Читать книгу Scherzi Del Sonno - Marco Fogliani, Marco Fogliani - Страница 6
I NUMERI GIUSTI
ОглавлениеMi imbattei in Michele per caso, una domenica mattina sotto casa nostra. Stavo attraversando la strada sulle strisce pedonali quando un'automobile di grossa cilindrata e apparentemente nuova iniziò a lampeggiarmi.
"Che vuole questo?", pensai. "E' proprio vero che più sono ricchi e più sono egoisti, e spesso anche maleducati." Dalle luci infatti era passato al clacson, suonato con insistenza; ma poi mi accorsi che stava cercando di attirare la mia attenzione anche con ampi gesti delle braccia.
Non conoscevo nessuno con un'automobile simile - voglio dire di quella categoria. Mi sforzai comunque di capire chi si stesse sbracciando in quel modo, che interpretavo comunque amichevole. Non fu facile attraverso il vetro scuro. Mi parve di riconoscere Michele. "Probabilmente mi sbaglio: non è lui", pensai tra me; ma ricambiai il saluto e proseguii, credendo che tutto sarebbe finito lì. In effetti smise di suonare e di agitarsi, ma poco più avanti parcheggiò, scese dalla macchina e, dopo averla chiusa ed allarmata col telecomando, mi venne incontro.
"Ciao, Filippo: come stai? E' tanto che non ci vediamo. Perché non vieni con me al bar che ti offro qualcosa?"
"Io veramente … tra mezz'ora devo passare a prendere la mia ragazza. Non ho molto tempo."
"Ci tengo davvero: permettimi di insistere. Dai, su, vieni: cinque minuti soltanto."
In effetti la mia titubanza nell'accettare l'invito non era dovuta al mio impegno, più che altro una scusa di cui potermi servire in qualunque momento. Il fatto era che Michele lo conoscevo poco, e questa sua strana, insolita confidenza mi insospettiva. Ci era capitato qualche volta di giocare a calcetto con lo stesso gruppo di amici, tutto qui. Sapevo che abitavamo nello stesso palazzo e quasi niente altro, se non che lui, quando io avevo in vista il traguardo della laurea, era già da anni impegnato nella difficile impresa di trovare una occupazione stabile e decente. Per cui, adesso, vederlo con quel macchinone mi faceva un certo effetto. Forse, pensai, voleva festeggiare il suo nuovo lavoro.
"Ho visto che ti sei fatto la macchina nuova", buttai lì.
"Hai notato, vero? Questo già sarebbe un buon motivo per offrirti da bere." Nel frattempo avevo implicitamente accettato il suo invito e lo avevo seguito nel bar di Giulio, dove prendemmo posto su un minuscolo tavolino.
“Un’altra giornata fortunata, vero Michele?”, gli chiese il cameriere arrivato per l'ordinazione. Lo disse con un tono che faceva pensare ad una scena già vista più volte ultimamente.
“Già. Un altro giorno: ormai potrei dire che è il periodo ad essere fortunato.”
Ordinammo due cappuccini.
"Devo dedurre che finalmente hai trovato un buon lavoro, o mi sbaglio?", gli chiesi.
"In un certo senso … direi proprio di no. Sai: spesso nella vita per fare soldi ci vuole un po' di fortuna, come diceva il mio povero babbo che proprio di fortuna non ne ha mai avuta. Te lo ricordi mio padre? Un signore bassino e grassoccio, coi baffi. Portava sempre una buffa scoppoletta marrone, alla siciliana, perché si vergognava molto della sua pelata. E' morto cinque anni fa: forse ce l'hai presente."
"Può essere … però di preciso in questo momento non saprei."
"Ci tenevo a dirti quello che sto per dirti, perché so già cosa stai pensando. Chissà come si è fatto tutti quei soldi: rubando, o spacciando … o chissà come. E invece è tutto molto semplice anche se, mi rendo conto, piuttosto incredibile. E' stato mio padre."
