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III.

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La casa della contessa Elisa non era un palazzone. Un bel fabbricato signorile di stile moderno, nicchiato, con una leggiadra modestia di villa, in mezzo ad un giardino tutto cintato, il che lo isolava piacevolmente dalla via e dalle case adiacenti. C'erano molti sempreverdi, molti fiori e le mura erano quasi tutte ammantate di edere, pareva d'essere in campagna. Ciò piaceva tanto alla contessa Elisa, e i suoi fedeli salivano volentieri quella piccola scalinata dell'atrio, coi grandi vasi bleu di maiolica di Ginori, cogli arum sì belli e sì alti e le macchie di begonie e le belle lampadine pensili coll'edere sì verdi, e il capilvenere sì minuto, per poi penetrare in quella piccola fuga di sale arredate semplicemente, ma con molto gusto, e andar finalmente a parare in quell'amore di salottino in broccatello antico; tutto mezze tinte e cose gentili, e tocchi femminilmente artistici di addobbo e d'adornamento.

Appena scesa di carrozza, Elisa chiese al cameriere: — È venuto don Marcello?... — E udito che sì, mosse frettolosa a incontrarlo dove sapeva che l'avrebbe trovato.

Egli era infatti nel salottino ultimo. Appena udì quel passetto frettoloso, depose il volume che stava leggendo e si alzò, appena in tempo per ricevere, in piedi, la buona stretta di mano dell'amica.

— Ebbene? — le chiese questa impetuosamente.

— Eh! che furia! — Toglietevi almeno il mantello. Vi sta così bene che è un peccato. Ma...

— Via, per carità! — rispose Elisa sbottonandosi nervosamente.

Egli la guardava, ridendo, ma subito fece una faccia lunga e contrita.

— Bastonate il vostro servitore, Contessa. Egli è reduce da un fiasco.

Ella rimase non sorpresa, ma accorata.

— Me l'immaginavo — sospirò. — Che disdetta! Un così buon partito... Ma cosa le trova poi... colui? Non gli par bella forse?

— Bellissima. Egli rende piena giustizia ai pregi fisici della vostra amica. Una sola cosa gli parve insufficiente in lei.

— E cosa?

— L'anima, cara Contessa.

Elisa buttò dispettosamente il guanto, testè toltosi, sul tavolino prossimo.

— E dàlli.... anche lui, con quest'anima! È una scusa così comoda, ora. Che anima volete che abbia una povera ragazza al giorno d'oggi, coll'educazione che le si dà, colle leggi assurde che ha fatto la società! Vi accerto che Marina è una giovane piena di cuore, e ha dei bellissimi sentimenti, e il vostro amico non capisce...

Don Marcello incrociò le braccia sul petto in atto sì comicamente umile che la contessa dovette far bocca da ridere.

— No, no, vi assicuro..., sono contrariatissima. È un giovane simpatico, intelligente.

— Avete detto testè che non capisce niente.

— Un eccellente partito!... Mi rincresce all'anima. Fortuna che Marina non ne sapeva nulla.

— Uhm!...

— Ma no, vi accerto. Non le abbiamo fatto il più lieve cenno...!

— Tant'è.

— Dio, che ostinato!... Se vi dico che non ne sapeva nulla. E dopo tutto egli poteva non piacere a lei. Non è mica un Adone, il vostro amico. Scommetto ch'ella non lo avrebbe voluto.

— Perdereste la scommessa. — Ella sarebbe stata meno esigente di lui.

— Oh bella questa! Perchè?

— Perchè di sì... E se ci pensate un momento, converrete meco...

La Contessa pensò un momento, e in cuor suo convenne ch'egli non aveva torto. Ma scosse ancora il capo, dubbiosamente.

— Siete ingiusto per lei. Non l'avete mai potuta soffrire.

— Perdonatemi; non è esatto. Ho di lei molta stima, non avrei, se fosse altrimenti, pensato a proporla in moglie ad un mio amico. La benevolenza di cui l'onorate è la sua più valida commendatizia. Nelle sue speciali circostanze ella ha sempre dimostrato un tatto ed un senno commendevoli. Ma se fossi stato al posto di Fedimari...

— Avreste fatto come lui?

— Precisamente, Contessa.

Una pausa tenne dietro a questa schietta dichiarazione.

— Ebbene — disse la Contessa dopo un momento, tutto ciò è molto triste. Io, vedete... detesto tutte queste cose, questa forma di progetti di combinazioni. Mi pare che sia quasi una profanazione.

La sua bella fisonomia assunse inconsciamente un'espressione malinconica piena di sincerità e di sentimento. E continuò:

— Mi direte: ma a queste combinazioni, tu pure presti mano, mentre le critichi. Che volete!... Se ne vedono tutti i giorni, e a volte finiscono bene... meglio degli altri matrimoni. Ma è così triste, tutto ciò... sì dissimile dall'amore!

Modulò dolcemente, con dolcezza involontaria, l'arcana parola.

— Ma è la vita, Contessa. Due cose molto distinte, come vedete.

— Infatti. Si può vivere senza l'amore.

— Certo. Ad un patto però. Di non aver cominciato a provarlo.

— Non si comincia, ecco tutto; — rispose Elisa, sorridendo.

Egli ebbe un impercettibile moto delle sopracciglia. Ella sorrise ancora e soggiunse:

— E sopratutto non si comincia fuor di tempo.

Marcello Plana prese il libro che aveva testè deposto: Mad. Chrysanthème di Pierre Loti, e lo sfogliò un momento. Poi lo rimise sul tavolino.

— Insomma, questa volta abbiamo proprio fatto un buco nell'acqua! Me ne dispiace, credete.

— E a me pure, immensamente. Povera Marina!

— E contate rimettervi in campagna?

— Certo. In queste cose non bisogna mai fermarsi a contare i morti. Quella povera figliuola...

— Non la compiangete tanto. Anzitutto, ha un'amica come voi. Poi ha un'altra amica, pure tenerissima, di lei... lei stessa, cioè, colla tenacità del suo proposito. Vi assicuro che riescirà; col vostro concorso o senza.

— Dio lo voglia! Don Marcello. Vorrei vedere...

