Читать книгу Un’Impresa da Eroi - Морган Райс, Morgan Rice - Страница 11
CAPITOLO DUE
ОглавлениеThor girovagò per ore sulle colline, fremendo di rabbia, e alla fine scelse una collina e si sedette, le braccia incrociate sopra alle ginocchia, a guardare l’orizzonte. Guardò le carrozze mentre scomparivano, la nuvola di polvere che rimase a fluttuare per ore anche dopo che si furono eclissati.
Non ci sarebbero state altre visite. Ora era destinato a restare lì, in quel villaggio, per anni, in attesa di un'altra possibilità, se mai fossero tornati. Se suo padre gliel’avesse mai permesso. Ora sarebbero stati solo lui ed il padre, soli nella casa, e suo padre gli avrebbe sicuramente scaricato addosso tutta l’ira possibile. Avrebbe continuato ad essere il servo di suo padre, gli anni sarebbero passati, e lui avrebbe finito per ritrovarsi esattamente come lui, bloccato in quel luogo, a condurre una vita minima e domestica, mentre i suoi fratelli guadagnavano gloria e fama. Il sangue gli ribolliva nelle vene per l’onta di tutto ciò: non era quella la vita che lui intendeva vivere. Ne era certo.
Thor si scervellò alla ricerca di una soluzione, di un modo per cambiare la situazione. Ma non trovò nessuna risposta. Queste erano le carte che la vita aveva girato per lui.
Dopo ore che se ne stava seduto, si alzò sconfortato e iniziò a ripercorrere la strada verso casa sulle familiari colline, sempre più in alto. Inevitabilmente andò in direzione del gregge, verso l’alto poggio. Mentre avanzava, il primo sole era già alto nel cielo ed il secondo aveva appena raggiunto il picco, emanando una tonalità verdognola.
Thor prese tempo e rallentò, distrattamente prese la fionda che teneva legata alla vita, l’impugnatura usurata dagli anni. Infilò la mano nel sacco che gli pendeva dal fianco e fece passare fra le dita la sua collezione di pietre, una più liscia dell’altra, e ne scelse una fra le migliori, quelle provenienti dal letto del fiume. Talvolta tirava agli uccelli, in altre occasioni a piccoli roditori. Era un’abitudine che aveva radicato negli anni. Le prime volte non prendeva un colpo; poi, un giorno, aveva colpito un bersaglio in movimento. Da quella volta era sempre andato a centro sicuro. Ora lanciare pietre era diventato una parte di lui, e gli era di aiuto per sfogare parte della sua rabbia. I suoi fratelli erano forse capaci di fendere un ceppo d’albero con la loro spada, ma non sarebbero mai stati in grado di colpire con una pietra un uccello in volo.
Automaticamente posizionò una pietra nella fionda, si piegò indietro e lanciò con tutte le sue forze, immaginando di tirare il colpo contro suo padre. Colpì il ramo di un albero lontano, recidendolo nettamente. Quando si rese conto che poteva realmente uccidere animali in movimento, aveva smesso di mirare a questi, spaventato dalla sua stessa forza e non volendo far del male a niente o nessuno. Ora i suoi bersagli erano i rami. A meno che, ovviamente, una volpe non si avvicinasse al suo gregge. Con il tempo aveva imparato a stare allerta. Per tutto risultato, quelle di Thor erano le pecore più al sicuro di tutto il villaggio.
Thor pensò ai suoi fratelli, a dove si trovassero in quel preciso momento, e si sentì ribollire. Dopo un giorno di viaggio sarebbero arrivati alla Corte del Re. Li poteva immaginare. Se li vedeva arrivare in pompa magna, accolti da gente vestita con gli abiti migliori. Venivano accolti dai guerrieri. I Membri dell’Argento. Li avrebbero fatti entrare, gli avrebbero dato un posto in cui vivere nella caserma della Legione, un posto dove allenarsi nei campi del Re, le armi migliori. Ciascuno di loro sarebbe stato nominato scudiero di un famoso cavaliere. Un giorno sarebbero poi diventati cavalieri loro stessi: avrebbero avuto il loro cavallo, il loro blasone, il loro scudiero. Avrebbero partecipato a tutte le feste e banchettato alla mensa del Re. Era una vita incantata. E gli era scivolata via dalle mani. Thor si sentiva fisicamente male, e tentava di scacciare tutti quei pensieri dalla sua testa. Ma non ne era capace. C’era una parte di lui, una parte nascosta, che gli urlava contro. Gli diceva di non arrendersi, che il suo destino era ben più grande di tutto ciò. Non aveva idea di che cosa fosse, ma sapeva che non poteva stare lì. Sentiva di essere diverso. Forse addirittura speciale. Che nessuno lo capiva. E che tutti lo sottovalutavano.