Fece una piccola pausa. Un'eredità, pensai; ma capii subito di essermi sbagliato.
"Proprio lui che quando se n’è andato non ci ha lasciato niente, per colpa del suo maledetto vizio del gioco. Una notte, ormai sarà un mese fa, mi compare in sogno. Non mi dice niente: solo mi mostra dei numeri. Un sogno che mi è rimasto molto impresso: di solito non sogno mai, o almeno non ricordo cosa sogno. Figuriamoci mio padre! Il giorno dopo ho giocato quei tre numeri al lotto, su tutte le ruote. Era quello che voleva che facessi, non avevo dubbi. Indovina un po’: ho azzeccato il terno secco. E da allora è così ad ogni estrazione: lui viene in sogno la notte prima e mi svela i numeri giusti. Io il giorno dopo li gioco e vinco, sempre sulla stessa ruota. ”
“Ma dai!”
“Lo so che è incredibile, ma è proprio così. Pensa che anche la polizia ha fatto delle indagini su questa mia fortuna sospetta. Ipotizzano connivenze, corruzione: ma non potranno mai trovare niente semplicemente perché non c’è niente, se non mio padre che viene a suggerirmi in sogno. E non potranno certo arrestarlo o interrogarlo, visto che è morto."
Per quanto dicesse, non riusciva minimamente ad attenuare la mia palese incredulità.
"Non posso darti torto se non mi vuoi credere, ma vedrai che cambierai idea, come già hanno fatto tutti i miei amici. Ti dimostrerò che ho ragione. Vediamoci qui sabato mattina alle dieci e ti dirò due dei tre numeri da giocare."
"Va bene", gli risposi: "così mi piace. E se farò ambo ti crederò pienamente." Gli strinsi la mano a suggellare questo accordo, in cui peraltro non avevo proprio nulla da perdere. "Ma dimmi un po': sabato potresti anche dirmeli tutti e tre i tuoi numeri: saresti più convincente."
"No, no: non vorrei che mio padre ci rimanesse male. Essere generosi questo sì - in fondo da vivo lo era anche lui per quanto ci riusciva - ma di più vorrebbe dire essere ingrati. E poi è già troppo così, non è proprio il caso di mettermi ancora più in vista. Mi sono accorto di essere sorvegliato non solo dalla polizia. Di sicuro mi pedinano quando vado alla ricevitoria - sempre una diversa, per non dare nell'occhio - ma non posso farci niente. D'altronde, sai quanti vorrebbero essere al mio posto!"
Più ripensavo a quell'incontro, e più la faccenda mi sembrava incredibile. Ne parlai anche a mia madre la quale, con mia sorpresa, ne era già informata. Un giorno aveva visto tutta quella gente al bar di Giulio … e poi glielo aveva confermato la portiera. Doveva esserne al corrente tutto il quartiere!
"Non lasciarti trascinare nel gioco. Ricordati la fine che ha fatto suo padre", mi raccomandò.
Io il lotto non sapevo quasi cosa fosse, eppure la faccenda mi incuriosiva. Il sabato successivo, a quell'appuntamento al bar, ci sarei andato di sicuro.
Vedevo il profilo di Michele lì seduto davanti a me, e lo chiamavo.
"Michele. Michele!"
Ma lui non si girava e non rispondeva. Sembrava guardare con molta attenzione qualcosa di fronte a lui. Allora guardai anch'io da quella parte. Niente.
"Michele!" Sembrava proprio non sentirmi. Ad un tratto si alzò, sempre più concentrato. Tornai a guardare di fronte a lui e stavolta vidi un signore basso, grassoccio, coi baffi e la scoppoletta in testa. Adesso me lo ricordavo bene suo padre: a ben pensarci l'avevo incontrato tante volte. Da un enorme mazzo di carte cominciò a sollevarne una, mostrandola. Quattordici. Poi un'altra: venticinque. Rimanevano sospese in aria, davanti a noi, mentre ne estraeva un'altra. Poi, con calma, un'altra ancora, stavolta a tre cifre: duecento e passa.
