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GIU' LE MANI DA LUANA, PLEASE

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Il Papotti lo considero uno dei miei collaboratori più validi e, sotto alcuni aspetti, forse anche tra i più interessanti. Ha sempre dimostrato un intuito ed un acume straordinario, degni - secondo me - più di un investigatore che di un giornalista.

Lo chiamavamo tutti "Mister perché", per via del fatto che ogni tanto sparava su qualche collega una raffica di domande su qualche vicenda di cronaca, a cui regolarmente non sapevamo dare una risposta precisa; e regolarmente concludeva con una affermazione del tipo: "Vedi, mi sembra ovvio che in questa faccenda c'è qualche cosa che non torna." Ed era capace di approfondire una singola questione per giorni e giorni, con ricerche, interviste e magari anche pedinamenti, finché non tirava fuori la sua verità, quella che finalmente gli quadrava.

Querele poche, segno che nella maggior parte dei casi ci azzeccava; e molti scoop. L'unico suo limite, forse, stava nel ristretto orizzonte del suo campo di azione: in genere gossip; o al massimo ambiti locali, perciò di interesse necessariamente limitato a pochi. Forse perché veniva da un giornalino di quartiere e, come diceva lui, gli piaceva mantenere il contatto con la gente e la realtà quotidiana. Peccato. Avesse trovato qualcosa di strano nel presidente del Consiglio, sarebbe stato capace di far cadere il governo, e sarebbe sicuramente diventato più famoso.

Credo che il Papotti fino all'anno scorso non avesse neanche idea di chi fosse Luana Mozzi. A ben guardare, erano di due generazioni diverse. Il Papotti doveva essere un bambino quando lei, prima come cantante e testimonial in pubblicità e poi come pornodiva, approdò alla notorietà. Una rapida ascesa, una enorme fama: gran bella donna devo dire. E quando, saranno ormai quindici anni orsono, Luana Mozzi scomparve in circostanze ancora misteriose, il Papotti sarà stato al massimo un ragazzino.

Poi, mi pare l'anno scorso, un quotidiano pubblicò la notizia di un giudice che indagava non so a quale scopo sulla effettiva morte della Mozzi.

Il giorno dopo - e potrei scommettere che si era un minimo documentato prima di affrontare con noi l'argomento - il Papotti ci fece alcune delle sue domande provocatorie.

"Vi pare possibile che un padre e una madre possano dimenticarsi dove hanno sparso le ceneri della loro figlia? O che una clinica di fama internazionale possa smarrire la scheda clinica di un personaggio famoso che viene da migliaia di chilometri di distanza per curarsi, e morire, da loro?"

No, secondo noi non era possibile.

"E perché secondo voi, dopo quasi quindici anni, qualcuno avrebbe interesse a riaprire il caso della sua morte? A chi potrebbe interessare?"

Su questo ci fu qualche contributo da parte nostra: forse gli interessi dell'industria pornografica? E non era forse vero che già all'epoca nessuno di noi aveva veramente creduto alla versione ufficiale dei fatti?

Il Papotti si buttò anima e corpo sull'argomento, e si assentò dalla redazione per almeno due settimane. Non è poi una cosa così inconsueta da noi. L'importante è che almeno una volta a settimana il direttore del giornale venga tenuto aggiornato su ogni sviluppo.

Dopo di che inviò una videocassetta ai genitori della Mozzi, con cui si presentava e in cui chiedeva di essere ricevuto e di poter fare loro un'intervista, asserendo inoltre di essere in possesso di importante e inedita documentazione sulla morte della loro figlia. Una copia del nastro c'è sicuramente da qualche parte anche qui al giornale, se può servire.

Non ci sperava proprio, e invece la sua richiesta fu subito accettata. Si recò a casa loro, se non sbaglio nelle campagne piemontesi. Era armato non solo di penna e blocco notes, ma anche di un telefonino truccato che fungeva da registratore e micro-telecamera. È uno degli ultimi ritrovati della tecnica, molto in voga tra i giornalisti rampanti; lo usano in molti, grazie anche a questa moda degli ultimi tempi di portarsi il cellulare attorno al collo appeso a un collare di stoffa.