Thor raggiunse il poggio più alto e avvistò il suo gregge. Ben addestrate, le pecore erano ancora tutte insieme e masticavano con soddisfazione ogni ciuffo d’erba che riuscivano ad acciuffare. Le contò, cercando i segni rossi che aveva impresso sulle loro schiene. Quando ebbe finito, rimase pietrificato. Mancava una pecora.
Contò di nuovo, e di nuovo ancora. Non poteva crederci: ne mancava una.
Thor non aveva mai perso una pecora prima, e suo padre non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Quel che era peggio, non poteva sopportare l’idea di una pecora perduta, sola e vulnerabile in quella landa selvaggia. Odiava vedere soffrire qualsiasi essere innocente.
Thor si precipitò sulla cima del poggio e scrutò l’orizzonte fino a che la vide, lontana, parecchie colline più in là: la pecora solitaria, il segno rosso sulla schiena. Era la selvatica del gruppo. Il cuore gli si fermò in petto quando si rese conto che la pecora non solo era fuggita, ma aveva scelto, fra tutti i luoghi, di dirigersi verso ovest, in direzione di Bosconero.
Thor sussultò. Bosconero era un luogo vietato, non solo alle pecore ma anche agli umani. Si trovava oltre il limitare del villaggio, e da quando aveva imparato a camminare Thor sapeva di non doversi avventurare lì. Non l’aveva mai fatto. Recarsi in quel luogo, diceva la leggenda, significava morte sicura: i suoi boschi non contrassegnati erano pieni di bestie feroci.
Thor, dibattuto, guardò in alto, verso il cielo che si stava oscurando. Non poteva permettere che la sua pecora se ne andasse. Calcolò che se si fosse mosso in fretta l’avrebbe recuperata in tempo.
Dopo essersi guardato alle spalle un’ultima volta, si girò e cominciò a correre di gran lena, diretto verso nord, verso Boscoscuro, mentre nuvole spesse iniziavano a formarsi sopra di lui. Aveva una sensazione tremenda, tuttavia le gambe sembravano portarlo da sole. Sentiva che, se mai l’avesse voluto, non c’era la possibilità di tornare indietro.
Era come tuffarsi di corsa in un incubo.
*
Thor passò di corsa la seria di colline senza mai fermarsi, fino ad entrare nella fitta cupola di Boscoscuro. I sentieri finivano laddove il bosco aveva inizio, e lui continuò a correre su territorio non contrassegnato, con le foglie dell’estate che scricchiolavano sotto i suoi piedi.
Nel momento in cui entrò nel bosco, venne inghiottito dall’oscurità, dato che la luce veniva bloccata dall’alto da pini torreggianti. Era anche più freddo là dentro, e quando attraversò la soglia, sentì una certa frescura. Non era causata semplicemente dal buio, o dall’aria fredda, ma proveniva da qualcos’altro. Qualcosa a cui non sapeva dare un nome. Era come essere osservati.
Thor guardò in alto verso gli antichi rami, nodosi, più grossi di lui stesso, che ondeggiavano e scricchiolavano nella brezza. Aveva appena fatto cinquanta passi nel bosco, quando iniziò a sentire strani versi di animali. Si girò e riuscì a malapena a vedere il punto da dove era entrato; si sentiva già come non ci fosse alcuna via d’uscita. Esitò.
Boscoscuro si era sempre trovato alla periferia del villaggio e alla periferia della coscienza di Thor, qualcosa di profondo e misterioso. Ogni pastore che mai avesse perso una pecora nel bosco non si era mai avventurato a recuperarla. Neanche suo padre. I racconti che riguardavano quel luogo erano talmente oscuri, talmente incalzanti.