"Questo non può essere un numero del lotto. Non arrivano a novanta?", chiesi a Michele. Ma lui era sparito. Tornai a guardare le carte e suo padre, adesso rivolto verso di me.
"Questo numero è il più importante. Sono le ore che rimangono alla fine di tutto."
O almeno così mi pare che abbia detto, perché poi non ricordo niente altro. Mi sono svegliato sudato e agitato, preso da chissà quale paura. Poi ho passato tutta la notte a cercare di ricordare e ricostruire i dettagli del sogno; di memorizzare i numeri; di capire cosa mi avesse detto esattamente il padre di Michele - l'unica immagine confermata da ricordi della vita reale, insieme a suo figlio, e perciò rimasta veramente nitida dal sogno.
Ma soprattutto a meditare su che senso avesse tutto ciò. La fine di cosa? Di chi? Avevo avuto l'impressione che l'ultimo numero fosse destinato solo a me e non, come gli altri, a Michele. Era vero? A quanti giorni corrispondevano le duecento e passa ore?
Così non aspettai sabato per cercare Michele. La mattina dopo, mercoledì, avvisai l'ufficio che avrei tardato e mi recai al solito bar, sicuro di trovarci, se non lui, almeno sue notizie. Mentre chiedevo a Giulio ("A quest'ora lo trovi sicuramente nella sala flipper", mi rispose), notai dietro la cassa una lavagnetta con sopra scritto "I numeri fortunati di oggi sono: 25 e 72".
"E' stato lui a darti questi numeri?", gli chiesi.
"Naturalmente. E puoi giurarci che li giocherò. Ultimamente non ne sbaglia uno."
Trovai effettivamente Michele impegnato in una partita a flipper dal punteggio esorbitante. "Ciao. Volevo parlarti", gli dissi.
"Aspetta due minuti che finisco la partita. Sto per battere il record."
Ne aspettai almeno dieci di minuti, dopodiché, seccato, gli dissi:
"Volevo solo farti sapere che stasera, oltre ai tuoi due numeri fortunati, giocherò il quattordici."
A queste parole, Michele rimase come di sasso per qualche istante, tanto che la pallina scivolò nella buca. Poco male, pensai, tanto aveva già battuto il suo record.
"Bravo", mi disse appena si fu ripreso. "Potrebbe essere il numero giusto. Hai una probabilità su novanta di indovinare."
"Una su ottantotto", precisai. "Ma anch'io mi sento sicuro. Me l'ha suggerito un uccellino."
"Bene. Sono contento per te."
"Sai, volevo anche dirti che ti credo già da ora, e che …"
In quel momento mi sentii afferrare sotto il collo da una mano enorme. In effetti pochi istanti prima avevo visto entrare nella sala un omone gigantesco, ma non gli avevo dato peso.
"Problemi? Quest'uomo ti sta dando fastidio?" chiese quella montagna umana a Michele senza mollare la presa.
"No, no. E' tutto a posto", rispose Michele. Al che la presa si allentò e tornai a respirare liberamente. "L'unica cosa che non va è che oggi è mercoledì, e avresti dovuto venire alle sette. Mercoledì e sabato: ti sei già dimenticato?"
Quello, imbarazzato, abbozzò qualche scusa.
"Come vedi", riprese Michele rivolto a me "per sentirmi più sicuro ho assunto una guardia del corpo. Me la posso permettere, ormai. Ma soprattutto, la novità più importante è che ho firmato un contratto con un giornale specializzato, Amico Lotto. Forse lo conosci: si trova gratis in tutte le ricevitorie. Da sabato prossimo non avrò più bisogno di giocare per avere i soldi della vincita. Me li daranno loro in cambio dell'esclusiva. Io devo solo comunicare i miei numeri a questa loro persona, e impegnarmi a non dirli a nessun altro. Il contratto ha durata mensile, rinnovabile di volta in volta: quindi se anche i miei numeri non fossero vincenti, loro mi pagherebbero ugualmente fino alla fine del mese. Cosa ne dici: ho fatto bene?"
