Читать книгу Il regno dei draghi - Морган Райс, Morgan Rice - Страница 13
CAPITOLO QUINTO
ОглавлениеDevin fece oscillare il martello, sbattendolo contro il blocco di metallo che sarebbe dovuto diventare una lama. Gli dolsero i muscoli della schiena quando lo fece e il calore della fucina gli faceva scorrere il sudore sotto ai vestiti. Nella Casa delle Armi, faceva sempre caldo e quella vicinanza a una delle forge, era quasi insopportabile.
“Stai andando alla grande, ragazzino,” disse il Vecchio Gund.
“Ho sedici anni, non sono un ragazzino,” replicò Devin.
“Sì, ma hai ancora la stazza da ragazzino; e poi, per un uomo anziano come me, siete tutti ragazzini.”
Devin alzò le spalle in risposta. Sapeva di non apparire come un fabbro agli occhi di chiunque guardasse, ma ragionò; il metallo richiesto pensava di comprenderlo davvero. Le delicate variazioni di calore e i modelli di acciaio, che potevano rendere un’arma imperfetta priva di difetti, erano quasi magici, e Devin era determinato a conoscerli tutti, a capire davvero.
“Attento, o si raffredderà troppo,” disse Gund.
Rapido, Devin rimise il metallo al calore, osservandone le sfumature finché non raggiunse quella perfetta; poi lo estrasse per lavorarlo. C’era quasi, ma non era ancora impeccabile; doveva limare un altro goccio la punta. Devin ne era certo quanto della differenza fra destra e sinistra.
Era ancora giovane, ma conosceva le armi. Conosceva i modi per lavorarle e affilarle al meglio… sapeva persino come brandirle, nonostante suo padre e il Maestro Wendros sembrassero determinati a dissuaderlo dall’obiettivo. L’allenamento offerto alla Casa delle Armi era destinato ai giovani uomini della nobiltà, che andavano a imparare dai maestri di spada più esperti, fra cui l’abile e ineguagliabile Wendros. Devin doveva farlo da solo, esercitandosi con tutto, dalle spade, alle asce, alle lance, ai coltelli, infliggendo colpi ai manichini e sperando di far bene.
Un baccano vicino all’entrata della Casa rapì per un attimo l’attenzione di Devin. Le grandi porte metalliche di accesso si aprirono, bilanciate a regola d’arte per oscillare al minimo tocco. Il giovane uomo che le oltrepassò era senza dubbio nobile e, altrettanto senza dubbio, un poco ubriaco. Essere ubriachi era pericoloso all’interno della Casa delle Armi. Chi si recava ubriaco agli addestramenti, veniva mandato a casa e se lo faceva più di una volta, veniva respinto.
Persino ai clienti veniva mostrata la porta se non erano abbastanza sobri. Un uomo ubriaco munito di una lama era pericoloso, anche se non intenzionalmente. Quelli, però… indossavano colori di reali, ed essere qualcosa di diverso da educati significava rischiare più del mero lavoro.
“Ci servono delle armi,” disse quello davanti. Devin riconobbe il principe Rodry all’istante, grazie alle storie sul suo conto se non perché lo aveva già visto. “Abbiamo una battuta di caccia domani e potrebbe esserci anche un torneo dopo il matrimonio.”
Gund li raggiunse, perché era uno dei maestri della lavorazione del ferro lì dentro. Devin rimase concentrato sulla lama che stava forgiando, perché il minimo lapsus o errore poteva farvi entrare bolle d’aria che avrebbero formato delle crepe. Era motivo di orgoglio per lui che le sue creazioni non si rompessero, né frantumassero se battute.
Nonostante il metallo richiedesse tutta la sua attenzione, Devin non riusciva a distogliere gli occhi dai giovani nobili che erano andati lì. Sembravano suoi coetanei; ragazzi che cercavano di diventare amici del principe, piuttosto che Cavalieri dello Sperone al servizio di suo padre. Gund cominciò a mostrare loro lance e lame che avrebbero potuto fare al caso degli eserciti del re, ma loro le rifiutarono con un cenno rapido.
“Questi sono i figli del re!” disse uno del gruppo, indicando prima il principe Rodry e poi un altro uomo che Devin ipotizzò fosse il principe Vars, forse solo perché non sembrava abbastanza snello, cupo ed effeminato per essere il principe Greave. “Meritano qualcosa di più ricercato di questo.”