Ma quel giorno portava con sé qualcosa di diverso, qualcosa per cui Thor sentiva di non curarsene e che lo spingeva a gettare al vento ogni forma di cautela. Una parte di lui desiderava spingersi oltre il confine, per andare il più lontano possibile da casa e per lasciare che la vita lo portasse dove era possibile.
Si avventurò oltre, poi si fermò, incerto sulla direzione da prendere. Notò dei segni: rami piegati dove la sua pecora forse era passata, e girò quindi da quella parte. Dopo un po’ svoltò un’altra volta.
Prima che fosse passata un’ora si era ormai irrimediabilmente perso. Cercò di ricordare la direzione da cui era giunto, ma non ne era più così sicuro. Una sensazione di disagio gli attanagliò lo stomaco, ma capì che l’unico modo per uscire da quella situazione era andare avanti, quindi continuò a procedere.
In lontananza Thor avvistò un raggio di sole e si diresse da quella parte. Si ritrovò in una piccola radura e si fermò al limitare di questa, immobile: non poteva credere a ciò che aveva davanti agli occhi.
Lì in piedi, vestito con una lunga tunica di raso e con le spalle rivolte a Thor, stava un uomo. No, non un uomo, Thor poteva percepirlo. Era qualcosa di diverso. Un druido, forse. Era alto e allampanato, la testa coperta da un cappuccino, perfettamente immobile, come se non gliene importasse nulla del mondo.
Thor rimase immobile senza ben sapere cosa fare. Aveva sentito parlare dei druidi, ma non ne aveva mai incontrato uno. Dai segni sulla sua tunica, un elaborato ricamo dorato, non si trattava di un mero druido: quelli erano segni reali. Della corte del Re. Thor non riusciva a capire. Cosa ci faceva un druido del Re in quel luogo?
Dopo un tempo che gli parve un’eternità, il druido lentamente si voltò e guardò Thor in faccia: a quel punto Thor lo riconobbe. Gli mancò il fiato. Era uno dei volti più noti nel regno: il druido personale del Re. Argon, consigliere dei re del Regno Occidentale da secoli. Cosa ci facesse lì, lontano dalla corte reale, nel bel mezzo di Boscoscuro, era un mistero. Thor si chiese se per caso stesse sognando.
“I tuoi occhi non ti ingannano,” disse Argon, fissando Thor dritto in volto.
La sua voce era profonda, antica, come fosse emanata dagli alberi stessi. I suoi occhi grandi e luccicanti sembravano trapassare Thor da un capo all’altro. Sentiva un’energia intensa che si irradiava da lui, come se si trovasse di fronte al sole.
Thor immediatamente si inginocchiò e abbassò il capo.
“Mio signore,” disse. “Mi spiace averti disturbato.”
La mancanza di rispetto nei confronti di un consigliere del Re poteva portare all’arresto o alla morte. Questo era stato inculcato in Thor fin dalla nascita.
“Alzati, fanciullo,” disse Argon. “Se avessi voluto che ti inginocchiassi, te l’avrei detto.”
Lentamente Thor si aòl e lo guardò. Argon fece qualche passo verso di lui. Se ne stava lì a fissarlo, fino a che Thor iniziò a sentirsi a disagio.
“Hai gli occhi di tua madre,” disse Argon.
Thor fu preso alla sprovvista. Non aveva mai conosciuto sua madre, non aveva mai incontrato nessun altro, a parte suo padre, che la conoscesse. Gli avevano raccontato che era morta dandolo alla luce, cosa per la quale Thor aveva sempre provato un senso di colpa. Aveva sempre sospettato che quella fosse la ragione per cui la sua famiglia lo odiava così tanto.
“Credo che tu mi stia confondendo con qualcun altro,” disse Thor. “Io non ho una madre.”
“Davvero?” chiese Argon sorridendo. “Sei nato da un uomo?”
“Volevo dire, signore, che mia madre è morta durante il parto. Credo che tu si stia sbagliando.”
“Tu sei Thorgrin, del Clan McLeod. Il più giovane di quattro fratelli. Quello che non è stato scelto.”
