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CAPITOLO XXII

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DELLA LIBERTÀ CHE DETTE DON CHISCIOTTE A MOLTI SVENTURATI CHE, LORO MALGRADO, ERANO CONDOTTI DOVE NON AVREBBERO VOLUTO ANDARE

Racconta Cide Hamete Benengeli, scrittore arabo nativo della Mancia, in questa quanto mai grave, magniloquente, particolareggiata, piacevole e ben pensata storia, che dopo che fra il famoso don Chisciotte della Mancia e Sancio Panza, suo scudiero, avvennero quei discorsi che son riferiti sulla fine del capitolo XXI, don Chisciotte alzò gli occhi e vide che su per la strada ch'ei seguiva, venivano un dodici individui a piedi, legati in fila per il collo, come chicchi di rosario, in una grossa catena di ferro, e tutti ammanettati. Erano insieme con loro anche due uomini a cavallo e due a piedi; quelli a cavallo, armati di archibugi a ruota; quelli a piedi, di frecce e spade. Non appena Sancio Panza li vide, disse:

— Questa è una fila di galeotti, di forzati, che il re manda alle galere.

— Come forzati? — domandò don Chisciotte. — È possibile che il re usi forza ad alcuno?

— Non dico questo — rispose Sancio, — bensì dico che è gente la quale per i delitti commessi è condannata a servire il Re nelle galere, per forza.

— Insomma — replicò don Chisciotte, — comunque sia, questa gente, ancorché condotta, va per forza e non di sua volontà.

— Appunto — disse Sancio.

— Allora se è così — disse il suo padrone — qui c'incastra bene l'esercizio della mia professione: abbattere le prepotenze, soccorrere e proteggere i miseri.

— Badi vossignoria — disse Sancio — che la Giustizia, la quale è il Re stesso, non usa prepotenza né fa offesa contro siffatta gente, ma le castiga dei suoi delitti.

Giunse vicina, frattanto, la fila dei galeotti, e don Chisciotte, con molto cortesi parole, chiese a quelli che ne erano a guardia si compiacessero d'informarlo e dirgli il motivo o i motivi per cui conducevano in tal maniera quella gente. Una delle guardie a cavallo rispose che erano galeotti, gente di Sua Maestà, che andava alle galere, che altro non aveva da dire né egli altro aveva da sapere.

— Tuttavia — replicò don Chisciotte — vorrei sapere di ciascuno di loro in particolare la causa della propria disgrazia.

Aggiunse a queste altrettali e tanto garbate parole per indurli a dirgli quel che desiderava, che l'altra guardia a cavallo gli disse:

— Sebbene qui s'abbia il registro e l'attestato delle sentenze di ciascuno di questi sventurati, non è questo però il tempo di fermarci a tirarle fuori e a leggerle: vossignoria si avvicini e lo domandi a loro stessi, che essi glielo diranno se mai vorranno; e vorranno sì, perché è gente che gli piace di fare e di dire canagliate.

Ottenuto questo permesso che don Chisciotte, del resto, si sarebbe preso anche se non glielo avessero concesso, si avvicinò alla fila dei galeotti e domandò al primo per quali colpe si ritrovava in tanto trista condizione. Gli rispose che si ritrovava così perché era innamorato.

— Per non altro che questo? — replicò don Chisciotte, — Ma allora se per essere innamorati mandano alle galere, da tempo io avrei potuto esservi a vogare.

— Non si tratta già d'amori come quelli che vossignoria pensa — disse il galeotto; — il mio fu che volli tanto bene a una paniera piena zeppa di biancheria di bucato, che me la presi fra le braccia in così ferrea stretta che se non me l'avesse levata a viva forza la Giustizia, neanche fino a questo momento l'avrei lasciata di mia volontà141. Fui colto in flagrante, non ci fu luogo a tortura, fu decisa la causa, mi affibbiarono cento staffilate sulle spalle, tre annetti giusti di «corsina» per giunta, e tutti lesti142.

— Che significa «corsina»? — domandò don Chisciotte.

— «Corsina» è la galera — rispose il galeotto, il quale era un giovane di circa ventiquattr'anni, nativo, disse, di Piedrahita. Le stesse domande fece don Chisciotte al secondo, che non rispose parola, da tanto che era triste e malinconico; ma rispose per lui quel primo, dicendo:

— Signore, questo qui è qui perché «canarino», intendo dire maestro di musica e canto.