Da qualche parte abbiamo anche questo filmato, ma preferirei che non uscisse fuori: meglio non divulgare certi strumenti di indagine. Però il Papotti ha tirato giù un rendiconto di quell'incontro. Deve essere ancora qui sulla sua scrivania: un attimo solo… Eccolo. Ci dia un'occhiata lei stesso, commissario.

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La casa dei Mozzi è sobria, accogliente ed ospitale, circondata da un modesto giardino. Dopo che ebbi suonato al cancello, si affacciò una signora un po' anziana.

"Cosa desidera?", mi chiese.

"Sono il signor Papotti. Cerco …"

"Ah, sì. Il signor Papotti. Venga, entri pure, la stavamo aspettando."

Oltre a lei, nel salone all'americana mi attendevano, seduti uno sul divano e l'altro su una poltrona, due persone che se fossero state statue sarebbe stato circa lo stesso. Uno era un signore anziano, vestito elegante ma all'apparenza sciatto, sguardo perso nel vuoto forse per qualche malanno di troppo. Accennò un leggero sorriso e un segno di partecipazione solo quando la signora ci presentò: "Lui è mio marito."

L'altro era un tipo un po' losco: vestito scuro, occhiali da sole e, guarda guarda, al collo portava un cellulare quasi come il mio.

"Gradisce un po' di tè?", mi chiese la signora.

"Sì, grazie." Poi, siccome l'altro individuo non mi veniva presentato, domandai io: "E quest'altro simpatico signore, è possibile sapere chi sia?"

"E' il nostro maggiordomo tuttofare", rispose la signora sorridendo. E aggiunse:

"Beh, in fondo lei è un giornalista, qualcosa dovrà pur scoprirla da solo: o vuole che le diciamo proprio tutto noi?"

Sì, in effetti speravo che mi dicessero tutto loro. Ma di sicuro quell'uomo non era un maggiordomo, visto che la signora si occupò personalmente di servire il tè.

"Mi dica, signor…"

"Papotti", l'aiutai io.

"Giusto. Mi dica, lei per caso ha figli?"

"No. Non sono neanche sposato."

"Peccato. Peccato, perché i figli portano grandi soddisfazioni. E anche perché… le sarà più difficile comprendere la nostra situazione. Intendo dire: immaginare anche lontanamente come può sentirsi una coppia che ha perso un figlio. Vede, noi abbiamo volentieri acconsentito a riceverla non tanto perché avessimo qualcosa in particolare da dirle. La nostra verità è semplice. Brutta e triste, ma è la verità: la stessa che è stata scritta su tutti i giornali, sbandierata al mondo intero. Che poi non è stato bello neanche questo: che tutti parlassero di questo dolore, che se ne appropriassero, o meglio facessero finta di appropriarsene; di questo dolore che in realtà doveva essere solo nostro, e di quei pochi che veramente le hanno voluto bene."

Fece una pausa, mentre gustava un altro sorso di tè.

"Deve cercare di capire che non solo nostra figlia è morta, ma è morta più di una volta."

Ecco, pensai, ancora un po' e mi dice tutto.

"La prima volta, che ancora non era maggiorenne, è come se ci fosse stata uccisa. Ingoiata da quel mondo perverso dove non conta che hai un'anima: sei solo un corpo. Fatta prostituire neanche con un uomo alla volta, ma con centinaia e migliaia insieme. Intrappolata nel suo personaggio da carta stampata e da filmacci per soli uomini. Tolta per sempre dalla sua famiglia, dal nostro affetto, dalla bellezza di una vita sana e normale. E convinta a credere che fosse una vita ben vissuta, quasi una missione.

E' stato allora che per noi è morta."

Non riuscì a continuare. Poggiò la sua tazza e chiuse gli occhi, come per raccogliere da dentro di sé le forze per proseguire, o forse per cercare di rivedere il volto sorridente di sua figlia ragazza.

"Ma poi è morta di nuovo, in quella clinica. Perché, - e questo non potrà capirlo se non ha figli - una figlia resta sempre una figlia anche se non ti può vedere, o non la puoi vedere; se non riesci a comunicare con lei; se è scappata di casa, o se ti ha riempito la vita solo di dispiaceri. E' sempre una figlia, e quando muore ti manca da morire, e ti accorgi che era comunque meglio averla viva, con tutti i difetti che poteva avere o i problemi che poteva darti. Un figlio è un pezzo di cuore, come dicono a Napoli."