— Tutte le pecore sul monte? Che valida sostenitrice del matrimonio. Peccato che non vi ricordiate che, in certi casi, Cicero pro domo sua sarebbe il migliore degli argomenti.

Ella arrossì alquanto e scosse gravemente il capo.

— Oh! non si tratta di questo. Marina...

— Sì, lo so. Marina è abbastanza convinta, per conto suo, non siate in pena per ciò. Ma siete voi che...

Si arrestò; ella aveva lievemente aggrottate le ciglia e una espressione di tristezza passava sul suo volto.

— Voi... siete incorreggibile — completò Don Marcello. — Ed io pure, nel tormentarvi. Ma consolatevi, parto presto per Milano. Mi scriverete, nevvero, mi terrete a giorno dei vostri nuovi tentativi?

— Certamente. Benchè, a dir vero, in questo momento, non saprei proprio a che santo raccomandarmi per trovare...

— La rara avis? Il marito di Marina? Suvvia. Non v'inquietate. Verrà da sè... E ora rasserenate il vostro caro volto di missionario, e date un pensiero anche agli altri miseri mortali. Guardate la vostra posta che vi attende, chi sa da quanto.

— Infatti. Permettete?

Egli chinò il capo e tornò a recarsi fra le mani Mad. Chrysanthème, colle sue figurette birichine, mentre la Contessa andava rimestando in una piccola farraggine di carte, di giornali, di lettere che, giunte nella sua assenza, attendevano al posto solito, là dove il domestico aveva ordine di deporle, in una larga coppa di antico Giappone.

Una viva esclamazione, sfuggita alla Contessa, fece alzare il capo a Don Marcello. Essa leggeva frettolosamente, con evidente sorpresa e crescente soddisfazione una lettera abbastanza voluminosa. Quando ebbe finito, si lasciò andare sulla poltroncina e cominciò a ridere, ma di gusto... quel suo bel riso sonoro, che pareva tornarla sì giovane.

Egli la guardava, curioso, aspettando.

— Oh! — diss'ella finalmente, non appena le venne fatto, e sollevando trionfalmente la lettera — quando si dice il destino!

Guardate qui! Lo sapete voi cosa c'è in questa lettera?... Ebbene! Immaginate... C'è dentro nientemeno che... il marito di Marina!

Amen!... — disse gravemente Don Marcello Plana.

* * *

Era sola, oramai, e pensava!

Addietro, addietro negli anni, nei remoti recessi della memoria, ella trovava i ricordi dell'amica che le aveva scritto ora sì confidenzialmente e sì a lungo, dopo tanti anni di silenzio. Rivedeva i due giardini confinanti delle ville paterne, teatro dei loro giuochi, il pianoforte sul quale solevano assieme eseguire, con tanto impegno le sonatine, applaudite dagli amici indulgenti. Tecla d'Oppado era maggiore di lei, di parecchi anni, e le faceva da mammina all'occasione, con grande disinvoltura.

Ma la contessa Elisa rammentava senza rammarico alcuno, quella specie di amorosa supremazia esercitata su di lei; non solo per l'autorità di qualche anno di maggiore età ma anche per una speciale precocità del carattere di Tecla, precocità sì marcata, che pareva avere affrettato per lei il corso naturale del tempo e tutto arrecatole in anticipazione.

Tutto: l'amore, il matrimonio, la maternità.

A sedici anni, alla sua prima festa da ballo, Tecla d'Oppado era colpita in pieno cuore da una passione romantica ma sincera, per un brillante ufficiale, molto bello, molto nobile e molto rovinato. Pieno di spirito e di brio, disinvolto ed elegante come un moschettiere di Dumas, con un taglio d'occhi azzurri che metteva nelle loro orbite la profondità d'un mare, egli si accorse subito dell'impressione da lui esercitata su quel cuoricino. Tecla non era brutta ed egli la sapeva ricca, forse l'amò pure alquanto, a modo suo. Certo è che seppe convincerla ch'ella non poteva essere felice altrimenti che con lui e manovrò sì bene l'azzurro degli occhi suoi che la indusse a dire gravemente ai vecchi nonni, i quali sostituivano per Tecla i perduti genitori: O quello, o nessuno!

I buoni vecchietti provarono bensì a ridere di quell'ultimatum; ma dopo cinque o sei mesi d'indugio, davanti a quella faccetta pallida e risoluta, su cui parevano andar segnandosi certe stimmate, della famiglia di quelle ch'erano un tempo impresse sul volto della madre di Tecla, morta a ventott'anni di mal sottile, i nonni mutaron parere, e un bel giorno la fanciulla entrando in salotto, vi trovò il conte Aynardo Rescuati Melli. Otto giorni dopo, i giovani erano fidanzati.

Ella fu felice, inenarrabilmente felice. Subito si riebbe. Ci sono di quelle donnine così fatte, per le quali l'amore è simile alla selvaggia canzone dello zingaro fattucchiero che attira specialmente i bambini. Li chiama dai palagi, dalle case, dagli abituri, li toglie ai giuochi, alle gonne delle madri, irresistibilmente! Ed essi vengono giulivi, danzando, battendo le mani in cadenza colla canzone che li guida, dove sa lei, nei labirinti ciechi, nelle solitudini misteriose di una foresta senza fine, nelle strade perse, senza sbocco, della vita.

Ella ubbidì a quell'appello e danzò, giuliva, correndo sulle traccie del fattucchiero!

Dapprima, sul sentiero misterioso fu un incomparabile fioritura di gioie, ed ella tanto ritrovò della sua vita da poterne dare ad un altro essere, dieci mesi soltanto dopo essersi sposata. E le parve allora di poter gettare al destino un osanna di completa, assoluta gratitudine.

Le parve.

Poichè non è nostra la felicità che ci dona esclusivamente l'amore. Noi, col nostro facciamo assai, ma a tutto non si arriva e l'amore è zingaro e frequenta le strade disagevoli che rasentano gli abissi. Il conte Aynardo Rescuati Melli cominciò a sbadigliare un poco, passata quella prima festa di felicità coniugale e paterna. E un giorno, ahimè! s'avvide d'esser molto giovane per un marito ed un papà!