Thor sgranò gli occhi. Non sapeva proprio che senso dare a quella situazione. Che qualcuno del lignaggio di Argon conoscesse chi era lui, questo era al di fuori della sua capacità di comprensione. Mai avrebbe immaginato che qualcuno fuori dal villaggio lo conoscesse.
“Come fai a saperlo?”
Argon gli sorrise, ma non rispose.
Thor si sentì improvvisamente pervadere dalla curiosità.
“Come…” aggiunse Thor, cercando le parole giuste, “come sai di mia madre? La conoscevi? Chi era?”
Argon si voltò e si allontanò.
“Domande per un’altra volta,” disse.
Thor lo guardò andarsene, confuso. Era stato un incontro talmente frastornante e misterioso, e tutto stava accadendo così in fretta. Decise che non poteva permettere che Argon se ne andasse. Lo rincorse.
“Cosa ci fai qui?,” chiese Thor, correndo per raggiungerlo. Argon, usando il suo bastone, un antico oggetto d’avorio, camminava sorprendentemente veloce. “Non stavi aspettando me, vero?”
“E chi altro?” chiese Argon.
Thor camminava in fretta per stare al passo, seguendolo nel bosco e lasciandosi la radura alle spalle.
“Ma perché io? Come potevi sapere che sarei venuto qui? Cosa stai cercando?”
“Quante domande,” disse Argon. “Saturi l’aria. Dovresti ascoltare, piuttosto.”
Thor lo seguì mentre proseguivano attraverso il bosco fitto, facendo del suo meglio per restare in silenzio.
“Tu sei qui alla ricerca della tua pecora perduta,” affermò Argon. “Uno sforzo nobile. Ma sprechi il tuo tempo. Non sopravviverà.”
Thor sgranò gli occhi.
“Come fai a saperlo?”
“Io conosco parole che tu mai saprai, ragazzo. Almeno non ancora.”
Thor pensava tra sé e sé mentre camminava più velocemente per stare al passo.
“Ad ogni modo, non ascolterai. È nella tua natura. Ostinato. Come tua madre. Continuerai a correre dietro alla tua pecora, determinato a salvarla.”
Thor arrossì mentre Argon leggeva i suoi pensieri.
“Sei un ragazzo risoluto, aggiunse. Determinato. Troppo orgoglioso. Tratti positivi. Ma un giorno potrebbero determinare la tua sconfitta.”
Argon iniziò a risalire un crinale ricoperto di muschio, e Thor lo seguì.
“Tu vuoi entrare nella Legione del Re,” disse Argon.
“Sì!” rispose Thor trepidante. “C’è qualche possibilità? Puoi fare che succeda?”
Argon rise, un suono profondo e cavernoso che fece scorrere un brivido lungo schiena di Thor.
“Io posso far accadere tutto o niente. Il tuo destino è già stato scritto. Ma sta a te sceglierlo.”
Thor non capiva.
Raggiunsero la cima del crinale e quando furono arrivati Argon di fermò e guardò Thor negli occhi. Thor era solo qualche passo indietro, e la bruciante energia di Argon lo trapassava.
“Il tuo è un destino importante,” disse. “Non abbandonarlo.”
Thor sgranò ancor più gli occhi. Il suo destino? Importante? Si sentì pervadere dall’orgoglio.
“Non capisco. Parli per indovinelli. Ti prego, dimmi di più.”
All’improvviso, Argon svanì.
Thor non riusciva a credere ai suoi occhi. Rimase lì a guardare da ogni parte, in ascolto, dubbioso. Aveva immaginato tutto? Era stata una sorta di illusione?
Thor si voltò ed esaminò il bosco: da quel punto propizio, dall’alto del crinale, poteva vedere ben oltre rispetto a prima. Mentre osservava, scorse del movimento in lontananza. Udì un rumore ed ebbe la netta certezza che si trattasse della sua pecora.
Corse a precipizio giù dal crinale ricoperto di muschio e si diresse rapidamente verso il suono, di nuovo attraverso il bosco. Mentre procedeva non riusciva a togliersi dalla mente l’incontro con Argon. Si capacitava a malapena che fosse successo. Con tutti i posti che c’erano, cosa ci faceva il druido del Re proprio lì? Lo aveva aspettato. Ma perché? E cosa aveva voluto dire sul suo destino?