"Penso proprio di sì."
"Sono contento che la pensi così. E sono contento che tu sia venuto oggi: perché sabato, per via di questo contratto, non avrei potuto mantenere la mia promessa. Non credo proprio che vogliano sapere i miei numeri per pubblicarli."
Era chiaramente dispiaciuto di non poter più aiutare i suoi amici con la sua fortuna, ma capivo che aveva fatto la cosa migliore. Provavo per lui, in quel momento, solo grande simpatia e stima, e per trovare le parole più adatte e carine per dirglielo stavo rovistando mentalmente tra le mie tante elucubrazioni di quella notte.
"Cosa mi stavi dicendo prima che il mio amico ti interrompesse bruscamente?", continuò Michele.
"Che tuo padre sarebbe fiero di te, e che anche tu dovresti esserlo di lui. Ti è ancora vicino, e lo è sempre stato, per quanti errori possa aver commesso."
A queste parole rimase molto pensieroso. "Hai ragione, forse avrei dovuto apprezzarlo di più quando era in vita." Aveva gli occhi lucidi, e non riuscii a trattenermi dall'abbracciarlo. Anche perché avevo la strana sensazione che avrei potuto non rivederlo più.
Stavo per andarmene, quando mi venne in mente il motivo originario per cui ero venuto a cercarlo.
"C'è una cosa che volevo chiederti: tuo padre in sogno ti ha mai detto qualche altra cosa oltre ai tre numeri? Magari un quarto numero?"
"Tengo carta e penna sul comodino, e appena mi dice il terzo numero mi sforzo in tutti i modi di svegliarmi per appuntarmeli, altrimenti li dimentico. E ci riesco. Mi sveglio, scrivo i numeri e mi riaddormento. E' piuttosto faticoso ma funziona sempre. Però a pensarci bene … forse la prima volta c'era qualche altro numero, ma non potevo giocarlo al lotto: era troppo alto."
Quel giorno per la prima volta in vita mia entrai in una ricevitoria e, con l'aiuto di un vecchietto gentile e disponibile, giocai al lotto.
La notte seguente la passai quasi in bianco. A dire il vero cominciai con una serie di incubi, uno più angoscioso dell'altro, per cui restare sveglio si rivelò per me il danno meno grave. Per fortuna trovai giovamento nell'applicare la tecnica di Michele: svegliarmi al momento giusto. Non per scrivere la mia fortuna, ma per sfuggire all'ossessione ricorrente. Incontravo di volta in volta qualche personaggio, quasi sempre della mia vita di tutti i giorni: il fruttivendolo, il barista, il medico, un collega. Si conversava tranquillamente di tutt'altro, e all'improvviso eccolo lì, grande ed in evidenza: un cartello dei prezzi su una cassetta vuota, o un numero sulla lavagnetta dietro alla cassa. Lo stesso numero da una volta all'altra, o forse diminuiva: cento e passa. Lo notavo dapprima distrattamente, quasi stupito; poi lo fissavo sempre più preoccupato. E allora il mio interlocutore interveniva a sciogliermi il dubbio e a darmi l'angosciosa conferma: "Sai cos'è quello? E' quanto manca alla fine di tutto."