Già... un po' lunghetta la storia! Le sue doti brillanti, l'acciaio terso del suo spirito si arrugginivano in quella cittaduzza di provincia, fra quelle due graziose foggie di bimbi che aveva in casa, la moglie cioè ed il figlio. Per non pensare a quelle malinconie cercava di distrarsi; poveretto! E per distrarsi, consumava molto della dote che gli aveva recato Tecla e sbocconcellava pure un poco di quella fede ch'egli aveva recato a Tecla. Il cambio non era generoso, Tecla se ne avvide e si destò ad un tratto, nel fitto della notte e della foresta. Sola, lo zingaro era scomparso! La canzone non aveva più che un ritornello; quello di Tecla.

Ella era molto giovane, molto inesperta, attorniata da persone vecchie che avevano scordata la scienza della vita. Fu bene, mal consigliata da esse o dal suo cuore? Fu saggia nel suo risentimento? Aggravò la scissura, coll'impetuosità appassionata del suo dolore? Certo; aveva ragione la poveretta. Ma quando mai, in amore, aver ragione fu una ragione valida?

Il conte rientrò al servizio militare ed ebbe la nomina di addetto ad un'ambasciata estera. Ella rimase nel suo vecchio palazzo, coi vecchi nonni e col bimbo. Non erano separati. Egli veniva ogni tanto in famiglia, e purchè non troppo prolungate, quelle visite erano piacevolissime per lui. Faceva un mondo di feste alla moglie e al bimbo, recava loro doni ricchissimi, di un gusto squisito, narrava dei piacevolissimi aneddoti ed alludeva volentieri al tempo in cui, stanco del servizio militare, verrebbe a casa a piantare i cavoli e far studiare quel birichino.

Ma invece, un brutto giorno, a Vienna, se ne morì, stupidamente, in duello per una donna, che non valeva un'ora sola della vita più inutile di questo mondo. A Tecla, dissero ch'era morto di bronchite fulminante!

Quando egli fu morto, ella seppe una cosa: che l'aveva sempre amato, anche offesa, anche lontana da lui. Ma di lui, ora non restava che Roberto. Ed ella amò Roberto per due, per lui e per il padre suo.

Ci sono due maniere di amare le persone: A modo loro e a modo nostro. Coll'idea del come vorremmo essere amati noi, o del come esse amano d'essere amate. Il primo metodo, Tecla lo aveva applicato al matrimonio e non era stato coronato da un brillante successo. Perciò volle, col figliuolo, fare un nuovo esperimento, amarlo cioè a modo suo, contentandolo in tutto. A dir vero, ella corteggiava un fiasco, più colossale del primo, ma il destino, per questa volta almeno, chiuse un occhio sulla sua imprudenza. Nè ella, nè i nonni furono capaci di rovinare Robertino.

Il ragazzo era nato col bernoccolo della resistenza ai metodi sperimentali. Profittava naturalmente di quella tempesta di amore, ma a dispetto di quella trinità d'idolatrie, cosa incredibile... non diventava un ragazzaccio!

Era un ragazzo come gli altri, un po' più birichino forse, con una passione speciale per fare il chiasso ma comodamente, a casa sua. Non diceva bugìe, forse perchè non aveva mai avuto bisogno di dirne, voleva quel che voleva; spiattellato, senza rigiri. Tiranneggiava la mamma, questo va da sè, trattava i nonni con una disinvoltura notevole e dimostrava a loro riguardo una estrema libertà di spirito, ma era loro affezionato e stava volontieri in casa.

Non era un'aquila d'ingegno e studiare gli parve sempre una cosa perfettamente inutile, ma egli strinse le più cordiali relazioni cogli innumeri maestri che la mamma, pur di non mandarlo a pervertirsi nelle scuole pubbliche, gli faceva pullulare in casa. Tutte queste brave e colte persone, egli finiva invariabilmente collo scoraggiarle come istruttori, ma se ne faceva degli eccellenti compagni di escursioni e di cavalcate, nonchè dei caldi amici personali. Andava a caccia col fattore, il quale lo adorava e lo derubava doverosamente e gli diceva sempre, accennando dei larghi tratti di paese: Vede, tutto questo è suo. Le piante, il grano, l'erba, i sassi, le bestie, tutto suo. E anche la roba dei vecchi, quelle belle tenute laggiù, sue anche quelle. Cosa vuol stare a rompersi il capo sui libri?... Lo lasci fare a noi, poveri disperati. E lei, stia allegro e se la goda.

E lui... sfido io, non dava torto al fattore, quel diavolo di ragazzo.

Elisa rammentava benissimo quel monello di Bertino. Doveva essere sugli otto anni quando ella e Tecla si separavano, ah! con quanto dolore di entrambe! Tecla, per andare a stabilirsi in un'orrenda cittaduzza delle Marche, ove uno zio canonico aveva testè lasciato una bella eredità a Bertino; Elisa per seguire il padre suo, in un giro scientifico in Sicilia.

Veramente fu un dolore, quella separazione. Erano amiche nel senso reale, sì raro della parola, malgrado la non lieve differenza d'età, malgrado la non pari posizione. Due anime proprio fatte per simpatizzare, quella vedovina malinconica, non ancora scevra di tutte le sue ubbie di fanciulla, e quella fanciulla grave, posata come una piccola matrona. Per tanti anni non s'erano più vedute, la corrispondenza erasi mantenuta per un tempo non breve, ma poi era venuta meno. Tecla era assorbita dalle sue cure per Berto, ed Elisa aveva ormai delle mansioni speciali presso il padre suo.

Afflitto da un inesorabile e progressivo indebolimento della vista, il barone Nardi, soffriva crudelmente di non potersi più dedicare ai severi studi storici, cui doveva la sua alta fama di scienziato. Ma questo dolore, la figlia alleviava quanto era in poter suo, prestando al padre i suoi begli occhi di Antigone, la sua armoniosa voce di lettrice e la chiara calligrafia, della quale la sua mano elegante rivestiva il dettato di lui sui fascicoli della sua grande opera: Le rivoluzioni dei Comuni Italiani. E una cosa soleva dire, serenamente, Elisa Nardi, (che le attirò un buon rabbuffo della zia Balbina, la testa forte della parentela): ch'ella, cioè, sposerebbe tanto volentieri un uomo che somigliasse al padre suo! E il bello è, che n'era proprio convinta, e aveva chiesto seria seria: perchè? quando la zia Balbina le aveva detto alzando le spalle:

— Per amor di Dio, figliuola mia, non farti sentire a dire di queste corbellerie. Già! l'ho sempre detto, che tu vivi sempre nel mondo della luna.