— Ma come? — replicò don Chisciotte. — Perché maestri di musica e canto si va alle galere?

— Sissignore — rispose il galeotto; — non c'è la peggio che «cantare» nella «margherita»143.

— Anzi io ho sentito dire — disse don Chisciotte, che chi canta scaccia malinconia.

— Qui è tutto il rovescio — disse il galeotto; — perché chi canta una volta, piange tutta la vita.

— Non lo capisco — soggiunse don Chisciotte. Ma una delle guardie gli disse:

— Signor cavaliere, «cantare nella margherita» fra questa «gente non sancta» vuol dire confessare, fra i tormenti. A questo dannato gli diedero la tortura e confessò il suo delitto, quello di essere abìgeo, cioè, ladro di bestiame; e perché confessò, fu condannato a sei anni di galera, nonché a duegento staffilate che già ha riscosso sulle spalle. Ora sta sempre cogitabondo e rattristato perché gli altri ladri rimasti là in carcere e quelli che son qui lo strapazzano, lo avviliscono, lo scherniscono, lo disprezzano per aver confessato e non avere avuto il coraggio di dir no. Perché essi dicono che di tante lettere è composto un quanto un no, e che un delinquente può dirsi più che fortunato, in quanto che la sua vita o la sua morte dipende dalla lingua sua, non già da quella dei testimoni e dalle prove. E per me ritengo che non la sbaglino di molto144.

— Anch'io la penso così — rispose don Chisciotte. Il quale, passando al terzo, gli fece le stesse domande che agli altri; e questi prontamente e con tutta disinvoltura, rispose e disse:

— Io vado per cinque anni a madame le galere per essermi mancati dieci ducati.

— Io ne darei molto volentieri venti — disse don Chisciotte — per liberarvi da questa seccatura.

— Ciò mi fa l'effetto — rispose il galeotto — come di chi ha denaro stando in mezzo al mare, ma intanto muore di fame non avendo dove comprare quel che gli bisogna. Dico così, perché se a tempo debito avessi io avuto cotesti venti ducati che vossignoria ora mi offre, ci avrei unto le ruote, cioè la penna del notaro criminale, e rinvigorito il cervello del procuratore della legge, per modo che oggi sarei in mezzo alla piazza di Zocodover a Toledo e non per questa strada, al guinzaglio come un levriere. Ma Dio è grande: pazienza e basta.

Passò don Chisciotte al quarto, che era un uomo di aspetto venerando, con una barba bianca che gli scendeva più giù del petto; il quale sentendosi domandare il motivo del ritrovarsi lì, cominciò a piangere e non rispose parola; ma il quinto forzato gli fece da interprete e disse:

— Questo dabben uomo va per quattro anni alle galere, dopo essere andato a passeggio vestito in gran pompa e a cavallo per le vie consuete145.

— Cotesto — disse Sancio Panza — a quanto mi sembra, è un essere stato menato alla gogna.

— Precisamente — soggiunse il galeotto; — e la colpa per cui s'ebbe questa pena è per essere stato sensale di commercio o meglio portapollastri146. Insomma, voglio dire questo galantuomo è qui perché ruffiano e perché, arrogi per guarnizione e frangia, un zinzino fattucchiere147.