Questo tipo di sogno, anche se da me interrotto sempre più prontamente nel momento critico, si ripeté in continuazione anche nelle notti successive. Praticamente dormivo pochissimo, vi lascio immaginare con quali conseguenze per la mia salute e per il mio umore. Ma il sogno che più temevo, che con qualche variante non mancava di presentarsi ogni notte e che più mi debilitava anche nel fisico, era quello del mio medico. Mi trovavo nel suo studio per una visita, un doloretto di volta in volta in una parte diversa del corpo. Col suo solito modo di fare tranquillo e scrupoloso mi visitava, ma quando mi toccava la parte interessata il dolore si acutizzava. Un dolore vivo, vero, penetrante. Aveva una espressione preoccupata: e mentre mi rivestivo e lui tornava alla scrivania, leggevo sul suo volto la gravità della diagnosi. Allora mi svegliavo, ricordandomi il seguito già visto del sogno: lui che mi scrive una ricetta e me la porge. "Questo è quanto ti manca alla fine di tutto", mi avrebbe detto, e sulla ricetta, scritto grande, il solito numero. Ma il peggio di questo sogno era che, al risveglio, il doloretto era ancora lì, lieve lieve ma in aggiunta a tutti quelli dei sogni dei precedenti.
Il giorno dopo aver giocato al lotto scoprii, guarda caso, di avere vinto.
Incassai la vincita con l'intenzione di comprarci un bel regalino per la mia ragazza. Qualcosa in gioielleria, una sorpresa: sono cose che alle donne piacciono sempre, pensavo. Ma l'effetto non fu esattamente quello sperato. Il regalo fu molto gradito, in verità; furono il mio atteggiamento e le mie parole a rovinare tutto. Me ne rendevo conto in tempo reale, ma non riuscivo ad evitarlo. Al di là degli incubi notturni, c'era qualcosa dentro di me che mi stava corrodendo, che stava guastando la mia naturale ed abituale spensieratezza, e lentamente ma inesorabilmente incancreniva il mio bell'umore per portarlo verso un pessimismo cupo e pesante, oggettivamente insopportabile.
Il dubbio che la fine di tutto riguardasse me e me solo, il mio fisico, la mia salute, a poco a poco era diventata una convinzione sempre più certa. Consegnando il pacchettino alla mia ragazza accennai alla possibilità che il nostro rapporto potesse non durare a lungo. Lei si rattristò, interpretando le mie parole come se volessi lasciarla.
"Ma no, voglio dire che potrebbe succedermi qualcosa."
"E cosa mai dovrebbe succederti?"
"Mah, non so. E' da qualche giorno che mi sento strano. Ho dei doloretti qua e là. Voglio farmi vedere dal dottore e farmi fare un check-up completo. Mi sento debole. Mi sento qualcosa che non va."
Insomma, non capirò mai come funzionano queste faccende. Sarà per la straordinaria sensibilità femminile, o per il loro vitale e insopprimibile bisogno di sicurezza; fatto sta che, proprio quando la mia debolezza mi faceva più desiderare che lei mi stesse vicina e nel momento in cui facevo il mio maggior sforzo per conquistarla, mi resi conto che il nostro rapporto cominciava irrimediabilmente ad incrinarsi, e che non avrei potuto più realmente contare sul suo affetto.
L'erosione inesorabile, soprattutto notturna, del mio fisico e delle mie forze proseguirono al punto che venerdì mi decisi a recarmi dal dottore. Mi fece uno strano effetto affrontare dal vero una situazione che avevo più volte sognato e temuto come un incubo; ma avevo ancora sufficiente razionalità per capire che in ogni caso non avrei potuto imputare alcunché al mio medico curante.
Mentre la sua mano tastava le parti del mio corpo a mio dire doloranti, constatai con un certo sollievo che il dolore non si acutizzava. Avrei dovuto farmi vedere da uno psicologo, pensavo, ragionando sull'inevitabile inesattezza della diagnosi e sull'inefficacia dei rimedi che di lì a poco mi sarebbero stati proposti. E invece il consiglio che ebbi fu pieno di buon senso: prendermi un bel periodo di ferie. Il mio stato, a suo parere, era dovuto essenzialmente a nervosismo da stress e alla stanchezza.