La zia Balbina, dal suo punto di vista non aveva tutti i torti; ma convien dire che nel mondo della luna non ci si stia poi tanto male, perchè Elisa, coi suoi bizzarri ideali e colle sue funzioni d'amanuense, pareva, ed era proprio felice, e in fatto di matrimonio non se la pigliava con quel fervore più o meno ben celato di molte fra le nostre belle signorine. In casa, la Signora era lei, suo padre l'adorava, attorno a loro s'era fatto un circolo, un po' esclusivo a dir vero, di vecchi amici di casa, quasi tutti assai colti.

Fedele all'antica amicizia con Tecla, Elisa non ne aveva contratte altre, con giovani signore o signorine. Coi giovani era alquanto a disagio.

Essa passava per una signorina eccezionalmente colta, ed alcuni giovinotti, che se ne sarebbero facilmente invaghiti, conoscendola sotto un altro nome, trovavano spiritoso di simulare un piccolo brivido di paura, o una smorfia di riverente sgomento, quando si parlava di lei.

Fanciulletta ancora, aveva perduta la madre. Priva dei suoi consigli, entrata giovanissima nel gran mondo, non aveva saputo evitare qualcuno dei tanti scogli di quel mare infido. Non aveva toccato che delle piccole ferite, subito rimarginate dalla reazione del buon senso e dall'innata equità; ma di quelle che in certe anime ultra delicate, lasciano una traccia e anticipano di anni ed anni il segreto disgusto del mondo. Così: alle grandi riunioni, alle feste, Elisa preferiva di gran lunga la compagnia del padre e quella che gli chiamava d'attorno la sua larga ospitalità di scienziato gran signore. Intelligenza veramente eccezionale, coadiuvata da profonde cognizioni, il barone Nardi amava coltivare le serie doti mentali di sua figlia, addestrando lo spirito di questa al pregio tanto femminile della ricettività intellettuale.

In quell'ambiente ove nulla penetrava di frivolo, in mezzo a studii prediletti e a persone simpatiche ed omogenee, padre e figlia erano felici ed Elisa non si rammentava che alla sua età, a 24 anni, ella avrebbe potuto essere da tempo maritata. Non ci pensava, ecco tutto.

Ma qualcuno ci pensava per lei. La zia Balbina procurò un giorno di trovarsi sola col fratello e gli chiese, coll'intrepidità di chi sa di compiere un'opera meritoria, se contava di sacrificare definitivamente l'avvenire di sua figlia al piacere di averla a segretario dei suoi lavori storici.

L'autore delle Rivoluzioni dei Comuni Italiani cascò dalle nuvole.

Lui! sacrificare sua figlia!

Rimase senza parola, subitamente addolorato ed impensierito davanti alla categorica domanda di quella energica sorella. Il suo egoismo (se davvero n'era stato colpevole) era d'indole affatto inconscia, poichè gli era sempre parso che la figliuola fosse felice con lui, nè desiderasse di mutar vita. Così era infatti, per un assieme di circostanze affatto speciali; ma lo zelo della zia Balbina tanto seppe evocare l'immagine dell'avvenire e rammentare al barone quella tal legge di natura che sbarazza l'umanità della sua parte eccedente ed inutile (dei padri vecchi, per esempio) ch'egli cominciò a ricordarsi che infatti, da qualche tempo in qua, si sentiva alquanto deperire in salute. Già, veramente... era stato un grande egoista.

Osservò umilmente alla sorella ch'egli, però, non aveva mai contrariata la figliuola. Elisa era perfettamente libera di scegliere chi più le piacesse per compagno della vita.

Oh! come rise di cuore la zia Balbina quando udì queste parole! Come rivelavano lo scienziato, l'uomo che non aveva mai avuto, scusasse... un po' di senso pratico della vita. L'Elisa aveva avuta in retaggio da lui, la stessa assenza di sano positivismo; era una piccola marmotta che non sarebbe mai stata capace di pescarsi un marito, con tutte le sue doti trascendentali. Oltre a ciò, era una ragazza eccezionale, che uno dei soliti giovanotti mondani avrebbe resa infelicissima. Per Elisa ci voleva un uomo serio, coltissimo, di uno spirito superiore. Penserebbe lei, insomma, a trovarlo.

A ciò non si oppose il barone. La zia Balbina lo aveva destato come da un sogno; e ora egli si chiedeva come avesse potuto farlo sì quieto, sì prolungato!... E giacchè c'era questa terribile necessità che le figlie dovessero prender marito e i padri rimaner soli, dopo averle tanto amate, dopo essersele tenute a fianco, sì care, per tanto tempo, compagne del cuore e della mente, luce e vita della casa... ebbene... facesse pure, la zia Balbina!...

È d'uopo convenire che la zia Balbina, ispirata dal suo zelo, non operò per nulla colla testa nel sacco, e compì la sua missione coscienziosamente e secondo la sua più stretta idea del dovere e di ciò ch'ella giudicava più atto alle speciali esigenze di sua nipote. Non ebbe pace sicchè non ebbe trovato un uomo, che, a farlo apposta colle mani, non poteva esser più adatto a quella cara Elisa. Uno scienziato anche lui... come quel benedetto papà, meno che la sua malattia era la numismatica. Ricco, nobile, istruito, un pozzo di scienza! Sui quarant'anni, ma un bell'uomo ancora. E un carattere così solido... così calmo, una perla d'uomo.

Insomma quello doveva essere proprio l'ideale di Elisa, quello che meglio rispondeva a tutte le sue idee, le sue abitudini, le sue tendenze! Zia Balbina sfidava chicchessia a trovare per Elisa un marito più ad hoc del conte Emilio Serramonti!

