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CAPITOLO XXI

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CHE TRATTA DELLA ECCELSA AVVENTURA E DELLA PREZIOSA CONQUISTA DELL'ELMO DI MAMBRINO, NONCHÉ DI ALTRE COSE SUCCESSE AL NOSTRO INVINCIBILE CAVALIERE

Frattanto cominciò a piovigginare. Sancio avrebbe voluto entrare nel mulino delle gualchiere, ma don Chisciotte lo aveva tanto in odio, per quel tale tiro birbone, che assolutamente non volle saperne; e così piegando a destra, si ritrovarono sopra una strada che era altra da quella presa il giorno avanti. Di lì a poco don Chisciotte scorse un uomo a cavallo, il quale aveva in capo qualcosa che luccicava come fosse d'oro; né l'ebbe visto ancora ben bene che si volse a Sancio e gli disse:

— Mi pare, Sancio, che non ci sia proverbio che non dica il vero, giacché son tutte sentenze ricavate appunto dalla esperienza, madre d'ogni scienza; specialmente quello che dice: «Dove si chiude una porta, un'altra se n'apre». Dico questo perché se ieri sera la fortuna ci chiuse la porta, di cui andavamo in cerca, ingannandoci con le gualchiere, ora ce ne spalanca un'altra per altra migliore e più sicura avventura: che se io non riuscirò a passarvi, mia sarà la colpa e non potrò già darla al fatto di poco saper di gualchiere, né al buio della notte. Dico così perché, se non m'inganno, s'avanza verso noi un tale che ha in testa l'elmo di Mambrino, circa il quale io feci il giuramento che sai.

— Stia attento vossignoria a ciò che dice, e anche più a ciò che fa — disse Sancio; — perché non vorrei che fossero altre gualchiere le quali finissero di gualchierarci e gramolarci l'ossa.

— Che il diavolo ti porti! — replicò don Chisciotte, — non ci corre nulla da elmo a gualchiera!

— Non so nulla — rispose Sancio; — ma, in parola mia, se potessi parlare quanto solevo prima, forse direi tali ragioni che vossignoria vedrebbe che s'inganna in quel che dice.

— Come posso ingannarmi in quel che dico, maledetto te co' tuoi dubbi? — disse don Chisciotte. — Di', non vedi quel cavaliere che viene verso di noi, sopra un cavallo grigio pomellato, che ha in capo un elmo d'oro?

— Quel che vedo e scorgo — rispose Sancio — non è altro che un uomo sopra un asino, bigio come il mio, che ha in capo una cosa che risplende.

— E quello è l'elmo di Mambrino — disse don Chisciotte. — Fatti da una parte e lasciami a solo con lui; tu vedrai come senza neppure una parola, per risparmio di tempo, sbrigo quest'avventura, e come l'elmo che tanto ho desiderato resta a me.

— È pensiero mio farmi da parte — replicò Sancio; — ma Dio voglia, torno a dire, che sian rose e non gualchiere131.

— V'ho già detto, fratello, di non rammentarmi più neanche per idea, questa storia delle gualchiere — disse don Chisciotte; — che giuro... ma non aggiungo altro, che te le dò io le gualchiere!

Sancio tacque temendo che il padrone chi sa non mantenesse il giuramento che gli aveva fatto chiaro e tondo, come una palla.