Gund iniziò a far vedere loro armi più sofisticate, con l’elsa dorata o con decorazioni sulla punta affilata. Mostrò loro persino alcune di quelle fabbricate dai maestri, con strati su strati dell’acciaio più raffinato, motivi ondulati incastonati in esse mediante il trattamento ad alta temperatura dell’argilla e punte che potevano fungere da rasoi qualora fosse servito.
“Troppo raffinate per loro,” mormorò Devin fra sé e sé. Prese la lama che stava forgiando e la esaminò; era pronta. La riscaldò un’altra volta, pronto a temprarla nella lunga vasca di olio scuro che era lì ad attenderla.
Poteva vedere dal modo in cui sollevavano le armi e le agitavano che la maggior parte di loro non aveva la minima idea di cosa stesse facendo. Forse il principe Rodry sì, ma in quel momento era dall’altra parte del primo piano della Casa, in cerca di una grande lancia con la lama a foglia, per farla vorticare con la destrezza derivante da una lunga pratica. Al contrario, i suoi accompagnatori sembravano giocare a fare i cavalieri piuttosto che esserlo davvero. Devin poteva scorgere la goffaggine in alcune delle loro movenze e il modo in cui la loro presa sulle armi era un poco imprecisa.
“Un uomo dovrebbe conoscere le armi che fa e usa,” disse Devin, mentre immergeva la lama che aveva fabbricato nella vasca di raffreddamento. Scoppiettò con una fiammata istantanea, poi fischiò mentre si intiepidiva lenta.
Si esercitava con le lame, in modo da sapere quando erano perfette per un guerriero esperto. Allenava l’equilibrio e la flessibilità, così come la forza, perché gli sembrava giusto che un uomo forgiasse se stesso con la stessa cura che riservava a una qualsiasi arma. Trovava difficili entrambi i processi; conoscere le cose era più semplice per lui, fabbricare utensili perfetti, comprendere il momento in cui…
Un fracasso da dove i nobili stavano giocando con le armi catturò la sua attenzione, e lo sguardo di Devin guizzò rapido, appena in tempo per vedere il principe Vars in piedi nel mezzo a una pila di armature collassate dal supporto. Stava fissando Nem, un altro dei ragazzi che lavoravano alla Casa delle Armi. Nem era amico di Devin da tanto tempo quanto fosse in grado di ricordare; era robusto e, a essere onesti, nutrito fin troppo bene; forse non era il più acuto di mente, ma aveva delle mani in grado di dare forma al più raffinato oggetto metallico. Il principe Vars lo spinse con la forza che Devin avrebbe potuto riversare su una porta bloccata.
“Stupido ragazzo!” scattò. “Non guardi dove metti i piedi?”
“Mi dispiace, mio signore,” disse Nem, “ma siete stato voi a essermi venuto addosso.”
A Devin si fermò il respiro a quell’affermazione, perché sapeva quanto fosse pericoloso rispondere a un qualsiasi nobile, tralasciando che in questo caso era ubriaco. Il principe Vars si raddrizzò in tutta la sua altezza e poi colpì Nem in pieno volto, abbastanza forte da farlo ruzzolare giù fra l’acciaio. Urlò e si tirò su con del sangue sul braccio, dove qualcosa di affilato lo aveva colpito.
“Come osi rispondermi?” chiese il principe. “Dico che mi sei venuto addosso e tu mi dai del bugiardo?”
Forse qualcun altro lì dentro avrebbe potuto scoprirsi arrabbiato e pronto a combattere ma, nonostante la sua stazza, Nem era sempre stato mite. Sembrava solo mortificato e perplesso.
Per un attimo, Devin esitò, guardandosi intorno per capire se qualcun altro sarebbe intervenuto. Nessuno al seguito del principe Rodry sembrava volersi immischiare, forse troppo preoccupati di insultare qualcuno così superiore a loro nonostante il ceto; magari alcuni di loro credevano anche che il loro amico si meritasse qualche percossa per qualsiasi cosa pensavano avesse fatto.
Quanto al principe Rodry, era ancora di sopra, dall’altra parte del piano della Casa, a testare la lancia. Se aveva sentito il trambusto nonostante il baccano dei martelli in azione e i soffi di quelle forge incessanti, non lo dava a vedere. Gund non sarebbe intervenuto, perché quel vecchio uomo non era sopravvissuto così a lungo nel mondo delle ferriere andando in giro a piantare grane.
Devin sapeva di dover fare altrettanto e stare sulle sue, anche quando vide il principe alzare di nuovo la mano.
“Non ti scusi?” chiese Vars.