"Certamente", pensai tra me, "se mi mancano solo dieci giorni di vita a che mi serve accumulare ferie? Meglio consumarle tutte, finché posso."
Ebbi un attimo di terrore vedendolo con la penna in mano in procinto di scrivere su un foglio di carta intestata. Temevo il solito numero; e invece mi prescrisse ulteriori accertamenti, più che altro per scrupolo. E delle gocce per aiutarmi a dormire, se mai avessi voluto dormire.
La visita del medico ebbe comunque un effetto molto positivo: non ci furono più altri sogni ambientati nel suo studio. Poteva essere un indizio interessante da riferire allo psicologo nel caso, ormai sempre più probabile, avessi deciso di consultarne uno.
Chi invece quella notte non mancò di presentarsi puntuale in sogno furono Michele e suo padre. Avevo quasi dimenticato: l'indomani era giorno di estrazione. Appena vidi Michele mi ricordai con dispiacere di non aver preparato carta e penna sul comodino. Non fa niente, pensai, mi sarei concentrato al massimo sui numeri, per cercare di memorizzarli, e su Michele, per capire quale fosse il momento giusto per svegliarmi. Ma valeva la pena tutto questo sforzo? L'avrei fatto non certo per me, ma per mia madre: volevo lasciarle un bel gruzzoletto prima di venirle a mancare, in modo che potesse affrontare la vecchiaia con qualcosa in più della sua sola pensione.
Così assistetti alla solita scena: la grande carta da gioco col primo numero, la seconda, la terza. A quel punto mi voltai verso Michele che era già sparito, segno che era il momento giusto per destarmi anch'io e trascrivere i numeri; ma non riuscii ad evitare la tentazione di guardare la quarta carta che si stava alzando, novantasette. E quando appena dopo, sveglio, presi carta e penna, mi resi conto che i tre numeri fortunati li ricordavo appena, ma il quarto, quello disgraziato, non sarei mai riuscito a togliermelo dalla testa.
L'indomani per me fu una gran fatica uscire per andare alla ricevitoria. Mi sentivo molto debole, e davvero non l'avrei fatto se non fosse stato per mia madre, a cui non potevo neanche dire niente per non darle dispiacere.
Il bar di Giulio era di strada. Così per curiosità mi affacciai e chiesi di Michele; ma di lui nessuno sapeva niente. Non potei però fare a meno di notare quello che era scritto sulla lavagnetta dietro alla cassa: "I numeri fortunati di oggi sono tratti da Amico Lotto." Poi due numeri, di cui però soltanto uno era giusto. Strano, pensai lì per lì; ma in realtà, ripensando a quanto aveva detto Michele, tutto tornava perfettamente.
Per aumentare la vincita giocai i tre numeri su una sola ruota: quella di Roma, su cui avevo vinto la volta prima. Mi sembrava di ricordare che così faceva Michele: sempre la stessa ruota, anche se non mi aveva detto quale. E in effetti la scelta era quella giusta: azzeccai di nuovo il terno, stavolta con una vincita molto superiore. Peccato che, come scoprii solo dopo, per importi così elevati la procedura di riscossione era molto più lunga e complessa. Mia madre avrebbe dovuto aspettare e forse, senza di me, avere quei soldi le sarebbe stato molto più difficile.
Degli ultimi giorni "prima che tutto finisse" ho pochi ricordi, confusi e sbiaditi. Rimasi a casa per giorni sdraiato sul letto, debole e spento. Non trovavo differenze tra il giorno e la notte, passavo le ore sveglio e con la testa vuota, e i sogni venivano così, all'improvviso, continuando a portare l'assillo di un numero che diventava sempre più piccolo.
Ricordo solo mia madre che veniva a portarmi da mangiare, a implorarmi di farmi forza, nutrirmi, rimettermi in sesto. Ricordo di essermi opposto decisamente alla sua proposta di andare in ospedale per farmi le analisi prescritte. Avevo anche rimosso la mia intenzione di vedere uno psicologo.