Ora il fatto si è che l'elmo, il cavallo e il cavaliere che don Chisciotte vedeva non era se non questo: che in quei dintorni c'erano due borghi, l'uno tanto piccolo che non aveva né farmacia né barbiere, l'altro invece, lì vicino, sì; così che il barbiere del borgo più grande prestava i suoi servigi anche al borgo più piccolo, dove un malato aveva avuto bisogno di un salasso, e un altro di farsi rader la barba; al qual fine or veniva il barbiere portando seco una catinella di rame. Volle pertanto il caso che mentre era in cammino, cominciasse a piovere, ed egli perché non gli si sciupasse il cappello, che doveva esser nuovo, si era messo sulla testa la catinella, la quale, tersa com'era, lustrava di lontano mezza lega. Cavalcava il barbiere un asino cenerino, al dire di Sancio, e questo fu motivo per cui don Chisciotte credette vedere e un cavallo grigio pomellato e un cavaliere e un elmo d'oro, poichè quanto vedeva, tutto molto facilmente adattava alla sua pazzesca cavalleria e alle sue idee guaste. Or quando vi che il pover'uomo a cavallo si avvicinava, senza mettersi con lui in discorsi, al gran galoppo di Ronzinante gli volse contro la picca in resta e bassa, con l'intenzione di passarlo da parte a parte; ma quando gli fu vicino, senza rattenere l'impeto della corsa, gli disse:

— Difenditi, spregevole creatura, o consegnami di tua volontà ciò che di pieno dritto mi è dovuto.

Il barbiere che, ben lontano dal pensare e dal temere tal cosa, vide venirsegli addosso quello spettro, non ebbe altro riparo per poter evitare il colpo di lancia, se non lasciarsi cascar giù dall'asino; né ebbe toccato appena terra che si rialzò più veloce d'un daino e se la diede a gambe levate attraverso quella pianura che non l'avrebbe ripreso il vento. La catinella rimase a terra e ne fu ben contento don Chisciotte, il quale disse che il pagano si era condotto assennatamente ed aveva imitato il castoro che, al vedersi inseguito dai cacciatori, si morsica e strappa con i denti quello per cui sa, per naturale istinto, di essere perseguitato132. Ordinò a Sancio di raccattare l'elmo; il quale, prendendolo fra le mani, disse:

— Per Dio, che è una bella catinella; e così vale un reale da otto come un maravedi133.

E consegnandola al padrone, questi se la mise subito in capo, rigirandosela da una parte e dall'altra per cercare dov'era incastrata la visiera; ma poiché non la trovava, disse:

— Senza dubbio il pagano, a cui misura fu dapprima foggiata questa famosa celata, doveva avere un gran testone; ma il peggio è che le manca la metà.

Sancio, sentendo chiamar celata la catinella, non poté tenersi dal ridere; rammentandosi però la rabbia del padrone, si represse a mezzo.

— Di cosa ridi, Sancio? — disse don Chisciotte.

— Rido — rispose egli — pensando al testone che doveva avere il pagano possessore di quest'elmo, che altro non sembra se non una catinella da barbiere, tale e quale.

— Sai cosa penso, Sancio? Che questo celebre prezioso oggetto, quale è quest'elmo incantato, per qualche strano caso dovette venire alle mani di qualcuno che non seppe conoscerne né apprezzarne il valore, e che, senza sapere cosa faceva, poi che vide essere del più puro oro, forse ebbe a fondere l'altra metà per cavarne denaro, mentre dell'altra metà fece questa che pare catinella da barbiere, come tu dici. Sia però quel che sia; a me che riconosco la celata non importa questa trasformazione. Nel primo borgo dove ci sia un fabbro io la risistemerò in modo che non la sorpassi e neanche le si approssimi quella che fece e foggiò il dio delle fucine per il dio delle battaglie, e frattanto la porterò come potrò; meglio poco che nulla; per lo meno mi basterà per ripararmi da qualche sassata

— Sì — disse Sancio — purché non scagliata con la fionda, come fu al combattimento con i due eserciti, quando la sganasciarono e le spaccarono l'utello dove era quel carissimo beveraggio che mi fece vomitare le budella.

— Non mi duole molto l'averlo perduto, poiché tu sai bene, Sancio — disse don Chisciotte, — che ne ricordo la ricetta.