“Non ho fatto niente!” insistette Nem, forse troppo sconvolto per ricordarsi come funzionasse il mondo, ma la verità era che non era molto brillante quando si trattava di cose di questo genere. Era ancora convinto che il mondo fosse retto, pensava che non fare torti a nessuno bastasse come scusa.
“Nessuno può parlarmi così,” disse il principe Vars e colpì Nem di nuovo. “Adesso ti inculcherò le buone maniere a suon di legnate e, quando avrò finito, mi ringrazierai per la lezione; e se sbagli il mio titolo mentre lo fai, ti metterò in testa anche quello con lo stesso metodo. O, no, iniziamo con una bella lezione.”
Devin era consapevole di non poter fare niente, perché lui non era giovane quanto Nem, e sapeva come andava il mondo. Se un principe di sangue ti pesta un piede, sei tu a doverti scusare con lui o a doverlo ringraziare per quel privilegio. Se vuole la tua opera migliore, gliela vendi, anche se sembra incapace di brandirla nel mondo corretto. Non interferisci, non intervieni, perché farlo implicherebbe delle conseguenze, per te e per la tua famiglia.
Devin aveva una famiglia, al di fuori delle mura della Casa delle Armi. Non voleva che venisse fatto loro del male perché era stato una testa calda e si era scordato le buone maniere; ma non voleva neanche restare lì fermo, a guardare un ragazzo mentre viene picchiato fino a perdere i sensi per i capricci di un principe ubriaco. La sua presa si strinse sul martello e Devin lo posò, cercando di convincersi a restarne fuori.
Poi il principe Vars afferrò Nem per una mano e gliela posò di forza in basso, su una delle incudini.
“Vediamo che bravo fabbro diventi con una mano rotta,” disse. Impugnò un martello e lo sollevò e, in quel momento, Devin capì cosa sarebbe successo se non avesse fatto niente. Il cuore gli ruggiva in petto.
Senza pensarci due volte, balzò in avanti e afferrò il principe per un braccio. Non fece deflettere il colpo di molto, ma bastò a fargli mancare la mano di Nem per approdare sul ferro dell’incudine.
Mantenne la presa, nel caso il principe tentasse un secondo colpo per spaccargli la faccia.
“Che cosa?” disse il principe Vars. “Toglimi le mani di dosso.”
Devin lottò per immobilizzargli la mano; così vicino a lui, poteva sentire l’odore dell’alcol nel suo respiro.
“Non se avete intenzione di attaccare il mio amico,” disse Devin.
Sapeva che il solo aver fermato il principe, lo aveva messo nei guai; ma era troppo tardi ormai.
“Nem non capisce, e non è stato lui ad avervi fatto rovesciare metà delle armature qui dentro. L’alcol è la vera causa.”
“Toglimi le mani di dosso, ho detto,” ripeté il principe, mentre faceva scivolare l’altra mano verso il coltello da tavola che portava alla cintura.
Devin lo spinse via da sé con più delicatezza possibile. Una parte di lui sperava ancora di poter giungere a una risoluzione pacifica, anche se sapeva benissimo cosa stava per succedere.
“Non volete farlo davvero, vostra altezza.”
Vars gli lanciò uno sguardo truce, respirando forte, con un’espressione di odio puro.
“Non sono io ad aver commesso un errore qui dentro, traditore,” ringhiò il principe Vars, con un tono che evocava la morte.
Vars posò il martello e sollevò una spada d’armi da uno dei banchi da lavoro, sebbene fosse ovvio a Devin che non fosse esperto nel manovrarla.
“Proprio così, sei un traditore. Attaccare un reale è alto tradimento e chi commette il fatto muore per questo.”
Agitò la spada verso Devin che, d’istinto, prese la prima cosa che trovò. Era un martello che aveva forgiato lui stesso e lo alzò per bloccare il colpo, facendone risuonare il ferro su quello della spada prima che lo prendesse dritto alla testa. L’impatto gli fece vibrare le mani e non c’era tempo per pensare adesso. Colpendo la lama con la testa del martello, la scaraventò via dalla presa del principe con tutta la sua forza, facendola sferragliare sul pavimento per unirla alla pila di armature che giacevano lì.
Si fermò a quel punto. Era arrabbiato che il principe potesse andare lì e percuoterlo in quel modo, ma Devin era una persona di pazienza: i metalli la richiedono; un uomo che cede alle smanie in una ferriera finisce per farsi del male.