Ricordo di aver chiesto a mia madre se la mia ragazza mi aveva cercato, e di aver ricevuto a questa domanda una risposta affermativa piena di amore e pietà materna, ma palesemente non veritiera. Non si fece vedere. Peggio per lei, pensavo: quando sarò morto verrà perseguitata dal rimorso.
Ricordo il mio medico nella mia stanza, e un'infermiera che armeggiava con le flebo e le mie braccia. La mia risposta agli stimoli esterni doveva essere pressoché nulla: quasi un vegetale. E anche i miei sogni mi coinvolgevano sempre meno. Il padre di Michele mi diede i suoi numeri un'altra volta, ma l'idea di giocarli non mi sfiorò nemmeno. Feci attenzione solo al quarto; e calcolai che era l'ultimo giorno. L'ultimo ricordo di quella specie di agonia furono tanti rintocchi di campane, a mezzogiorno o forse a mezzanotte. Nel sonno, il padre di Michele mi diceva che era tutto finito. Adesso lo zero era l'unico numero che mi perseguitava, che campeggiava enorme su tutti i manifesti pubblicitari della città. Tutti andavan dicendo che era tutto finito, e lo dicevano con gioia, festeggiando assieme e abbracciandosi come per un grande evento. Tutti tranne me. Mi sentivo un grande dolore che mi esplodeva dentro. Mi sentivo morire dalla paura, perché ero sicuro di essere in punto di morte. Da quel sogno non mi sarei più risvegliato: era il sonno eterno. E alla fine me ne ero così convinto e fatto una ragione, che mi tranquillizzai.
Non fu il sonno eterno, ma un sonno lungo sì. Dormii per quasi due giorni di fila, un sonno pesante, ristoratore e senza sogni. In quei due giorni recuperai tutto il sonno perso la settimana prima. Il mio colorito e il mio aspetto migliorarono in modo talmente rapido ed evidente che addirittura mia madre non si azzardò neanche a svegliarmi per darmi da mangiare.
Al mio risveglio mi sentivo meglio, avevo un appetito enorme ed ottenni senza fatica l'immediata liberazione dalle flebo. Davvero era tutto finito. Erano finiti gli incubi, la mia paura di morire ed i miei problemi fisici. Decisi anche che era tutto finito con la mia ex ragazza, e che doveva finire la mia assenza dall'ufficio e dalla vita normale.
Una volta riscossa la mia ultima vincita sarebbe tutto finito anche con il gioco del lotto. I sogni in cui il padre di Michele suggeriva i numeri vincenti erano terminati. Volli aspettare una settimana per averne la certezza, avuta la quale raccontai a mia madre l'incredibile storia all'origine dei miei trascorsi malanni.
"Adesso una cosa posso dirtela anch'io", mi confessò dopo aver ascoltato il mio racconto. "Prima avevo paura a parlartene: temevo che potessi avere una ricaduta, un altro dispiacere dopo quello dalla tua ragazza. Sai il tuo amico Michele, poverino? Ha fatto una brutta fine. L'hanno ammazzato, sembra. Forse una rapina, o forse, come sostiene la portiera, qualcun altro con cui era coinvolto in un giro di truffe proprio al lotto. E' successo mercoledì verso mezzanotte, proprio quando tu hai cominciato a riprenderti e a dormire bene."
Solo un’altra volta rividi Michele insieme a suo padre. Stranamente somiglianti, erano tutti e due sorridenti e sembravano felici.
"Hai visto che tutto è finito proprio quando dicevo io?”, mi disse il padre. “Ma era solo una faccenda tra me e mio figlio: non avresti dovuto prendertela tanto. Non se l'è presa neanche lui, che pure era ancora così giovane. E pensare che l'ultima volta gli ho anche dato i numeri sbagliati!"
Sempre sorridendo si allontanarono, uscendo per sempre dalla mia vita.