— La ricordo anch'io — rispose Sancio; — ma se avessi mai più a farla o ad assaggiarla in vita mia, possa qui cascar morto. D'altronde, non penso punto di mettermi nel caso di averne bisogno, perché intendo invece di stare quanto mai accorto a non esser ferito né a ferire alcuno. Riguardo all'essere abballottato un'altra volta non dico nulla, ché disgrazie consimili mal si possono prevenire, e se vengono non c'è da far altro se non prenderla con rassegnazione, trattenere il respiro, chiuder gli occhi e lasciarsi andare per dove la fortuna e la coperta ci balestri.

— Non sei buon cristiano, Sancio — disse, ciò sentendo, don Chisciotte, — perché l'offesa che una volta ti è stata fatta, non la dimentichi mai più: or sappi invece che è proprio di cuori nobili e generosi non far caso di bagattelle. Quale piede ne avesti azzoppito, qual costola rotta, quale testa spaccata per non più dimenticarti di quella burletta? Perché, tutto ben considerato, di burletta si trattò e di spasso. S'io non l'avessi intesa così, sarei già tornato là e avrei, per vendicarti, fatto più male di quello che fecero i greci per il ratto di Elena. La quale se vivesse oggi, o la mia Dulcinea fosse vissuta allora, poteva esser sicura che non avrebbe avuto tanta fama di bella quanta ne ha.

E qui trasse un sospiro che mandò su fino al cielo. Or disse Sancio:

— Passi per cosa da burla, dacché non ci se ne può vendicare sul serio; ma io so di che genere sono state le cose serie e quelle da burla, e so anche che non mi passeranno mai di mente, come non mi si toglieranno mai di sulle spalle. Ma lasciando questo da parte, mi dica vossignoria cosa dovremo fare di questo cavallo grigio pomellato, che sembra un asino bigio, qui abbandonato da quel tale Martino che vossignoria ha atterrato. Da come ha battuto il tacco e se l'è svignata134, non pare ci sia pericolo che torni mai più a riprenderlo. Per la mia barba intanto, se non è bello quest'asin bigio!

— Non è mai mio costume — disse don Chisciotte — di spogliare quelli che io vinco, né è degli usi cavallereschi toglier loro i cavalli e lasciarli a piedi, se pur non fosse che il vincitore avesse perduto il suo nel combattimento: ché, in tal caso, è lecito prendere quello del vinto, per essere stato guadagnato in guerra lecita. Perciò, Sancio, lascia stare questo cavallo o asino o quel che tu voglia che sia, che il suo padrone, appena ci vedrà dilungati di qui, tornerà a prenderlo.

— Dio sa la voglia che avrei di portarmelo — replicò Sancio, — ovvero, per lo meno, di cambiarlo con questo mio che non mi sembra altrettanto buono. Davvero rigorose sono le leggi cavalleresche, dacché non consentono che si possa cambiare un asino con un altro: ma vorrei sapere se almeno la bardatura si potrebbe cambiare.

— Di questo non sono gran cosa sicuro — rispose don Chisciotte; — e, nel dubbio, fino a informarmi meglio, cambiala pure, se proprio ne hai assoluta necessità.

— Tanto assoluta — rispose Sancio — che più non ne avrei se avessi a mettermela addosso io stesso.

Autorizzato pertanto da quel permesso, fece subito la mutatio capparum135, e mise il suo asino tutto ben in ordine, che diventò di tanto più avvantaggiato136. Ciò fatto, fecero colazione con gli avanzi delle vettovaglie dell'accampamento, delle quali avevano spogliato la mula, e bevvero dell'acqua del ruscello delle gualchiere senza pur voltarsi a guardarle, da tanto che le aborrivano a causa della paura che loro avevano incusso.

Rifocillato, dunque, lo stomaco e anche cacciata la melanconia, salirono a cavallo, e senza prendere una determinata via, perché proprio da cavalieri erranti era il non prefiggersene nessuna di certa, si misero ad andare per dove li portava la volontà di Ronzinante, che si traeva dietro quella del suo padrone, nonché quella dell'asino, il quale lo seguiva sempre per dovunque facesse da guida, d'amore e d'accordo. Ciò nondimeno, si ritrovarono sulla strada maestra, e per essa continuarono, alla ventura, senza avere alcun altro disegno in mente.

