione di mia madre mi aveva fatto, poc'anzi, scaturire nel cuore. E pur balbettando con rabbia, quasi per fissarmelo bene nella memoria:—Rinuncio a tutto! Vegeterò, non vivrò!—la carezza di quel sentimento m'insinuava:

—Vivrai! Vivrai! La vita ha ben altro di quel che tu, miope, vi scorgi!

Rassegnazione

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