Читать книгу Una notte fatale ovvero il racconto dell'esiliato - R. A. Porati - Страница 5

CAPITOLO III.

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Ahi, misero! t'han guasto e scolorito

Lascivia, ambizion, ira ed orgoglio

Che alla colpa ti fero il turpe invito!

MONTI.

Siamo a Porta Tosa precisamente nel palazzo del giovine conte Alberto

Sampieri.

È quasi mezzanotte.

In un'ampia stanza che serve nel tempo istesso di anticamera e di sala d'arme stanno raccolti intorno ad un tavolino quattro uomini che con un mazzo di carte ed un fiasco di vino passano il loro tempo giuocando e bevendo allegramente.

Vestono tutti la livrea e dalla sua uniformità si comprende come appartengano ad un medesimo padrone.

Sono i quattro servi di casa Sampieri.

Se si dovesse giudicarli dal volto non si potrebbe al certo dar di loro un giudizio lusinghiero; sebben giovani ancora portano scolpite in fronte le traccie del vizio, del disonore, del delitto.

Il maggiore di essi, conta all'incirca trent'anni.

È piccolo e robusto di corpo; una folta barba gli nasconde quasi tutto il volto, un volto da patibolo, due occhi neri pieni di malizia brillano sotto la fronte ampia, sede d'un ingegno svegliato al male e fecondo d'abominii.

Egli è Marco, il servo di confidenza del conte Sampieri e siccome avvi una misteriosa simpatia che lega fra loro i buoni quanto gli uomini cattivi, così Marco ama svisceratamente il suo padrone e n'è da lui riamato.

Superbo di tale affezione, come avviene quasi sempre nei servi prediletti, Marco vorrebbe sollevarsi un gradino dal livello degli altri suoi compagni di servizio ed arrogarsi diritti e privilegi di padrone, ciò che mal comportano questi; ma finiscono quasi sempre a chiudere un occhio visti gl'intimi accordi che esistono realmente fra Marco ed il conte.

Seduto dicontro a Marco e suo compagno di giuoco è un giovinetto i cui stivali che gli arrivano sin oltre il ginocchio, il frustino che costantemente gira fra le dita ed il bonetto ad ala tesa che di tempo in tempo si calca in testa, lo fanno il vero tipo del cocchiere.

Franz è inglese, e conoscendo mediocremente l'italiano, parla poco, sebbene di carattere allegro e sans souci.

Professa una specie di culto pei cavalli, è felice allorquando impalato sul ricco palafreno guida per le spaziose vie di Milano i suoi puledri puro sangue, ed è ancora più lieto quando solo nella scuderia può abbandonarsi con loro nell'idioma patrio in mille cordiali tenerezze.

Sono l'unico oggetto che gli rammentino la patria, e li ama come s'ama la patria.

Del resto, d'indole fredda come quasi tutti i suoi compaesani, Franz ha un'anima incapace al bene come pure al male; è una di quelle creature la cui vita è una landa sterile d'ogni utile germoglio, ma che non è per anco sbattuta da turbinose tempeste.

Colla massima indifferenza canticchiando l'usato ritornello inglese, egli avrebbe condotto il suo padrone tanto ad una semplice passeggiata lungo il corso, quanto al ratto d'una vergine, tanto in chiesa che al lupanare; sordo ad ogni voce di coscienza, egli fa il suo mestiere; riprovevole apatia che pur troppo si riscontra sovente nel cuore dell'uomo.

Gli altri due, Tonio e Piero, giovani poco più che ventenni e capaci d'ogni vilissima azione, trovano alloggio e nutrimento presso il conte Sampieri, servendolo in ogni suo delittuoso capriccio.

—Quà i bicchieri, vuotiamone un altro gotto, indi alla rivincita, disse Marco afferrando l'ampio fiasco che s'ergeva maestoso in mezzo alla tavola; animo, Franz, son due partite di seguito che perdiamo stassera; e che! ci lasceremo noi forse soperchiare da due sbarbatelli che mi farei ballare in sulle dita come il saltimbanco fa ballare le marionette? Franz, la nostra fortuna è in fondo a questo fiasco; suvvia adunque, peschiamola colle labbra.

E portatosi il colmo bicchiere alla bocca, lo vuotò d'un fiato.

L'esempio fu seguito da tutti.

—Ah yes! altro bicchiere, gridò l'inglese facendo scoppiettare il suo frustino, altro ancora, eppoi vincere.