Così, dunque, strada facendo, disse Sancio al padrone:

— Signore, vuole vossignoria permettermi di discorrere un po' con lei? Perché da quando m'impose quel duro comando del silenzio, mi son rimaste sullo stomaco a marcire tre o quattro cose, e ora ne ho una, una sola sulla punta della lingua che non vorrei andasse a male.

— Dilla — disse don Chisciotte — e sii breve nei tuoi discorsi, perché nessuno ve n'ha di piacevole, se lungo.

— Dico, dunque, signore, — rispose Sancio, — che da alcuni giorni a questa parte io ho considerato quanto poco ci si guadagna e raccoglie dall'andar cercando queste avventure di cui vossignoria va in cerca per questi luoghi deserti e incroci di strade, dove, anche a condurre vittoriosamente a termine le più rischiose, non c'è chi le veda e le sappia; così che debbono restare in perpetuo silenzio, e ciò con danno dello scopo di vossignoria e del merito che hanno in sé. Or dunque mi pare che sarebbe meglio (salvo il parere migliore di vossignoria) che ce n'andassimo a servire qualche imperatore o qualche altro gran principe, che sia in guerra, nel servigio del quale vossignoria possa mostrare il valore della sua persona, la sua gran possanza e senno anche più grande. E una volta che ciò abbia veduto il signore a cui per avventura s'abbia a servire per forza ci deve ricompensare, ciascuno secondo i propri meriti; e là poi non mancherà chi metta per iscritto le imprese di vossignoria, a perpetua memoria. Delle mie non dico nulla, dal momento che non debbono uscire dai limiti scudiereschi, sebbene io so dire che se si usa in cavalleria scrivere d'imprese di scudieri, non credo che le mie abbiano a rimanere fra le linee.

— Non dici male, Sancio — rispose don Chisciotte; — ma prima che si venga a questo, bisogna andare errando per il mondo, quasi in prova, cercando le avventure affinché, compiutene alcune, si possa riscuotere rinomanza e fama tale che quando il cavaliere si rechi alla corte di alcun gran monarca sia già conosciuto per le sue azioni, sì che appena i ragazzi lo abbiano veduto entrare per la porta della città, tutti lo seguano e lo attornino, gridando, dicendo: «Questo è il cavaliere del Sole», o della Serpe o di qualche altra insegna, sotto la quale abbia compiuto grandi imprese. «Questo», diranno, «è colui che vinse in singolar battaglia il gigante Brocabruno, dalla smisurata forza; colui che disincantò il gran Mammalucco di Persia dal lungo incantamento in cui era stato per quasi novecento anni». E così, di mano in mano, andranno bandendo i suoi fatti; e subito, al chiasso dei ragazzi e dell'altra gente, si farà alle finestre del suo reale palazzo il re di quel reame, e come avrà veduto il cavaliere, riconoscendolo all'armatura e all'impresa figurata nello scudo, per forza deve dire: «Orsù, i miei cavalieri, quanti sono in mia corte, escano incontro al fior della cavalleria che là avanza!». Al suo comando tutti usciranno, ed il re giungerà fino a metà della scalinata e lo abbraccerà stretto stretto, e gli darà la pace, baciandolo sulle gote; poi subito lo condurrà per mano al seggio della signora Regina, dove il cavaliere la troverà in compagnia della Principessa sua figlia, la quale ha da essere una delle più belle e compiute donzelle che per tanta parte del mondo conosciuto a mala pena sia possibile trovare. Dopo di questo, incontanente avverrà che ella figga gli occhi nel cavaliere e questi in quelli di lei e che l'uno sembri all'altro cosa più divina che umana e che, senza saper né come né perché, abbiano da rimaner presi e impigliati nella inestricabile rete amorosa, con grande affanno dei loro cuori per non sapere come potersi parlare a fine di svelare le loro ansie e i loro sentimenti. Di lì il cavaliere sarà condotto, senza dubbio, in qualche camera del palagio, riccamente addobbata, dove, dislacciatolo dell'armatura, gli sarà portato un ricco mantello di scarlatto di cui possa rivestirsi: che se stava bene nell'armatura, bene del pari e anche di più ha da stare in farsetto. Venuta la sera, egli col Re, la Regina e la Principessa sederà a cena, dove non distoglierà mai gli occhi da lei; e farà lei lo stesso, con la stessa accortezza, poiché, come ho detto, è molto assennata donzella. Tolte le mense, per la porta della sala entrerà inaspettatamente un brutto e piccolo nano e dietro a lui una bella dama fra due giganti, a proporre certa avventura, immaginata da un antichissimo sapiente, che chi la condurrà a termine sarà ritenuto il miglior cavaliere del mondo.