“Lo avete visto?” urlò il principe Vars, puntandogli contro un indice che tremava per rabbia, o paura. “Mi ha colpito! Catturatelo. Voglio che venga rinchiuso nella cella più profonda del castello e la sua testa deve essere appesa a un palo al mattino.”
I giovani uomini attorno a lui sembravano riluttanti ad agire, ma era ovvio che non si sarebbero schierati con qualcuno di umili natali che affronta un principe, com’era Devin. La maggior parte teneva ancora in mano spade o lance che avevano brandito con movenze di dilettanti e ora Devin si ritrovava nel mezzo di un anello formato da tali armi, tutte puntate dritte al suo cuore.
“Non voglio problemi,” disse, non sapendo cos’altro fare. Abbandonò il martello che risuonò sul pavimento, perché sarebbe stato inutile in quella posizione. Cosa poteva fare, cercare di cavarsela contro così tanti? Nonostante sospettasse di saperci fare con le lame più di quegli uomini, erano troppi anche solo per fare un tentativo, e cosa sarebbe successo se ci avesse provato? Dove sarebbe potuto fuggire e cosa ne sarebbe stato della sua famiglia?
“Forse non serve neanche una cella,” disse il principe Vars. “Forse lo decapiterò qui, dove potete vedere. Fatelo mettere in ginocchio. In ginocchio, ho detto!” ripeté quando gli altri non lo fecero abbastanza in fretta.
Quattro di loro avanzarono e spinsero Devin a terra, mentre gli altri tenevano le loro armi puntate su di lui. Il principe Vars, nel frattempo, aveva impugnato di nuovo la spada. La sollevò, ovviamente testandone il peso e, in quel momento, Devin comprese che sarebbe morto. La paura prese il sopravvento su di lui, perché non riusciva a vedere una via d’uscita. Non importava quanto pensasse, non importava quanto fosse forte; le cose non sarebbero cambiate. Gli altri potevano non essere d’accordo con ciò che il principe era sul punto di fare, ma si sarebbero comunque attenuti ai suoi ordini. Sarebbero rimasti lì in piedi, a guardare il principe agitare quella spada e…
… e il mondo sembrò assopirsi in quel momento, un battito cardiaco che scemava nel successivo. In quell’istante, era come se potesse vedere ogni muscolo nel corpo del principe, insieme alle faville del pensiero che lo animavano. Era facile in quel momento raggiungerle e incanalarle a suo piacimento.
“Ahia! Il mio braccio!” gridò il principe Vars, con la spada che sferragliava contro il pavimento.
Devin fissò la scena, attonito. Cercava di dare un senso a ciò che aveva appena fatto.
Ed era terrorizzato da se stesso.
Il principe era in piedi lì, a stringersi forte il braccio, strofinandolo per riportarsi una qualche sensazione alle dita.
Devin non poteva fare altro che fissarlo. Era davvero riuscito a fare una cosa del genere? Come? Come poteva qualcuno far venire un crampo al braccio di un avversario solo con il pensiero?
Richiamò il sogno un’altra volta…
“Basta così,” urlò una voce, interrompendoli. “Lasciatelo andare.”
Il principe Rodry entrò nel cerchio d’armi e i giovani uomini fecero un inchino in risposta alla sua presenza, quasi tirando un sospiro di sollievo per il suo arrivo.
Devin di sicuro lo fece, tenendo ancora gli occhi sul principe Vars, e sull’arma che adesso teneva in quella mano impedita.
“Basta così, Vars,” disse Rodry. Si mise tra Devin e il principe e quest’ultimo esitò per un momento. Devin pensò che potesse far vorticare lo stesso la spada, noncurante della presenza del fratello, ma invece gettò la lama da una parte.
“Non volevo venire qui, comunque,” disse, e uscì in modo altero.
Il principe Rodry si rivolse a Devin, e non dovette neanche pronunciare una sola parola perché venisse rilasciato dagli uomini che lo tenevano.
“Sei stato coraggioso a difendere il ragazzo,” disse. Sollevò la lancia che teneva. “E hai fatto un buon lavoro. Mi è stato detto che questa è una delle tue.”
“Sì, vostra altezza,” rispose Devin. Non sapeva cosa pensare. Nel giro di qualche secondo, era passato da essere certo di morire a essere rilasciato, da essere ritenuto un traditore a ricevere degli elogi per il suo lavoro. Non aveva alcun senso ma, del resto, perché le cose avrebbero dovuto essere sensate in un mondo dove lui aveva appena usato… la magia?
Il principe Rodry annuì e poi si voltò per andarsene. “Fai più attenzione in futuro. Potrei non essere qui a salvarti la prossima volta.”