—Vèh, vèh, l'inglese s'infiamma! osservò Piero con un po' d'ironia.

—To', è vero, aggiunse Tonio.

—Yes! e perchè non m'infiammare? Non avere forse puledro inglese più nobile sangue che non italiano? Non valere cavallo inglese tre volte cavallo italiano?

—Guarda Franz, disse Marco ridendo, che te la lascio passare perchè hai avuta la prudenza di limitare il confronto ai soli cavalli delle due razze, ma se mi facevi una questione d'uomini, t'avrei provato che avevi torto.

—Ah, io non conoscere che vostri cavalli, uomini non ancora.

—Sta sempre a te se vuoi farne la conoscenza, notò Piero con malizia.

—Ed io la fare molto volontieri, anche subito; e Franz balzava in piedi scoppiettando bruscamente il suo frustino.

Piero, giovinetto molto ardito, d'un salto fu davanti all'inglese e si preparava a rispondere alla sfida, se non che la voce amorevole di Marco tuonò:

—Ma sì, fatemi delle scene adesso; diavolo, che non si sappia reggere ad uno scherzo? Giù, Franz, al tuo posto; io non voglio andar a dormire col peso di due partite in sulle spalle; qua il mazzo adunque e giuochiamo.

—È vero, brontolò l'inglese tornandosi a sedere, non perdiamo tempo inutilmente.

—Già, perchè a momenti tornerà il padrone, aggiunse Tonio.

—Oh, per questo, disse Marco, possiamo star certi che il padrone non lo vedremo tanto presto. Oggi è sabato, ed in questo giorno le sartine sogliono guadagnarsi di notte le ore di riposo dell'indomani, e fra il padrone e le sartine corrono adesso certi rapporti…

—Ah sì?…

—Tien dietro forse ad una di loro?

—E che bella tosa, aggiunse Marco.

—Ecco un'avventura che il padrone incomincierà, e che noi come al solito dovremo terminare.

—Sicuro, lui fiuta la preda, a noi acchiapparla e mettergliela nel carniere.

—Diventate conti e milionari, eppoi farete lo stesso.

—Bravo Marco, hai ragione.

—Scommetto che tutto finire come altre volte con un viaggio a Magenta, osservò Franz; miei cavalli oramai sapere a memoria la strada.

—Tanto meglio, la faranno più in fretta.

A por fine a questa enigmatica conversazione si fece sentire il passo d'un uomo salire lentamente lo scalone. Tutti tesero attenti l'orecchio.

—È lui, esclamarono in coro i quattro servi, e balzarono in piedi.

—Va adagio, brutto segno, congetturò Marco accendendo un lume.

Infatti poco dopo entrò il conte Sampieri e girando attorno uno sguardo bieco senza neppur curarsi degli ossequiosi inchini dei suoi servi s'internò negli appartamenti.

Marco lo seguì.

Arrivato il conte nel suo salotto si gettò senza profferire parola sur una sedia ed appoggiati i gomiti alle ginocchia si nascose il volto nelle mani.

Marco si fermò rispettosamente davanti al conte aspettando i suoi ordini.

Passò qualche minuto, alla fine Marco vedendo che il padrone non sembrava accorgersi di lui, non osando parlare pel primo sapendo quanto veemente ed impetuoso egli fosse, si pose a passeggiare per la camera movendo or questo or quell'altro mobile, fingendo porli in assetto, ma in sostanza al puro scopo di far un po' di rumore.

Infatti Sampieri alzò la fronte; vi si scorgeva impresse le traccie d'una lotta crudele combattuta internamente.

—Che fai Marco, gridò dispettoso, ritirati e non mi seccare più oltre.

—Signor conte, belò umile il servo…

—Vattene in tua malora, urlò Sampieri.

—Gli è…

—E che, non obbedisci? bada Marco…—I suoi occhi scintillavano di rabbia.

—Ebbene me ne vado, lo lascerò solo…—Ed il servo mosse verso la porta.

Il conte lo accompagnava con lo sguardo ed allorquando lo vide uscire quasi pentitosi del suo piglio troppo severo:

—Marco! chiamò con voce più dolce.

Il servo rientrò.

—Dove vai adesso?

—A dormire, signor conte, non me n'ha ella data licenza?

—E mi abbandoni qui soletto come un cane mentre ne ho tanto bisogno di compagnia?

Il conte sembrava commosso.