Tutto ciò era molto vero in sostanza e il cuore di Elisa era come una bella casettina nuova che non ha ancora avuto inquilini. Ella accettò fiduciosamente quello sposo, le cui qualità erano indiscutibili, e che aveva comuni con lei e col padre suo tante idee e tante simpatie. E quando, pochi anni dopo il matrimonio della figlia, il barone Nardi si sentì presso la sua fine (immatura dopo tutto, poichè non toccava i 50 anni) benedì in cuor suo il gran dolore che gli aveva imposto la zia Balbina. Oh! sì! poteva chiuder gli occhi in pace, contento del suo sacrificio. Lasciava la sua Elisa nel pieno possesso di una calma, di una ragionevole felicità. Di una cosa soltanto si rammaricava: che ella non avesse figli. Da qualche tempo, più specialmente, questa circostanza lo impensieriva.

Ma zia Balbina, venuta in quei giorni dolorosi, a recare il conforto e l'aiuto della sua testa pratica, combattè colla più consolante energia quel rammarico del fratello.

Ma che! Ubbie! Una donna intellettuale, come Elisa, dotata di sì grandi risorse di spirito, con un marito, quale glielo aveva procurato lei stessa, poteva benissimo far senza della distrazione dei marmocchi. Suo marito amava ricevere, essa lo coadiuvava mirabilmente, avevano un salone letterario frequentato dalle più alte intelligenze. Che poteva desiderare di più, coi suoi gusti, quella povera cara Elisa!

* * *

Veramente, quando, in capo a poche settimane, quella povera cara Elisa perdette il padre suo, una cosa soltanto desiderò con intenso desiderio e fu che la lasciassero sola col suo dolore. Provò una violenta gratitudine pel marito, il quale la sottrasse alle consolazioni e ai ragionamenti pratici di zia Balbina, conducendola seco a fare un lungo viaggio durante il quale egli si occupò assai colle sue medaglie e lasciò ch'ella si occupasse colle sue lagrime e col suo immenso rimpianto.

Non mai, come in seguito a questo pietoso salvataggio, ella fu tentata di credersi ciò che tanto si applicava ad essere: una moglie felice. E quando suo marito ammalò alla sua volta d'una lunga e gravosa malattia che li trascinò per anni ed anni, in caldi e lontani paesi, unica infermiera del conte Emilio fu la moglie sua. Veramente affettuosa ed intima e dolcemente fraterna fu l'esistenza di quei due!

Quando egli morì, dopo solo sei anni di matrimonio, di una dolce morte, confortata da sincere lagrime, ella si sentì veramente sventurata. Le parve che colla nuova si riaprisse in lei l'antica ferita. Nella sua completa solitudine morale, quelle due care memorie ella confuse in un culto di indole quasi pari, e le parve di sentir compiuta e chiusa la vita del suo cuore, nella duplice tristezza del suo lutto di figlia e di sposa...

················

A Costantinopoli ella aveva perduto suo marito, ed ella stessa ne ricondusse la salma in Europa.

Per un anno intero abitò in una sua bellissima villa sulla Riviera. Più tardi comperò una casa a Firenze e fu per lei una gradita occupazione quella di metterla in ordine e di addobbarla, seguendo le ispirazioni del suo raro gusto artistico. In quella circostanza ella osò per la prima volta contrastare il parere di zia Balbina. La buona signora aveva avuto l'idea eminentemente pratica di invitare la giovane vedova a venir ad abitare in provincia presso di lei, allo scopo, diceva ella, di sconcertare le cattive lingue.

Ma la contessa Elisa non si sentì il coraggio di pagare a sì caro prezzo lo sconcerto delle cattive lingue. E seppe tanto bene e con sì amabile dignità viver sola a Firenze, nella sua bella casa, ricevendo come aveva sempre fatto, occupandosi d'arte, di letteratura, di beneficenza, che le cattive lingue, dopo aver provato a pungere, a portar via un po' di pelle a quella purissima riputazione, dovettero smettere. A nessuno venne mai la più lontana idea di poter far la corte a quella signora così gentile e così austera. Alcuni ebbero bensì, nei primi tempi, un'idea assai migliore, quella cioè di chiederla in moglie, ma ella ricusò sì pertinacemente che gli aspiranti desistettero. Uno di essi, più stizzito degli altri per la toccata ripulsa, avendo detto che la contessa Elisa era una donna fredda, egoista e per di più, di una pedanteria insopportabile, molte persone trovarono comodo di adottare sul conto di quella signora un'opinione già fatta, invece di darsi la briga di formarsene una propria e così fu assodato che la Serramonti, con tutte le sue qualità, non era per nulla ciò che si chiama una persona attraente. E zia Balbina scrisse, ad alcune sue amiche di Firenze che le avevano chiesto ragguagli sulla nipote:

«Un angelo, mie care, una donna sublime, ma ostinata all'estremo, e di una deplorevole riluttanza a seguire le buone e pratiche influenze delle persone esperimentate. L'ho sempre detto a quella cara Elisa, ch'essa abita un pochino nel mondo della luna. Fortunatamente per lei, ha circa quarantamila franchi di reddito suoi, per cui in complesso può vivere come le pare e piace, e questo è senza dubbio un gran conforto, nella sua difficile e delicata posizione.»

Oh! un gran conforto, senza dubbio. E di quel conforto ella si giovava certamente, sopratutto facendo molto bene attorno a sè e soddisfacendo i suoi gusti raffinati di artista. Viveva molto quieta, sentendo i vantaggi della propria posizione, colla calma serena che le dava il convincimento, o giusto od erroneo, di essere entrata nella fase definitiva della propria esistenza.

Vestiva molto seriamente, con severa eleganza, e non si tingeva i capelli, benchè fossero qua e là irregolarmente striati in bianco; il che, chi nol sapesse, è la più odiosa maniera d'incanutire che possa capitare ad una signora... Ma la forma della testina era tanto graziosa, e in quel momento per l'appunto, mentre stava leggendo la lettera di Tecla, la contessa Elisa, col volto dipinto dall'emozione intima di quella lettura, colla persona inconsciamente atteggiata ad una espressione veramente artistica di pensieroso abbandono, nella luce e nell'ambiente tanto omogeneo di quell'ora, formava un quadro gentile, pieno di una poesia fresca e squisita e davanti al quale nessuno certo avrebbe pensato di chiedere: Ma quella donna, quanti anni ha?