— Se non gli si fosse aggiunta cotesta guarnizione e cotesta frangia — disse don Chisciotte, — per essere soltanto ruffiano puro e semplice non avrebbe meritato di andare a vogare nelle galere, ma di averne il comando, di esserne anzi ammiraglio. Giacché non è mica una professione qualunque quella di ruffiano; è una professione da gente avveduta, una professione necessarissima in una repubblica ben ordinata, da non potersi esercitare se non da persone molto bennate. E ci dovrebb'essere perfino un loro ispettore ed esaminatore, come ce n'è per gli altri uffici, e dovrebbero essere tanti e non più e patentati come gli agenti di borsa, e così si eviterebbero tanti mali causati dall'essere questa professione esercitata da gente stupida, di poca perspicacia, come, dal più al meno, volgari donnicciuole, servitorelli e buffoni d'età immatura e senza esperienza che nella più urgente occasione e quando occorre un tratto di genialità, ecco che si trovano impacciati come pulcini nella stoppa né sanno quanto c'è dalla bocca al naso148. Vorrei proseguire e addurre le ragioni per cui converrebbe fare una scelta di coloro che nella repubblica dovrebbero avere così necessario ufficio, ma non è questo il luogo adatto a ciò: un giorno o l'altro ne parlerò a chi possa provvedervi e rimediarvi. Ora dico solo che la pena che mi ha fatto il vedere in tanto travaglio questi capelli canuti e questo venerando aspetto, per essere costui un ruffiano, me l'ha alleviata l'aggiunta di essere stregone. Quantunque, io so bene che non ci sono stregonerie al mondo le quali valgano a muovere e a violentare la volontà come certi sciocchi immaginano, perché è libero il nostro arbitrio, né c'è erba o incantagione che lo costringa. Ciò che sogliono fare certe sceme di donnicciole e certi ciurmatori sono delle misture e dei veleni con cui fanno diventare pazzi gli uomini, dando ad intendere che hanno il potere di fare innamorare, mentre, come ho detto, è impossibile violentare la volontà149.

— Così è — disse il buon vecchio; — e, infatti signore, dell'accusa di fattucchiere io sono innocente; l'accusa di ruffiano non la posso negare. Ma con ciò non credetti mai di far del male, perché l'unica mia intenzione era che tutti quanti al mondo se la godessero, vivessero in pace e quiete, senza liti, senza fastidi; però non mi giovò a nulla questo mio onesto desiderio rispetto all'impedirmi di andare là donde non spero tornar più, carico d'anni e malato di mal d'orina come sono, che non mi lascia riposare un momento.

E qui di nuovo a piangere come prima. Sancio ne provò tanta compassione che tirò fuori di seno una moneta di quattro reali150 e gliela diede per elemosina.

Passò avanti don Chisciotte e domandò ad un altro quale era il suo delitto, e quegli, con non minore, se non pure con molto maggiore spigliatezza del precedente, rispose:

— Io mi trovo qui perché mi divertii un po' troppo con due cugine mie, poi con altre due cugine che però non eran mie; insomma, tanto mi spassai con tutte queste che lo scherzo finì in un accrescimento della parentela in modo così imbrogliato che non c'è diavolo che possa metterla in chiaro. Tutto mi fu pienamente provato, mi mancò ogni aiuto, non avevo quattrini, mi vidi sul punto di rimetterci il gorgozzule, mi si condannò alle galere per sei anni; mi rassegnai: è la punizione della mia colpa; son giovane: tiriamo a campare: ché campando, si ha tutto. Se vossignoria, signor cavaliere, ha qualcosa da poter soccorrere questi poveretti, Dio glielo compenserà in cielo, e noi, nelle nostre orazioni avremo cura in terra di pregare Dio per la vita e la salute di vossignoria, affinché possano essere l'una così lunga e l'altra così buona come merita la sua bella presenza.

Costui era vestito da studente151 e una delle guardie disse che era un gran parlatore ed un molto eccellente latinista.

Dopo tutti costoro veniva un tale di molto bell'aspetto, sull'età di trent'anni, senonché nel guardare, l'un occhio si volgeva un po' verso l'altro. Era legato diversamente dagli altri, poiché portava al piede una catena così lunga che gli rigirava tutta la persona, e al collo due collari di ferro, l'uno ribadito alla catena, l'altro era di quei forchetti che chiamano «reggiamico» o «piè d'amico»152; dalla quale catena pendevano due ferri che arrivavano alla cintola e in cui erano saldate due manette che gli stringevano i polsi, chiuse con un grosso lucchetto, per modo che né con le mani poteva arrivare alla bocca, né poteva abbassare la testa per arrivare alle mani. Don Chisciotte domandò come mai quell'uomo era tanto più inceppato degli altri. Gli rispose la guardia che per il fatto che lui solo aveva più delitti di tutti gli altri insieme, e che era così audace e così gran briccone che, quantunque fosse portato con tutte quelle precauzioni, pure non si era sicuri di lui, ma si temeva che dovesse scappare.

— E che delitti può aver commesso — disse don Chisciotte, — se non ha meritato altra pena che essere mandato alle galere?

— Ne ha per dieci anni — replicò la guardia, — che è come una morte civile. Basti sapere soltanto che questo brav'uomo è il famoso Ginesio di Passamonte, il quale è, con altro nome, detto Ginesino di Parapiglia.