Ci vollero diversi secondi prima che Devin potesse decidersi ad alzarsi, riprendendo fiato con brevi raffiche. Rivolse lo sguardo verso Nem, che stava cercando di tenere chiusa la ferita sul suo braccio. Sembrava spaventato e scosso per ciò che era accaduto.
Il Vecchio Gund era lì adesso, stava afferrando il braccio di Nem per avvolgerlo con un panno. Guardò Devin.
“Dovevi proprio metterti in mezzo?” chiese.
“Non potevo permettergli di fare del male a Nem,” disse Devin. Era una cosa che avrebbe rifatto, centinaia di volte se ve ne fosse stato bisogno.
“La cosa peggiore che poteva ricevere era qualche botta,” disse Gund. “Ne abbiamo tutti passate di peggiori. Adesso… devi andartene.”
“Andarmene?” chiese Devin. “Per oggi?”
“Per oggi, e per tutti i giorni a seguire, stolto,” disse Gund. “Credi che possiamo permettere a un uomo che ha sfidato un principe di restare alla Casa delle Armi?”
Devin sentì il respiro abbandonargli il petto. Lasciare la Casa delle Armi? L’unica vera casa che avesse mai conosciuto?
“Ma non ho…” esordì Devin, ma si fermò.
Non era Nem, per credere che il mondo sarebbe andato come voleva solo perché era la cosa giusta. Era ovvio che Gund lo avrebbe cacciato; Devin sapeva prima di intervenire cosa poteva costargli.
Lo guardò e annuì, era tutto ciò che poteva fare in risposta; poi, si voltò e iniziò a camminare.
“Aspetta,” gridò Nem. Corse al suo banco da lavoro e poi si precipitò a raggiungerlo con qualcosa avvolto in un cencio. “Io… io non ho molto altro, ma mi hai salvato. Dovresti prenderlo tu.”
“L’ho fatto perché sono tuo amico,” replicò Devin. “Non devi darmi niente.”
“Voglio dartelo,” rispose Nem. “Se mi avesse colpito la mano, non avrei potuto fare nient’altro, quindi voglio che tu abbia qualcosa che ho fabbricato io.”
Passò l’oggetto a Devin, che lo prese con cura. Scartandolo, poté vedere che era… beh, non proprio una spada. Un lungo coltello, una coltella a due mani, giaceva lì, troppo lungo per essere un vero coltello ma non abbastanza da essere una spada. Era a un solo taglio, con un’elsa che sporgeva solo da un lato, e un punto cuneiforme. Era un’arma da contadino, da tempo rimossa dagli spadoni e dalle spade d’armi dei cavalieri; ma era leggera, letale e bellissima. Devin poteva vedere a colpo d’occhio, mentre la faceva ruotare e brillare alla luce, che poteva essere molto più svelta e fatale di qualsivoglia spada vera e propria. Era un’arma invisibile, subdola e veloce; era perfetta per la corporatura leggera e la giovane età di Devin.
“Non è finito,” disse Nem, “ma so che puoi terminarlo meglio di me e l’acciaio è buono, giuro.”
Devin la fece oscillare per testarla, sentendo la lama tagliare l’aria. Voleva dirgli che era troppo, che non poteva accettarlo, ma era evidente quanto Nem desiderava che lo prendesse.
“Grazie, Nem,” disse.
“Avete finito voi due?” disse Gund. Guardò Devin. “Non posso dire di non essere dispiaciuto di vederti andare via. Sei un gran lavoratore e uno dei fabbri migliori qui dentro, ma non puoi restare se questo ci si ritorce contro. Devi andartene, figliolo. Adesso.”
Devin voleva ribattere ancora, ma sapeva che era inutile e aveva appena realizzato di non voler più stare lì. Non voleva rimanere in un luogo dove non era desiderato. Quello non era mai stato il suo sogno. Quello era stato un modo per sopravvivere. Il suo sogno era sempre stato diventare un cavaliere, e adesso …
Adesso sembrava che i suoi sogni racchiudessero cose molto più strane. Doveva capire di cosa trattavano.
Il giorno in cui la tua vita cambierà per sempre.
Poteva essere questo ciò che intendeva lo stregone?
Devin non aveva scelta. Non poteva capovolgere le cose, non poteva tornare alla ferriera per rimettere tutto nel posto in cui doveva stare.
Al contrario, uscì nella città. Nel suo destino.
E nel giorno tanto atteso che aveva davanti.