Fece una nuova pausa, sospirando e chiudendo nuovamente gli occhi per un attimo.

"E poi hanno tentato di ucciderla ancora. Siete stati voi giornalisti, con insinuazioni, sospetti, supposizioni, congiure immaginate chissà con che scopo. La prego, cercate di non ucciderla ancora."

"Si riferisce anche al contenuto della cassetta che le ho mandato?" le chiesi. "L'ha vista fino alla fine?"

"No, no. Ormai non serve più, non ha più senso. Anzi, forse sono io a poterla aiutare."

In realtà non aspettavo altro. Lei si alzò, si diresse ad una scrivania da cui prese una corposa cartellina per documenti, e me la diede. Era piena di fogli di giornale e riviste, qualche libro, foto e articoli ritagliati.

"Tenga. Questo è quanto sono riusciti a scrivere alcuni suoi colleghi prima di lei. Ci sono persino un paio di libri. E' stato detto di tutto. E sarebbe anche bello, se fosse vero. Una fuga d'amore; uno scambio di cadaveri; i servizi segreti francesi o quelli italiani, o forse tutti e due, in cooperazione; un alto generale francese, o addirittura un ministro; una gravidanza troppo imbarazzante; una nuova vita in Papuasia, o forse come missionaria in Africa. Faccia un po' lei, si sbizzarrisca."

"Cerchi di capirmi, signora: io sono un giornalista."

"Certo, certo: lo so. Deve fare il suo lavoro. E' assurdo, oltre che inutile, chiederle di non farlo. Però se le è possibile, una volta fatte le sue ricerche e formulate le sue congetture, aspetti per pubblicarle che io e mio marito saremo morti. Tanto ormai non c'è più nessuna fretta, decennio in più o in meno. Non contribuisca a questo stillicidio continuo, a questo strazio con cui cercano di uccidercela di nuovo. Lei sarà ancora giovane, e non sarà certo questo a farle fare carriera."

Non sapevo cosa dirle. Non trovai di meglio che rassicurarla dicendole:

"Cercherò di non mettere in cattiva luce nessuno della sua famiglia."

Mi alzai, come per togliere il disturbo, ma mi trattenni. Ero venuto fin lì e non avevo concluso niente.

"C'è qualcos'altro che posso fare per lei?", mi chiese cortese la signora.

"Avete qualche ricordo di Luana, in questa casa?"

"Qualcosa nell'altra camera, e forse basta. Dia pure un'occhiata liberamente, come se fosse a casa sua."

In un angolo di quella che doveva essere la camera degli ospiti, sistemati con cura attorno ad un mazzo di fiori, trovai qualche bambolina, qualche libro e qualche fotografia. Ricordi di una ragazza sana e felice, ancora pura e in sintonia con la sua famiglia. Niente altro.

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"E secondo lei", chiese il commissario, "tra le varie piste, tra tutte le ipotesi sulla scomparsa della Mozzi, ce n'era qualcuna a cui il Papotti dava maggior credito? Non so, può essere che ne abbiate parlato…."

"Lui era convinto che dietro ci fossero i servizi segreti. Non che la cosa lo spaventasse, anzi: ciò rendeva il suo lavoro ancora più interessante, una sfida ancor più difficile e quindi più appassionante. D'altronde io ero contento per lui: finalmente un caso rilevante, di portata internazionale."

"E' tutto?", chiese il commissario Sgamon al direttore del giornale.

"Direi di sì. Dopo la sua visita a casa Mozzi, ormai oltre un mese fa, il Papotti è sparito di nuovo. Per un po' ho ricevuti i suoi aggiornamenti dalla Francia; ma poi più niente. Ah, dimenticavo: l'ultima cosa che mi ha mandato è questa foto, con il cellulare. Una donna sulla spiaggia. Forse una certa somiglianza con la Mozzi. Però non saprei… Ma ora sono oltre due settimane che non si fa sentire, e questo proprio non è da lui. Sono certo che gli è successo qualcosa."

"E il suo telefonino risponde libero? Forse potremmo cominciare a rintracciare quello."

"Nessun segno di vita. Le lascio il numero, commissario, insieme a qualche sua fotografia. E qualunque altra cosa possa servire a rintracciarlo, la prego di fare pure il massimo affidamento sulla collaborazione di tutti noi del giornale."

Sta Scherzando, Commissario?

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