Il Re comanderà subito che vi si cimentino tutti i presenti, ma nessuno vi saprà dare fine e compimento, se non il cavaliere suo ospite, con grande vantaggio della sua fama; del che rimarrà lietissima la Principessa che si riterrà soddisfatta e ad usura ripagata dell'aver messo e collocato i suoi pensieri in così alto luogo. Or il bello si è che questo re o principe o quel che sia, è in molto aspra guerra con altro potente quanto lui; ed ecco che il cavaliere suo ospite gli chiede, dopo alcuni giorni di permanenza in sua corte, licenza per andare a servirlo in quella guerra che ho detto. Il re, di molto buon grado, gliela darà, e il cavaliere gli bacerà cortesemente le mani per il favore che gli fa, e quella notte si accomiaterà dalla sua dama la Principessa, dalle inferriate di un giardino, sul quale dà la stanza dove ella dorme, attraverso le quali già molte altre volte le aveva favellato, essendo d'intesa e di tutto consapevole una damigella in cui la Principessa pienamente fidava. Sospirerà egli, svenirà lei, acqua appresterà la damigella, e molto si affliggerà il cavaliere del sopraggiungere del giorno e non vorrebbe che fossero scoperti, per l'onore della sua signora. Finalmente la Principessa tornerà in sé e attraverso l'inferriata porgerà le bianche mani al cavaliere che gliele bacerà mille e mille volte e gliele bagnerà di lacrime. Rimarrà concertato fra i due il mezzo con cui si comunicheranno le loro buone o cattive sorti, e la Principessa lo pregherà di tardare il meno che potrà. Dovrà egli prometterglielo con molti giuramenti; ecco le bacia una volta ancora le mani e si congeda con tanta pena da mancar poco che non ne muoia. Di lì si ritira nella sua camera, si getta sul letto, non può prender sonno dal dolore del distacco, si alza di buon mattino e va a congedarsi dal Re, dalla Regina e dalla Principessa. Gli dicono, dopo essersi licenziato da ambedue i reali, che la signora Principessa non si sente bene e che non può ricevere alcuna visita; pensa il cavaliere che ciò è per la pena della sua dipartita, si sente trapassare il cuore, e poco manca che non dia a divedere chiaro il suo cordoglio. La damigella mezzana d'amore gli sta dinanzi, tutto noterà e tutto va a riferire alla sua padrona, la quale l'ascolta piangendo e le dice che una delle sue maggiori afflizioni è il non sapere chi sia il suo cavaliere, se è o no di reale lignaggio. Le assicura la damigella che tanta cortesia, nobiltà e prodezza quanta è quella del suo cavaliere, non può trovarsi se non in persona regale e di alto grado. A questo si conforta l'afflitta: e si studia di rasserenarsi per non suscitare sospetto di sé nei suoi genitori e due giorni dopo esce in pubblico. Se n'è ormai andato il cavaliere; combatte nella guerra, vince il nemico del re, conquista molte città, trionfa di molti eserciti, fa ritorno alla corte, si rivede con la sua dama negli usati convegni, concertano ch'egli la chieda in moglie al padre in compenso dei suoi servigi, ma non vuole concedergliela il re perché non sa chi egli sia; ciò nonostante però, o rapita o in qualsiasi altro modo, la Principessa finisce con l'esser sua sposa e il padre con ritener la cosa a gran fortuna, perché si venie ad accertare che quel cavaliere era figlio d'un valoroso di non so quale regno, poiché credo che non debba esserci nella carta geografica. Il padre viene a morte, eredita il regno la Principessa e, in una parola, il cavaliere diviene re. Ed ecco ora il momento di distribuire favori allo scudiero e a quanti gli furono d'aiuto per salir così in alto: ammoglia il suo scudiero con una damigella della Principessa, la quale sarà, senza dubbio, colei che fu mezzana dei suoi amori, figlia di un duca della maggior considerazione.