— Signor commissario — disse allora il forzato, — andiamo adagino e non ci mettiamo ora a far questione di nomi e di soprannomi. Mi chiamo Ginesio e non Ginesino, e faccio di casato Passamonte, non già Parapiglia, come dice «vossia»; ognuno s'occupi dei fatti suoi e ce ne sarà abbastanza.

— Parla con meno petulanza — replicò il commissario, — signor ladro di marca superiore, se non vuole che lo faccia star zitto, suo malgrado.

— Si vede bene — rispose il galeotto — che mi tocca quello che a Dio piace; ma un giorno o l'altro qualcuno avrà a sapere se mi chiamo Ginesino di Parapiglia, o no.

— Ma non ti chiamano così, impostore? — disse la guardia.

— Mi chiamano così — rispose Ginesio; — ma io farò in modo che non mi si dia più questo nome, o me la rifaccio con la barba che ho dove m'intendo io153. Signor cavaliere, se ci ha qualcosa da darci, ebbene, ce la dia e se ne vada con Dio, ché comincia a seccare con tanto voler sapere delle vite degli altri. Se vuol sapere la mia, sappia che sono Ginesio di Passamonte, la vita del quale l'hanno scritta queste dita.

— È vero — disse il commissario; — lui stesso ha scritto la sua storia che meglio non si potrebbe, e ha lasciato il libro in carcere, in pegno di duegento reali.

— E penso di spegnarlo — disse Ginesio — anche se vi fosse rimasto per duegento ducati.

— Tanto è pregevole? — disse don Chisciotte.

— È tanto pregevole — rispose Ginesio — che al diavolo e Lazarillo de Tormes154 e quanti se n'è scritti di quel genere e se ne scriveranno. Quello che posso dire a «vossia» è che tratta di cose vere, e che son verità così belle e così piacevoli che non ci possono essere cose inventate da stargli alla pari.

— E come s'intitola il libro? — domandò don Chisciotte.

— La Vita di Ginesio di Passamonte — rispose il medesimo.

— Ed è finito? — domandò don Chisciotte.

— Come può esser finito — rispose egli, — se ancora non è finita la mia vita? La parte che è stata scritta va dalla mia nascita fino al punto che mi hanno mandato alle galere ora l'ultima volta.

— Allora, ci siete stato altra volta? — disse don Chisciotte.

— Al servigio di Dio e del Re, ci sono stato quattro anni altra volta, e ormai so che sapore hanno la galletta e il nerbo di bue — rispose Ginesio; — né mi rincresce poi molto l'andarci, poiché là avrò agio di finire il mio libro, rimanendomi molte cose da dire, e nelle galere di Spagna c'è più tranquillità di quanto occorra, sebbene non me ne occorra gran che per quel che ho da scrivere, sapendolo già a mente.

— Tu mi sembri d'ingegno — disse don Chisciotte.

— Quindi disgraziato — rispose Ginesio; — perché le disgrazie sempre perseguitano il bell'ingegno.

— Perseguitano i furfanti — disse il commissario.

— Le ho già detto, signor commissario — rispose Passamonte, — che vada adagino; quei tali signori non le dettero cotesto bastone del comando perché avesse a mal trattare noi poveracci qui presenti, ma perché ci guidasse e ci conducesse dove ordina Sua Maestà. Se no giuraddio... - basta, - che potrebbe darsi che un giorno o l'altro le macchie che si fece all'osteria venissero a rifiorire col bucato155; zitti tutti, si regolino bene e parlin meglio; e ora andiamo avanti, che è bene un gran desio questo.

Levò alto il bastone il commissario per picchiare Passamonte in risposta alle sue parole di minaccia; ma don Chisciotte si mise di mezzo e lo pregò di non maltrattarlo, perché non era da meravigliarsi che chi aveva le mani così legate avesse un tantino la lingua sciolta. E rivolgendosi a tutti gli incatenati disse:

— Da quanto mi avete detto, carissimi miei, son potuto venire in chiaro che, sebbene vi abbiano punito per le colpe vostre, le pene che siete per scontare non vi fanno gran cosa piacere e che voi ci andate molto a malincuore, molto contrariamente alla vostra volontà, e che forse l'avere avuto l'uno poco coraggio nella tortura, la mancanza di quattrini in questo, la scarsezza di difesa nell'altro e, finalmente, lo storto giudizio del giudice, dovette essere la causa della vostra rovina e del non avere ottenuto quella giustizia che pur stava dalla parte vostra. Tutto ciò mi si presenta ora alla mente in modo da suggerirmi, da persuadermi, da forzarmi anche a far conoscere, nell'occasione che mi si dà con voi, lo scopo per il quale il Cielo mi mise al mondo e mi ci fece professare l'ordine della cavalleria alla quale sono ascritto, e il voto ch'io vi feci di aiutare i bisognosi e gli oppressi dai più potenti. Però, siccome io so che una delle doti della prudenza è che quello che si può ottenere con le buone non si voglia avere con le cattive, intendo pregare questi signori guardiani e il commissario di compiacersi di slegarvi e di lasciarvi andare in pace, poiché altri non ne mancheranno i quali in occasioni migliori rendano servigio al Re, ché mi pare una crudeltà fare schiavi quelli che Dio e la natura crearono liberi. Tanto più, signore guardie — aggiunse don Chisciotte — che questa povera gente non ha commesso nulla contro di voi. Che ciascuno se la veda da sé con le sue proprie colpe; c'è un Dio in cielo che non si dimentica di punire il cattivo e di premiare il buono, e non va che gli uomini dabbene siano carnefici degli altri uomini, non avendovi nessun interesse. Chiedo questo con la dolcezza e la tranquillità che voi vedete, per avere, se voi soddisfate la mia richiesta, motivo di esservi grato; ma qualora non vogliate farlo di buon grado, questa lancia e questa spada unitamente al valore del mio braccio, ve lo faranno fare per forza.

— Che graziosa sciocchezza! — rispose il commissario. — Con che bella facezia se n'è venuto fuori all'ultimo momento! Vuole che gli rilasciamo i forzati del Re, come se noi avessimo l'autorità di liberarli, o lui l'avesse per ordinarcelo! Se ne vada, signore, alla buon'ora per la sua strada, e si raddrizzi cotesta catinella che ha in capo, e non vada a cercare cinque piedi nel gatto156.

— Il gatto, il topo, il mascalzone siete voi! — rispose don Chisciotte; e, detto fatto, gli fu addosso così immediatamente, che, senza dargli tempo a difendersi, lo gettò a terra ferito a buono da una lanciata. Fortuna per don Chisciotte, perché costui era quello con lo schioppo. Le altre guardie rimasero sbigottite e trasecolate dall'inaspettato avvenimento, ma, rimessisi dallo stupore, posero mano alle spade quelli a cavallo, ai loro giavellotti quelli a piedi, e assaltarono don Chisciotte che li attendeva con tutta calma. Nessun dubbio che la passava brutta, se i galeotti, vedendo la buona occasione che se gli offriva di acquistare la libertà, non se la procuravano, cercando di spezzar la catena nella quale erano disposti in fila. Lo scompiglio fu tale che le guardie, sia per slanciarsi sui galeotti che stavano sciogliendosi, sia per dare addosso a don Chisciotte che dava addosso a loro, non fecero nulla di buono. Sancio, dal canto suo, aiutò a slegarsi Ginesio di Passamonte che fu il primo a darsi alla campagna libero e disimpacciato. Egli, balzando addosso al commissario caduto a terra, gli tolse la spada e lo schioppo, per paura del quale, puntandolo contro l'uno, spianandolo contro l'altro senza spararlo mai, non una guardia rimase in tutta quella campagna, ché tutte se la batterono, fuggendo tanto dallo schioppo di Passamonte quanto dalla sassaiola che i galeotti ormai slegati scagliavano loro contro. Di questo fatto molto si rattristò Sancio, perché previde che quei che andavano scappando avrebbero informato dell'avvenuto la Santa Confraternita, la quale, al tempellare della campana a martello, sarebbe uscita alla ricerca dei malfattori. Ciò disse quindi al suo padrone, scongiurandolo a levarsi entrambi di lì e a imboscarsi su per la montagna vicina.

— Va bene cotesto — disse don Chisciotte; — ma io so quel che ora convien fare.