Più Thor cercava di capirci qualcosa, meno ne veniva fuori. Argon lo stava mettendo in guardia dal continuare, ma allo stesso tempo lo aveva tentato a farlo. Ora, mentre procedeva, Thor avvertì un crescente senso di inquietudine, come se qualcosa di importantissimo stesse per accadere.
Svoltò ad una curva e si fermò pietrificato alla vista di ciò che gli stava di fronte. Tutti i suoi peggiori incubi divennero realtà in un istante. Gli si rizzarono i capelli e si rese conto di aver commesso un grave errore addentrandosi così tanto in Boscoscuro.
Lì di fronte a lui, appena trenta passi più in là, c’era un Sybold. Enorme, robusto, alto – sulle quattro zampe – quasi quanto un cavallo. Si trattava dell’animale più temuto di Boscoscuro, forse del Regno intero. Thor non ne aveva mai visto uno, ma aveva sentito le leggende. Assomigliava ad un leone, ma era più grande, più robusto, con la pelle di un colore scarlatto scuro e gli occhi di un giallo brillante. La leggenda diceva che il suo colore scarlatto derivasse dal sangue di bambini innocenti.
Thor aveva sentito di ben pochi avvistamenti di quella bestia, e anche quei pochi risultavano dubbiosi. Forse perché nessuno era realmente mai sopravvissuto ad un incontro. Alcuni consideravano il Sybold come il Re del Bosco, e un auspicio. Quale fosse quell’auspicio, Thor proprio non riusciva ad immaginarlo.
Fece un cauto passo indietro.
Il Sybold si alzò, la mascella mezza aperta, con la saliva che gocciolava dalle sue fauci, è guardò verso Thor. In bocca aveva la pecora perduta che belava, appesa a testa in giù, con metà del corpo attanagliato dalle zanne. Era quasi morta. Il Sybold sembrava gioire della sua preda e prendeva tempo, sembrava provare piacere nel torturarla.
Thor non riuscì a sopportare i lamenti. La pecora si dimenava, indifesa, e lui si sentiva responsabile.
Il suo primo impulso fu di girarsi e correre via, ma già sapeva che sarebbe stato inutile: quella bestia poteva correre più veloce di ogni cosa. Fuggire l’avrebbe solo incoraggiato. E inoltre non poteva lasciar morire la sua pecora in quel modo.
Esitò, paralizzato dalla paura, sapendo di dover agire in qualche modo.
I suoi riflessi presero il comando. Lentamente infilò la mano nella sua borsa, prese una pietra e la inserì nella fionda. Con mano tremante caricò, fece un passo indietro e lanciò.
La pietra sfrecciò fendendo l’aria e colpì il bersaglio. Era stato un tiro perfetto: la pietra prese la pecora in un occhio, arrivando dritta al cervello.
La pecora si afflosciò. Era morta. Thor aveva risparmiato la sofferenza a quella povera bestia.
Il Sybold si accigliò, incollerito perché il ragazzo aveva ucciso il suo giocattolo. Aprì lentamente le immense fauci e lasciò cadere la pecora, che atterrò a terra con un tonfo. Poi rivolse gli occhi a Thor.
Ringhiò, un suono profondo e malvagio, che gli saliva dallo stomaco.
Non appena iniziò ad avanzare verso di lui, Thor, con il cuore che gli batteva a mille, mise un’altra pietra nella fionda, si inarcò all’indietro e si preparò a lanciare un’altra volta.
Il Sybold fece uno scatto, più veloce di qualsiasi altra cosa Thor avesse mai visto in tutta la sua vita. Thor fece un passo indietro e lanciò la pietra, pregando perché andasse a segno, ben sapendo di non avere il tempo per prepararne un’altra prima che quella giungesse la bersaglio.
La pietra colpì il mostro nell’occhio destro, accecandoglielo. Fu un lancio straordinario, il genere di lancio che avrebbe messo in ginocchio un piccolo animale.
Ma quello non era un animale qualsiasi. La bestia era irrefrenabile. Gridò per il dolore, ma non rallentò minimamente. Anche senza un occhio, anche con la pietra conficcata in testa, continuò a caricare contro Thor. Non c’era niente che Thor potesse fare.