— Non domando che questo; e niente inganni137! — disse Sancio: — questo mi aspetto, perché tutto ciò, alla lettera, deve accadere a vossignoria sotto il titolo di Cavaliere dalla Triste Figura.

— Non dubitare Sancio — replicò don Chisciotte, — Perché appunto nella maniera e per le stesse vie che or t'ho raccontato ascendono e ascenderanno i cavalieri erranti al grado di re e d'imperatori. Adesso manca soltanto di vedere un po' quale re della Cristianità o della Pagania sia in guerra ed abbia bella figlia; ma ci sarà tempo di pensare a questo, dacché come t'ho detto, si deve, prima che si giunga alla corte, acquistare fama in altri luoghi. E un'altra cosa mi manca: dato il caso che si trovi un re in guerra ed abbia figlia avvenente, e che io abbia acquistato incredibile fama per tutto l'universo, non so come potrebbe trovarsi che io sia di stirpe reale, o, per lo meno, biscugino d'imperatore, perché il Re non mi vorrà dare in moglie la figlia se prima non ne è pienamente sicuro, per quanto le mie imprese gloriose possano più meritarlo; così che, per questa deficienza, temo di perdere ciò che il mio braccio ha ben meritato. Ben è vero che sono nobiluomo d'antica ben nota casata, possidente e proprietario, con diritto alla riparazione di 500 soldi per offese138, e potrebb'essere che il sapiente il quale scrivesse la mia storia disbrogliasse per modo la mia parentela e discendenza che venissi a essere quinto o sesto pronipote di un re. Perché ti faccio sapere, Sancio che ci sono due maniere di lignaggi nel mondo: gli uni che traggono e derivano la discendenza da principi e monarchi, che il tempo a poco a poco ha disfatto e sono finiti in punta come piramide capovolta; gli altri ebbero origine da gente bassa e vanno salendo a grado a grado, fino ad arrivare a essere gran signori; dimodoché la differenza consiste nel fatto che gli uni esistettero e più non esistono, gli altri esistono che prima non esistettero, Ed io potrei essere uno di costoro, che, fatte le debite ricerche, avessi avuto un'origine alta e celebre, di cui il re, il quale avesse ad essere mio suocero, dovesse contentarsi; e se no, la Principessa mi deve amare in tal modo che, a dispetto di suo padre, anche sapesse chiaramente che son figlio d'un acquaiolo, mi prenderà per suo signore e sposo; altrimenti, ecco che cade a proposito il rapirla e portarla dove più mi piacesse; ché poi il tempo o la morte porrà fine all'ira dei suoi genitori.

