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Baruffa

“Pioverà?”.

“Non so”.

“Se non piove andiamo al lago?”.

“Non so”.

“Se andiamo, mangiamo là?”.

“Non so”.

“Ma non sai nienteee!”.

“Esatto. Se tu invece vedi nel futuro, mettiti un turbante in testa e compra una sfera di cristallo!”.

Tace mortificato e dalla finestra scruta il cielo, le nuvole scure che attraversano la valle, la lieve nebbia calda che sale dall’erba.

“Che brutto posto! Piove sempre!”.

“Sarà meglio il tuo, senza stagioni!”.

“E tu sei vecchia, non hai mai voglia di far niente!”

“Vedremo te alla mia età!”.

“Ma se viene il sole mi porti al lago?”.

“No”.

“Perché?”.

“Perché oggi sarò morta. Prevedo di buttarmi dal tetto se continui a lamentarti e a fare domande: hai preso troppa confidenza, non mi piace!”.

Esce in silenzio, lo sento aprire il portone e poi parlare con Harpo.

Continuo a stirare nella penombra fresca della cucina, il gatto riposa finalmente sul trave del camino, un sottile raggio di sole illumina il vetro.

Ho nostalgia della mia solitudine, del vuoto attorno, del silenzio incantato della mia casa: aspetto l’inverno con i suoi cieli bui sul vetro gelato e i risvegli notturni ancora tiepidi di stufa.

L’abbaio di conferma di Harpo mi raggiunge in cucina. Stacco la spina ed esco nel sole di questa giornata d’agosto.

A proposito di noia…

I bambini si annoiano. Hanno perso la sapienza.

Noi l’avevamo, non come conoscenza, ma gusto, sapore delle cose: tutto era sapienza, tutto era piacere.

Ancora oggi ricordo le impressioni dell’infanzia, la felicità per ciò che scoprivo e diventava mio patrimonio intoccabile.

Andavamo alla valle di Giuan in fila indiana, rasentando bassi muretti di mattoni, percorrendo un sentiero sterrato tutto mirti e fichi d’India.

A sinistra il pendio erto della collina, a destra l’ampio specchio del golfo, tutto insenature e scogli scuri sulla quieta superficie dell’acqua.

Ricordo i colori, il blu azzurro delle onde, il grigio delle rocce con i bagliori improvvisi dei cristalli di mica, il verde intenso dell’erba e quello argenteo degli ulivi.

Racchiusi nella stessa sfera trasparente erano il profumo dolce del glicine e quello acidulo della melissa, l’odore aspro della salsedine e quello fungino del muschio che ricopriva il terreno alla base dei muretti.

Lo stridio delle rondini graffiava il cielo del mattino, il canto dei passeri rivelava piccoli nidi tra gli alberi.

Mio fratello guidava la fila, in mano la paletta e il secchiello, saltellando a tratti tra le pietre sconnesse: è una bella visione, è contento, sorride quieto con quello sguardo che non si illumina, pronto ad accettare la vita come un dovere, una calamità.

Ho poche immagini di lui nella memoria, come se fosse scivolato via dai ricordi, ma questa è viva: cammina e saltella, ogni tanto si volta per vedere se ci siamo, inciampa nei sandaletti blu.

Mia madre chiudeva la fila, il vestito bianco a piccoli fiori, gli zoccoli di legno, la borsa con gli asciugamani.

Alla fine del sentiero c’era una discesa di sassi e, in fondo, un arco di pietra da cui si accedeva alla spiaggetta: seduta su un trono di scogli, il mare davanti, l’onda che lambiva appena i miei piedi, provavo una sensazione di ebbrezza, una pienezza di emozioni così intensa da rendere chiara e concreta la percezione della felicità.

Non ho memoria di me, non so come ero e cosa facevo: ricordo solo l’impressione di assorbire ogni sensazione possibile, come se tutta quella felicità avesse potuto un giorno difendermi dalla vita.