Un attimo più tardi la bestia era su di lui. Prese la mira con i suoi enormi artigli e graffiò Thor su una spalla.
Thor gridò e cadde. Era come se tre coltelli gli avessero trapassato la carne e il sangue caldo zampillò istantaneamente dalla ferita.
La bestia lo teneva fermo a terra con le sue quattro zampe. Il peso era insostenibile, come avere un elefante in piedi sul petto. Thor sentiva le costole che gli si rompevano.
La bestia tirò indietro la testa, aprì al massimo la mandibola, mettendo in mostra le sue zanne, e iniziò ad abbassarle in direzione della gola di Thor.
Subito Thor gli afferrò il collo: era come stringere muscolo puro. Thor riusciva a malapena a tenervisi aggrappato. Le sue braccia iniziarono a tremare mentre le zanne scendevano più in basso, verso di lui. Sentiva in viso l’alito caldo della bestia, la saliva che gli gocciolava sul collo. Un rimbombo giunse dal petto dell’animale, bruciando le orecchie di Thor. Sapeva che sarebbe morto.
Thor chiuse gli occhi.
Ti prego, Dio. Dammi la forza. Permettimi di battere questa creatura. Per favore. Ti prego. Farò tutto quello che vuoi. Ti sarò debitore.
E poi accadde qualcosa. Thor sentì un calore grandioso salirgli dal corpo, scorrergli nelle vene, come un’energia che lo attraversasse con rapidità. Aprì gli occhi e vide qualcosa che lo sorprese: dalle sue mani emanava una luce gialla, e quando premeva indietro la gola del mostro, sorprendentemente era in grado di bilanciare la propria forza con quella dell’animale e tenerlo a bada.
Thor continuò a premere fino a che fu effettivamente in grado di spingere indietro il mostro. La sua forza stava aumentando e sentì un’ondata di energia: un istante dopo il mostro volò indietro, spinto da Thor ad almeno tre metri di distanza. Atterrò sulla schiena.
Thor si tirò su a sedere, incapace di capire cosa fosse successo.
Anche la bestia si rimise in piedi e, piena di rabbia, tornò alla carica. Ma questa volta Thor si sentiva diverso. L’energia gli scorreva dentro, si sentiva più potente che mai.
Quando la bestia balzò nell’aria, Thor si accucciò a terra, la afferrò allo stomaco e la lanciò, lasciando che venisse trasportata dal suo stesso impeto.
Il mostro volò attraverso il bosco, andò a schiantarsi contro un albero e collassò a terra.
Thor si voltò, meravigliato. Aveva appena lanciato in aria un Sybold?
Il mostro sbatté gli occhi due volte, poi guardò Thor. Attaccò di nuovo.
Questa volta quando il mostro saltò Thor lo afferrò per la gola. Finirono entrambi a terra, la bestia sopra a Thor. Ma Thor rotolò via, portandosi sopra al mostro. Thor lo teneva, strangolandolo con entrambe le mani, mentre la bestia tentava di sollevare la testa, facendo schioccare le zanne. Lo mancò. Thor, pervaso da una nuova forza, affondò le mani nel collo del mostro senza lasciarlo più andare. Lasciò che l’energia gli scorresse nel corpo. E subito, straordinariamente, si sentì più forte del mostro.
Stava strangolando a morte il Sybold. Alla fine la bestia si afflosciò.
Thor tenne ben salda la presa per un altro minuto buono.
Si alzò poi lentamente, senza fiato, guardando verso il basso con gli occhi sgranati, tenendosi il braccio ferito. Non poteva credere a ciò che era appena successo. Aveva veramente ucciso lui, Thor, un Sybold?
Sentiva che era un segno, in questo giorno dei giorni. Avvertiva che era accaduto qualcosa di grandioso. Aveva appena ucciso il più leggendario e temuto mostro del suo regno. A mani nude. Senza un’arma. Non sembrava reale. Nessuno lo avrebbe creduto.
Rimase lì, barcollante, domandandosi quale potere lo avesse sostenuto, cosa ciò significasse, chi lui fosse veramente. Le uniche persone note per possedere un potere come quello erano i druidi. Ma suo padre e sua madre non erano druidi, quindi lui non poteva esserlo.