Oh, quella lettera di Tecla! E da tanto ella non scriveva più! L'assidua corrispondenza dei primi anni della loro separazione era venuta meno, naturalmente, col volgere degli eventi. A rari intervalli avevano nuove una dall'altra. Ma in questa lettera tutta l'antica confidenza tornava in campo, tutta la tenerezza un po' sgomentata di Tecla, le sue angosciose apprensioni materne si rivelavano nella fiducia di un appello caldo e malinconico. Elisa si sentiva il cuore riboccante di memorie e di simpatia e dovette recarsi il fazzoletto agli occhi per poter proseguire nella lettura del seguente brano:

«Il verdetto del dottore non mi ha sorpresa; da tempo avvertivo i prodromi del male che, affrettando ora il suo corso, farà in breve di me una povera inferma, inchiodata, Dio sa per quanto, su un seggiolone. Pure, non desidero di morire... Solo per lui, s'intende.

«Tu sai, cara, ciò che Roberto fu sempre per me. Non fosti madre, ma il tuo cuore è degno di essere un cuore di madre, e perciò sento di poterti dir tutto e chiederti tanto pel mio figliuolo.

«Premetto che, di tutto, la colpa è mia. Mia l'ostinazione di non volerlo allontanare da me. Cercai d'isolarlo da ogni fonte di contaminazione, sognando, follemente delusa anche dalla pieghevolezza del suo carattere, di poterlo tener sempre così, al riparo di tutto. Non seguì i corsi pubblici, fu educato privatamente. Credevo che avrebbe facilmente spiegata qualche attitudine ad una scienza qualsiasi, che si sarebbe volentieri occupato della gerenza del suo patrimonio. Se avesse spiegata qualche passione pei viaggi, l'avrei assecondata, accompagnandolo. Che vuoi? non seppi sviluppare in lui delle tendenze attive, e mi coglie a volte un acuto rimorso, poichè i risultati del metodo da me tenuto non sono certo soddisfacenti. Questa esistenza stagnante di piccola città di provincia, l'adulazione degli inferiori, l'esempio del più dei suoi pari, tutto insomma ha contribuito, non già a renderlo cattivo, nè corrotto... oh no!... questo sarebbe impossibile, col fondo aureo del suo carattere e col bene immenso che vuole a me; ma... egli è nulla... non fa nulla... e... ahimè, ha già soggiaciuto a qualcuna fra le più volgari seduzioni dell'ozio. Ora ciò è finito, la Dio mercè, ma temo per un altro lato, e il ricordo di altre, di antiche sofferenze di quel genere mi tiene in uno stato di incredibile agitazione.

«In una piazzetta remota della nostra piccola città abbiamo un sucido cafferuccio, nel cui retrobottega, in mezzo ad un crocchio di giocatori di professione, i giovani delle migliori famiglie sogliono passare lunghe ore del giorno e della notte. Puoi immaginare le angoscie mie da quando so che Roberto frequenta quel ritrovo, e quando gli leggo in volto, nel pallore delle scomposte fattezze, la traccia di quelle emozioni, quelle che hanno trascinato, perso il padre suo... Ultimamente, ha subito perdite assai gravi. Ne ringrazio Iddio, e approfitto di un momento di disgusto da parte di Roberto per tentare un rimedio eroico. Cosa mi costa... ah! nessuno potrebbe dirlo! Ma non importa, se fu mia la colpa, la penitenza è giusta e deve esser mia!

«Allontano mio figlio da casa sua, da me; lo mando solo, perchè non posso seguirlo, in un centro più vasto, più attivo, ove egli abbia bisogno d'essere qualcosa per essere qualcuno. Voglio che vada in società, bramo che prenda moglie. Avrei potuto dargliela qui, ma preferisco che i legami abbiano altrove un centro di richiamo. Poi, le signorine nostre ricevono anche oggidì un'educazione troppo ristretta e subordinata alle influenze religiose e politiche. La sposa di Roberto deve avere delle vedute proprie, un carattere deciso, ingenuo e una certa cognizione della vita. Non ho esigenza alcuna personale, o fuori di quelle che naturalmente importano la nostra posizione sociale. Mi basta che gli piaccia, che sia d'illibata condotta, di buona famiglia. Della dote non m'importa, è ricco abbastanza.

«Mia cara Elisa, mi hai compresa, nevvero? Accetti la missione che ti do?... Vuoi far le mie veci presso mio figlio, assumere il pensiero del suo avvenire e della sua felicità?

«Ho pensato a lungo; nessuno ho trovato più adatto di te. Il tuo senno, la tua posizione, l'alta stima di cui godi in società, le tue relazioni, tutto mi rassicura, tutto mi affida. È il mio solo conforto, nel dolore della separazione, il pensare che mio figlio è affidato a una donna come te. Fa per lui ciò che puoi, fa ch'egli trovi in te un'amica che gli tenga le veci di sua madre. E questa t'abbraccia con tutta l'anima, ti ringrazia e ti benedice.»

Elisa non leggeva più da qualche minuto. Ma ancora, sul suo dolce occhio castano, si stendeva un lieve umidore. Quanto doveva aver sofferto Tecla per giungere a quella risoluzione! E quanto era lei in quella confessione, come appartenevano al suo carattere quell'impeto d'abnegazione materna, quella rinunzia, quella cieca fede nell'amicizia di una donna!... Oh no, Tecla non s'ingannava, Tecla aveva fatto bene a rivolgersi a lei con quella missione, con quell'appello al suo sentimento materno... E veramente ella la intendeva benchè non fosse mai stata madre!...

Fece un piccolo esame di coscienza, rapido, sincero. — Sì... — pensò poscia umilmente — posso tentare. Farò quello che potrò...