E chiamando a raccolta tutti i galeotti che erano in gran tumulto e avevano depredato il commissario fino a lasciarlo nudo bruco, gli si misero tutti intorno per vedere cosa volesse da loro. Ed egli disse loro così:

— Egli è proprio di gente bennata l'essere riconoscente dei beneficî che si ricevono ed uno dei peccati che più offende Dio è l'ingratitudine. Dico questo perché avete visto, signori, per vostra manifesta esperienza, il beneficio che da me avete ricevuto; in compenso del quale desidererei, anzi è mio volere, che, con questa catena sulle spalle, la quale io vi ho levato di dosso, subito vi mettiate in cammino e andiate alla città del Toboso, e là vi presentiate davanti alla signora Dulcinea del Toboso e le diciate che il suo cavaliere, quel dalla Triste Figura, manda a riverirla, e le raccontiate per filo e per segno tutti i particolari di questa segnalata avventura fino a quello di avervi rimesso nella agognata libertà. Fatto questo, ve ne potrete andare dove vorrete e buona fortuna.

Rispose per tutti Ginesio di Passamonte e disse:

— Questo che ci ordina vossignoria, signore e liberatore nostro, è impossibile, impossibilissimo, ad eseguirsi, perché non possiamo andare tutti insieme per le strade, bensì singolarmente e separati, cercando inoltre ciascuno, dal canto suo, di rimpiattarsi sotto terra per non essere trovato dalla Santa Confraternita, che, sicuramente, uscirà in cerca di noi. Quel che vossignoria può fare e che è giusto sia fatto, è di commutarci questo servigio e tributo di pedaggio alla signora Dulcinea del Toboso, in un certo numero di avemmarie e di credi, che noi reciteremo secondo l'intenzione di vossignoria. Questa, sì, è cosa possibile ad eseguirsi di notte e di giorno, in corsa e in riposo, in pace e in guerra; ma pensare che s'abbia a tornare adesso alle minestre d'Egitto157, cioè, a prendere la nostra catena e incamminarci per il Toboso, è come credere che ora sia notte, mentre non sono ancora le dieci del giorno, e chiederci questo è come voler cavare sangue da una rapa.

— Allora, giuraddio — disse don Chisciotte, or montato sulle furie — signor figliolo d'una trusiana, signor Ginesino di Paropiglio, o come vi chiamate, andrete voi solo, con la coda fra le gambe, con tutta la catena addosso.

Passamonte, che non era punto paziente, già avendo ben capito che don Chisciotte, dal momento che aveva tentato una stravaganza come quella di volerli liberare non doveva aver molto il cervello a posto, nel vedersi trattato a quel modo, strizzò l'occhio ai compagni e tutti facendosi indietro, presero a rovesciare tale una tempesta di pietre su don Chisciotte che non ce la faceva a coprirsi con lo scudo; e il povero Ronzinante non faceva caso dello sprone più che se fosse stato fatto di bronzo. Sancio si accoccolò dietro al suo asino, e così si riparava dalla gragnuola che pioveva su tutti e due. Non poté don Chisciotte farsi tanto bene schermo dello scudo che non gli fossero assestati nella persona non so quanti ciottoli, con tanta violenza che fu gettato a terra. E non appena fu caduto che piombò su lui lo studente il quale gli tolse di capo la catinella, gliela sbatté tre o quattro volte sulle spalle e altrettante per terra, fino a ridurla quasi in pezzi. Gli fu levato un giubbino che portava sull'armatura e avrebbero voluto spogliarlo anche delle calze se non vi fossero stati i gambali. A Sancio gli portarono via il gabbano: quindi, lasciandolo in maniche di camicia e spartendosi fra loro le altre spoglie del combattimento, se n'andarono ognuno per conto proprio, avendo più premura di sfuggire alla temuta Confraternita che di addossarsi la catena e di andare a presentarsi davanti alla signora Dulcinea del Toboso.

Rimasero loro soli: l'asino e Ronzinante, Sancio e don Chisciotte. L'asino, a testa bassa e pensieroso, scuotendo di quando in quando le orecchie, con l'idea che non fosse ancora smessa la tempesta delle pietre di cui gli pareva sentire ancor il frullo; Ronzinante, steso accanto al padrone, poiché cadde a terra anche lui per una nuova pietrata; Sancio, in farsetto e impaurito della Santa Confraternita; don Chisciotte, tutto mogio per vedersi così malmenato da quelli stessi a cui aveva fatto tanto bene.

Don Chisciotte della Mancia

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