O forse poteva?
Thor improvvisamente avvertì una presenza alle sue spalle, e si voltò per vedere Argon, lì in piedi, che guardava l’animale.
“Come sei arrivato qui?” chiese Thor sorpreso.
Argon lo ignorò.
“Hai visto cos’è successo?” chiese Thor, ancora incredulo. “Non so come ho fatto.”
“E invece lo sai,” rispose Argon. “Dentro di te, lo sai. Tu sei diverso dagli altri.”
“È stato come un’ondata di potere.” disse Thor. “Come una forza che non sapevo di avere.”
“Il campo di energia,” disse Argon. “Un giorno arriverai a conoscerlo meglio. Potrai addirittura imparare a controllarlo.”
Thor si strinse nelle spalle, il dolore era lancinante. Guardò verso il basso e vide la sua mano ricoperta di sangue. Si sentiva stordito, aveva paura di cosa gli sarebbe successo se non avesse trovato un aiuto.
Argon fece tre passi in avanti e afferrò la mano libera di Thor, appoggiandola saldamente sulla ferita. La tenne lì, piegò indietro la testa e chiuse gli occhi.
Thor sentì una sensazione di calore scorrergli attraverso il braccio. In pochi secondi il sangue appiccicoso sul braccio si asciugò e il dolore iniziò a svanire.
Guardò in basso e non riuscì a capire: era guarito. Tutto ciò che rimaneva erano tre cicatrici laddove gli artigli lo avevano graffiato, ma sembravano vecchie di parecchi giorni. La ferita si era cicatrizzata. Non cera più sangue.
Thor guardò Argon con stupore.
“Come hai fatto?” chiese.
Argon sorrise.
“Io non ho fatto nulla. Tu l’hai fatto. Io ho solo diretto il tuo potere.”
“Ma io non ho il potere di guarire,” rispose Thor, confuso.
“Davvero?” rispose Argon.
“Non capisco. Tutto questo non ha senso,” disse Thor, sempre più impaziente. “Per favore, dimmi qualcosa.”
Argon distolse lo sguardo.
“Alcune cose le imparerai nel tempo.”
A Thor venne in mente una cosa.
“Questo significa che posso entrare nella Legione del Re?” chiese trepidante. “Sicuramente, se sono capace di uccidere un Sybold, posso tenere testa a ragazzi come me.”
“Certo che puoi,” rispose.
“Ma loro hanno scelto i miei fratelli, non me.”
“I tuoi fratelli non avrebbero potuto uccidere questo mostro.”
Thor guardò oltre, pensieroso.
“Ma mi hanno già rifiutato. Come posso unirmi a loro?”
“Da quando un guerriero ha bisogno di un invito?” chiese Argon.
Le sue parole rimasero sospese. Thor sentì che il corpo gli si scaldava.
“Mi stai dicendo che posso semplicemente presentarmi così? Senza invito?”
Argon sorrise.
“Sei tu che crei il tuo destino. Non gli altri.”
Thor sbatté gli occhi, e un attimo dopo Argon non c’era più.
Thor non ci poteva credere. Si guardò attorno in ogni direzione, ma non c’era traccia di Argon.
“Da questa parte!” lo raggiunse una voce.
Thor si voltò e vide davanti a sé un grande macigno. La voce sembrava provenire dalla cima, e lui subito vi si arrampicò.
Raggiunse la cima, ma fu perplesso nel non trovare segno di Argon.
Da lì, però, poteva vedere al di sopra delle cime degli alberi di Boscoscuro. Vide dove terminava il bosco, vide il secondo sole tramontare in un verde scuro e, al di là, la strada che conduceva alla Corte del Re.
“Quella è la strada che devi percorrere,” disse la voce. “Se ne hai il coraggio.”
Thor si voltò, ma non vide nulla. Era solo una voce. Ma sapeva che Argon era lì da qualche parte, ad incitarlo. E sentiva, dentro di sé, che era giusto così.
Senza ulteriori esitazioni, Thor scese dalla roccia e si mise in cammino attraverso il bosco, diretto verso la strada.
Di corsa incontro al suo destino.