— E anche cade bene a proposito costì — disse Sancio — quello che dicono certi maligni: «Non domandare per favore ciò che puoi prendere per forza»; sebbene, faccia più al caso dire: È meglio esser uccel di bosco che di gabbia139. Dico questo perché se il signor re, suocero di vossignoria, non si vuole piegare a concederle la mia signora Principessa, non rimane altro, come vossignoria dice, se non rapirla e portarsela via. Il male si è che finché non si faccia la pace e si goda del regno tranquillamente, il povero scudiero, riguardo agli attesi benefici, potrà restare a denti asciutti, se pure la damigella mediatrice, che ha da essere mia moglie, non se ne va con la Principessa ed egli condivida con lei la sua mala sorte finché il cielo non disponga diversamente, giacché io credo che il suo padrone ben potrà dargliela subito in legittima moglie.

— Questo non c'è chi possa impedirlo — disse don Chisciotte.

— Dal momento che così è — rispose Sancio, — non c'è che da raccomandarsi a Dio e lasciare che la fortuna vada per dove meglio abbia ad avviare la faccenda.

— Dio lo faccia — rispose don Chisciotte — come io desidero e come a te, Sancio, bisogna, e un dappoco sia chi dappoco si ritiene.

— Lo sia pure, in nome di Dio — disse Sancio; — io son cristiano di antica data; il che mi basta per poter essere conte.

— E te n'avanza anche — disse don Chisciotte, — e quando non lo fossi, non vorrebbe dir nulla; perché, con l'essere io il re, ben posso conferirti nobiltà, senza che tu la compri e senza che tu mi renda servigio di nulla. Una volta fattoti conte, eccoti che sei gentiluomo, e dicano quel che vorran dire, ché in fede mia ti dovran dare di «Signoria», sia pure a mal in corpo.

— E va' là che non avrei a saper fare onore al tittolo! — disse Sancio.

— Titolo, devi dire e non tittolo — disse il padrone.

— Sia pur così — rispose Sancio Panza. — Dico che saprei ben adattarmelo, perché ci fu un tempo nella mia vita che fui donzello di una confraternita, e mi stava così bene la palandrana di donzello che tutti dicevano che dall'aspetto mi si poteva prendere per camarlengo di quella stessa confraternita. Ora, cosa sarà quando indosserò un bel robone ducale, o mi vestirò d'oro e di perle alla foggia di conte straniero? Per me ritengo che dovranno venire a vedermi di cento miglia lontano.

— Starai bene — disse don Chisciotte, — ma bisognerà che ti rada spesso la barba, perché, da come l'hai folta, irsuta e arruffata, se non te la radi col rasoio per lo meno ogni due giorni, si conoscerà di lontano un miglio quello che tu sei.

— Che altro ci vuole — disse Sancio — se non prendere un barbiere e tenerselo in casa a stipendio? E se mai occorresse, me lo farò anche venir dietro come cavallerizzo di gran signore.

— Ma come sai tu — domandò don Chisciotte — che i gran signori si conducono dietro i loro cavallerizzi?

— Glielo dirò io — rispose Sancio. — Anni fa stetti un mese in città, che c'era la Corte, e là, quando andava a passeggio certo signore molto basso di statura, ma che si diceva essere un molto alto personaggio140, vidi che lo seguiva a cavallo in tutti i giri che faceva, un uomo che sembrava non altro che la sua coda. Domandai come mai questo tale non andava a pari con l'altro, ma sempre dietro a lui. Mi risposero che era il suo cavallerizzo e che era uso dei gran signori portarseli dietro. Da allora in poi lo so tanto bene che non me ne sono mai dimenticato.

— Hai ragione — disse don Chisciotte, — e allo stesso modo tu puoi portare il tuo barbiere; poiché le usanze non furono già create tutte insieme né furono inventate tutte in una volta, e quindi tu puoi essere il primo conte che si conduca dietro il barbiere; che, del resto, è ufficio di maggior fiducia quello di far la barba che di sellare un cavallo.

— Questa del barbiere sarà pensier mio — disse Sancio; — di vossignoria sia quello di fare in modo di diventare re e di farmi conte.

— Così sarà — rispose don Chisciotte.

E alzando gli occhi, vide quel che si dirà nel capitolo seguente.

Don Chisciotte della Mancia

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