Una favola

Se è possibile valutare la bellezza delle galline, direi che le mie sono davvero splendide.

Alcune sono bianche, con il capo e il collo grigio perla, la cresta rossa, il becco giallo arancio, altre focate, rosso il corpo e il collo nero lucido, magnifiche!

E poi il gallo, bianco come una nuvola, maestoso nel fuoco della cresta e dei bargigli.

- Specchio Specchio delle mie brame, chi ha le galline più belle del reame?

Non so se è normale esserne orgogliosi ma io lo sono, come della veneranda età delle mie oche, del peso spropositato del mio cane, dell’astuzia dei miei gatti.

Ne parlo a mio nipote che ha imparato ad ascoltare o forse sa di essere ostaggio di una nonna stravagante e cerca di mantenere la calma: “C’era una volta una donna crudele che abitava in un castello, intorno al quale si stendevano prati e prati e prati ancora, fitti di galline variopinte.

La donna crudele le preparava grasse e tonde per Natale: spiedi e spiedi di galline spiumate a profumare i saloni del castello, a rallegrare e nutrire gli ospiti.

Ogni giorno la donna crudele chiedeva allo specchio chi avesse le galline più belle e sempre lo specchio le rimandava la stessa risposta - Ma sei tu, donna crudele!

Un giorno però lo specchio inquadrò un prato verde, punteggiato di fiori colorati e giganti. Ma no, non erano fiori…

- Mi dispiace ma un’altra c’è che ha le galline più belle di te. Mavi è il suo nome!

La donna crudele cercò e poi trovò la bella casa di pietra, il prato e quella meraviglia di galline!

Cominciò a rincorrerle e ad infilarle nel sacco ma, a quel punto, arrivò un cane grosso, ma talmente grosso che la divorò in un boccone.

Le galline tornarono a beccare gli insetti del prato, Harpo rimase qualche giorno a brodini e semolino e tutti vissero per sempre felici e contenti”.

“Ma è vero?” chiede entusiasta il piccolo.

“Tutto vero, parola di nonna!”.

Un po’ di scienza

Aggiriamo il castello salendo dal sentiero della pineta: visto da dietro sembra diverso, un muro di roccia scura che improvviso interrompe l’orizzonte.

A destra la collina sassosa, a sinistra il vuoto della valle profonda e terra franosa fino al torrente giù in fondo: l’aria è tutta un fruscio di foglie, il vento soffia tra i tronchi fitti dei pini.

“Perché le nuvole ci accompagnano?”.

“Possibile che tu non possa mai tenere la bocca chiusa? Guarda come sono belle, bianche, morbide! E guarda il cielo, così azzurro, limpido!”.

“Quella lì che sembra un topo era sul castello e ora è davanti a noi!”.

“Perché il vento la spinge, la fa correre!”.

“E quando finisce il cielo dove vanno?”.

“Vanno a schiantarsi tutte contro un cartello su cui è scritto: Fine del cielo. Scusa, ma perché dovrebbe finire il cielo?”.

“Perché la terra finisce e allora anche il cielo!”.

“Quando hai ragione non ti sopporto!”.

“E il cielo che sta attorno alla terra è rotondo?”.

“No, il cielo è cielo, grande, immenso. E la terra ci sta dentro”.

“Se ci sta dentro perché lo vediamo sopra e non anche sotto?”.

“Perché il cielo non è un budino in cui è immersa la terra, o almeno credo”.

“Forse le nuvole sono sempre le stesse, vanno, vanno e poi tornano indietro!”.

“Come a Monza, girano attorno! Il fatto è che ignoro l’argomento, non so niente del cielo e niente delle nuvole, forse per questo mi piace così tanto guardarli”.

Ora cammina davanti a me con quell’arietta orgogliosa di chi ha messo il dito nella piaga, il baratro sotto il sentiero è niente al confronto di quello della mia ignoranza.

Lo seguo a testa bassa mentre torniamo verso casa.

Complice l'estate

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