* * *

Il martedì, pranzo di amici dalla contessa Elisa Serramonti. Cinque invitati, uomini ed attempati. Marcello Plana, quand'era a Firenze. Il professore Starni, il famoso naturalista. Il commendatore Gerra, l'autore del famoso quadro: «La battaglia di Hastings e il rinvenimento del cadavere del re Aroldo.» Poi il principe di Cannera, lo straricco siciliano, sì modesto, sì benefico, e la cui colossale filantropia è più che sufficiente a fargli perdonare i suoi versi, mentre la sua prosa storica si difende da sola più che onorevolmente. Il conte Guaralli, quel bel vecchio poeta dalle ispirazioni sì caste. E quel tipo sì strano, sì nordico ed orientalista, Maurizio Parri.

Questi erano gli ospiti preferiti della Contessa, pei suoi delicati pranzetti del martedì. Ma ne aveva un altro piccolo crocchio, una specie di drappello di riserva, tutto dello stesso calibro, gente che pizzicava di lettere o notevole per qualche altro merito proprio. Dell'umanità, ella amava le api, non le vespe, e stava a disagio fra le persone frivole.

Dopo il pranzo, nell'appartamento di gala, tutto illuminato, cominciava verso le dieci a capitare una brigatella composta d'una ventina a una trentina di amici e di amiche. Si faceva musica e molto buona, di genere sempre serio, e non di raro classica. L'ambiente stesso di quella conversazione, non mai prolungata oltre il tocco, era piuttosto grave. Non si faceva che il minimum possibile della maldicenza, spesso vi si incontrava qualche autentica celebrità forestiera d'arte, di lettere. Erano assai ricercati gli inviti, che la contessa Elisa distribuiva molto parcamente.

Quando non esciva la sera, il che le accadeva di frequente, gli amici più stretti erano benvenuti nel suo salottino intimo, quello dove soleva stare anche quando era sola. Un amore di nicchietta quel luogo, tutto piante esotiche, palme, fiori, ninnoli, ricordi di viaggi. In alto, sulle due pareti opposte, sul damasco pallido a mazzettini di fiori dalle tinte sbiadite, campeggiavano due splendidi ritratti: la testa profonda, geniale del padre di Elisa, e la fisonomia patita, un po' insignificante di suo marito.

Colà venne a dirle addio, una sera, Don Marcello Plana. Partiva il domani per Milano.

Qualcuno era testè escito dal salotto. La Contessa e Don Marcello, soli ormai, parlavano di quel «qualcuno». Don Marcello le chiedeva, sorridendo, che impressione le avesse fatto Roberto Rescuati: quel suo figliuolo.

Accentuava, con una intonazione alquanto ironica, questa parola, godendo visibilmente del lieve imbarazzo che si dipingeva sul volto di lei e ch'ella tentò celare, spostando la domanda: — Piuttosto, che ne pare a voi?...

Ma egli insistè:

— Chiedo scusa, è la vostra opinione che occorre anzitutto. Suvvia, compromettetevi.

Ella esitò un istante.

— Non saprei — disse poscia. — Mi pare un giovane... come tutti gli altri.

— Saggia risposta, degna di una sibilla indulgente. Ora vi darò la mia. Quel giovane è bello, più bello degli altri!

— Trovate?... — chiese Elisa con sincera meraviglia.

— Trovo. Ha bellissimo fattezze, un corpo da Antinoo. Appartiene ad una razza forte, non degenere fisicamente.

Ella pensò un momento; poi disse: — Sì, è vero. Le fattezze sono regolari. Ma non mi sembra che la fisonomia esprima molto. Non è certo quello che si chiama una figura interessante.

— No, per ora e nel vostro senso. Voi siete soprattutto, troppo forse, abituata ad apprezzare, nella fisonomia d'un uomo, solo ciò che vi è di intellettuale. Vi siete fatta una strana idea della bellezza. Siete troppo esclusiva in favore di un dato sistema delle sue manifestazioni. Permettete ch'io vi ripeta che il vostro figliuolo è bello, e che voi non lo sapete e, ciò ch'è più grave, che per ora non lo sa neppur lui.

— Ebbene tanto meglio! non sarà uno dei soliti Narcisi, ed io potrò più facilmente adempiere la mia missione.

Sulla nobile fisonomia di Don Marcello passò un'espressione rapida e bizzarra; un baleno, quasi tenero, di pietà.

— Sì — disse lentamente — vi credo.

Ella si mise a ridere: — Come siete grave!...

Subito si fece grave ella stessa. — Povera Tecla! — disse con un sospiro.

Egli ebbe una smorfia curiosa. — Uhm. L'amate molto, nevvero?

— Oh tanto! È così cara, così infelice! E voi pure, se la conosceste, ne sareste entusiasta!

— Perdonate, non ho l'entusiasmo facile. Mi pare che quella donna deva essere un po'... come dire?... avventata nelle sue imprese. Se foste a tempo, vi darei un consiglio. Anzi ve lo do, per ogni buon caso. Non accettate la missione che la vostra amica crede bene di affidarvi.

Elisa lo guardò bene in viso per vedere se scherzava. Poi disse semplicemente, con schietta meraviglia:

— Perchè?

Don Marcello sorrise. Un sorriso tutto suo, che impartiva un piccolo moto sarcastico ai lunghi mustacchi bianchi onde aveva sì forte rilievo la sua fine ed ancor giovane fisonomia di gentiluomo. Elisa lo guardava attentamente, nell'attesa di una spiegazione, che non venne.

— Perchè? — disse ancora serenamente. — Cosa sarebbe l'amicizia se non desse dei diritti e dei doveri? Tecla non mi dà forse la più alta prova di fiducia e d'affetto, credendomi degna di giovare a suo figlio?

Egli sorrise ancora, a modo suo.

— Oh... non abbiate paura. Ne siete degna e gli gioverete. Spero che avrete sufficiente influenza sull'animo suo per indurlo a mutar sarto, per esempio...

— Oh, si veste orribilmente, è vero. Ero sulle spine, martedì sera. Avete veduto come sogghignavano quei giovani? Che volete! È triste a dirsi, ma scommetto che è il portiere del suo palazzo che lo ha vestito sino ad oggi.

— Suvvia, coraggio. Non vi sgomentate così. Imparerà. Vi pare abbastanza intelligente per ciò e per il resto?

— Oh Dio! A dir vero, non so... Pare che per lo studio non abbia mai avuto trasporto. Martedì, a pranzo, l'avevo messo tra il comm. Gerra e il principe di Cannera. Ho una gran paura che si sia annoiato. Certo non aveva l'aria di divertirsi. E quei due avevano fatto l'impossibile, glielo avevo tanto raccomandato! E alla sera, mentre si eseguiva il terzetto di Grieg... sapete, quella sublime cosa, in fa minore. Ebbene, lo credereste? lui, quel mio figliuolo, l'ho visto sbadigliare più volte dietro il gibus, e finalmente lemme lemme, nel più bel punto della suonata, si è rifugiato nel fumoir.

— Orribile, infatti. Dunque per voi è stata una delusione?

— Non potrei dire, coscienziosamente. Ero prevenuta. Ma lo speravo... che so io?... più fine, meno terra terra; speravo che somigliasse un pochino di più a sua madre.

Egli fece un comico gesto di rammarico.

— Anch'io vorrei che somigliasse assai più a sua madre... anche fisicamente... guardate.

— Ah!... Ma se lo trovavate tanto bello poco fa?

— Perdonate, lo trovo bello tuttora. Lasciate che si liberi dai suoi fracs esotici e che pigli un po' d'aria fiorentina. Sarà bello anche troppo, e se ne accorgeranno abbastanza e avrete del filo da torcere finchè vorrete, mia cara amica.

Ella sorrise, colla sua dolcezza tanto pura e geniale.

— Me lo immagino. Ma non si è mica mamme per nulla, nevvero?

— No — rispose don Marcello — voi non sarete mamma per nulla, nè a mezzo. Questo è ciò che più mi irrita. Vedo il vostro programma, è bello, sublime, ma...

— Avanti — diss'ella ridendo, vedendo che l'amico s'interrompeva.

Egli scosse il capo e aggrottò alquanto le ciglia.

— No, non ve lo dico, cos'è. Non potreste credermi e non sapreste mutarlo. Tutto sta, d'altronde, nel risultato finale. Può darsi che la vostra imperdonabile audacia faccia capo ad un esito fortunato, per qualcuno almeno e per qualche tempo. Non parlo che per un'induzione tutta mia, e non ho neppure il diritto di spiegarvi più esplicitamente il mio pensiero o la mia ubbia, come credete. Un avvertimento preciso potrebbe parere una nota falsa e lasciar poscia un'eco stuonata. Ora bisogna che vada. Mi scriverete di tutto ciò?

— Ben inteso. Vi dirò dei nostri progressi, dei miei progetti... Sapete... il marito di Marina! Il coronamento dell'edificio!

— Ah! — diss'egli vivacemente: — Ma certo; avete da farvi perdonare il fiasco di quindici giorni or sono. Do la mia speciale approvazione a questo progetto. Fate, per amor del cielo, ch'egli sposi al più presto la vostra bellissima, ammirabile amica.

— Oh! — disse Elisa ridendo — vi ci ho colto. L'ammirate ora, vi siete convertito, eh? vi ha conquistato?

Don Marcello Plana ebbe un energico moto di protesta, ma subito chinò il capo come assentendo.

— Certo — disse — da qualche tempo, o, per essere più esatto, da qualche mezz'ora, è successa in me una reazione. Ma la mia conquista assoluta donna Marina Negroni la farà solo il giorno in cui vi libererà dalle vostre materne incombenze. E spero che sarà il più presto possibile.

— Oh! — diss'ella — come correte! il matrimonio immediato non entra nel mio programma. Vorrei aver prima il tempo di fare un po' di bene a quel giovane.

— Veramente? E quale?

— Vorrei destare in lui un senso della responsabilità che gli danno il suo nome e la sua fortuna. Non avrà grande ingegno, ma un pochino, del suo ozio, ci hanno colpa l'affetto troppo esclusivo della madre ed altre circostanze. Mi pare impossibile che un po' di aiuto, d'indirizzo, di buona influenza non abbiano a convincerlo, ch'egli non avverta un momento o l'altro l'assoluta necessità di affermare in qualche modo la sua personalità, che egli non provi il bisogno di rendersi utile al suo paese e a sè stesso, più degno di considerazione e di stima.

S'era animata, così parlando. La sincerità e il convincimento delle sue parole agivano su lei stessa, creandole in cuore un'emozione.

— Vi pare, credete che ci riescirò? — soggiunse, vedendo che l'amico la fissava arricciando nervosamente i lunghi baffi. — E non vi sembra che, ad ogni modo, valga la pena di tentare, per la mia povera Tecla, se non altro?

— Dio la benedica, la povera Tecla, — rispose un po' bruscamente don Marcello. — Credo che riuscirete, se ho a dirvelo, e forse al di là di quanto sperate.

— Dunque tutto è per il meglio, nevvero?

— Già, tutto per il meglio. Ora, se permettete, mi congederò da voi. Mi spiace quasi di partire domani, sapete? Avrei assistito volentieri allo svolgimento di quest'azione, diremo così, educativa.

— Allora, quando è così, restate. Mi darete dei buoni consigli.

— Perdonate. Non li prodigo, quando non sono accetti. Ve ne ho dato uno più volte... No, no, non fate la faccia seria, non insisto. Quello di oggi non l'avete ascoltato, forse non l'avete neppur guardato in faccia abbastanza per ravvisarlo. Ma ora è tardi, e voi dovete andare dalla signora Peruzzi, che vi deve presentare Gregorovius, non è vero?

Essa lo lasciava dire, dubbiosa. Cercava di afferrare, attraverso la velatura del sorriso ironico, il pensiero ch'egli si ostinava a celarle.

Sentì di esser meno forte di lui e rinunziò a penetrare quel segreto.

Finalmente, egli si alzò per partire. Ma prima le ripetè una raccomandazione, quella di scrivergli. Ancora ella promise.

— Tutto? — chiese quell'incredulo ostinato.

— Tutto.

— Anche le disillusioni possibili?

— Anche quelle.

— Sta bene. E mandatemi al più presto la notizia del matrimonio di donna Marina col vostro figliuolo.

— Lo spero... con tutto il cuore.

Dopo di che, don Marcello Plana le baciò la mano, come soleva, e se ne andò.

L'ultima primavera

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