—Ma non è forse quello ch'io bramo di rimanere con lei? Oh ma senta, signor padrone, proruppe il servo con espressione assai risoluta, se è una vendetta incompiuta, un odio non soddisfatto, un insulto patito, quello che lo rende così triste, si ricordi ch'io sono sempre pronto a farmi fare in mille pezzi per lei, comandi, io non verrei meno di fronte a qualsiasi pericolo, fossa anche di provare al boia che so fare il suo mestiere.

—Lo credo, Marco, esclamò il conte rabbonito, tu mi sei affezionato e fedele, lo credo, ma ora non mi puoi far nulla. Ho l'inferno nel cuore, la confusione nella testa, sono malato.

—Ma di una malattia non incurabile signor conte: disse Marco moderando la voce, penso io a guarirla. Lei ha bisogno di cambiare un po' d'aria, d'abbandonare per esempio Milano e fare una gita al suo castello di Magenta. L'aria di quel paese gli ha sempre fatto bene lo neghi se lo può, gli ha sempre portata la salute in mezzo ad un nembo di gioie, di voluttuosi piaceri… Magenta, ecco la ricetta infallibile.

Il conte alzò gli occhi ed incontrò lo sguardo di Marco.

Servo e padrone si compresero pienamente, un sorriso malizioso sfiorava le loro labbra.

—E bisognerà risolversi a questa gita, proruppe Sampieri, non ci sono vie di mezzo, sono stanco io di sopportare più oltre questi ardori veementi, questi desideri di fuoco che mi tormentano giorno e notte e che mi fanno imbecillire. Figurati, stassera le parola d'una donna mi spaventarono, mi ammutolirono confuso.

—Forse una gran dama?

—Bah, una semplice femminetta.

—È la sartina, pensò Marco.—Ch'ella ama forse?

—Che io amo da impazzire, esclamò il conte; oh ma dev'essere mia ad ogni costo. Senti Marco io ti ho sempre tenuto in conto d'uomo destro e coraggioso, di uomo che tutto può ciò che vuole, ora tocca a te non mentirmi.

—Eccomi quà tutto orecchi, signor conte, parli pure liberamente e più l'avventura è arrischiata più mi ci metto con gusto. Era appunto un po' di tempo che mi lasciava in riposo ed io non son nato per dormire tutto il giorno in un'anticamera, io; mi piace la vita attiva, nei pericoli, nell'imprese azzardose, fra nemici, fra le risse, in mezzo ai pugnali, là perdio è il mio posto. Un misfatto più o meno non è quello oramai che mi manda all'inferno lo stesso.

—Bravo Marco ed a cosa finita tu sai ch'io non sono spilorcio. Dammi ascolto adunque. Son circa quindici giorni ch'io tento invano d'affezionarmi una fanciulla che incontrai per la prima volta nella via di San Paolo.

—Lo so, disse Marco.

—In che modo? gli chiese il conte sorridendo.

—Una sera lo vidi passeggiare a piccoli passi davanti ad un certo magazzeno di mode. In quel mentre vi usciva schiamazzando una turba di giovinette e senza aver l'intenzione di spiarlo lo sorpresi nell'atto d'offrire il braccio alla più bella, alla più degna di lei.

—Ebbene, riprese Sampieri, son quindici giorni ch'io l'avvicino ma che getto il mio tempo inutilmente. Più che ritrosa ell'è ostinata e non sa d'altro parlarmi che di doveri, d'onore… che so io, pregiudizi da femminetta. Stassera mi disse chiaro e netto ch'io cessassi dall'inseguirla o che non si sarebbe più mossa di casa. Ed io l'amo, sento di non poter vivere senza di lei… ma l'avrò, tu me ne sei mallevadore Marco, e guai s'io mal ripongo la mia fiducia. Ti do otto giorni; Sabato venturo mi reco a Magenta, ella ritornerà dal magazzino a mezzanotte, due ore dopo voglio averla nelle mie braccia, m'intendi?

—Perfettamente, rispose Marco sottovoce e girando attorno gli occhi sospettoso come tutti coloro che tramano un delitto; a mezzanotte quella via è affatto deserta, muta, e tenebrosa; io faccio appostare una carrozza e mi ci acquatto dentro; Tonio e Piero attendono la bella al varco, ella giunge ed in men che non lo pensa con la bocca imbavagliata l'accomodo in vettura e le uso la cortesia di condurla in campagna. Oh, è un affare semplicissimo e non dev'essere il primo ch'io conduco a buon fine… se non isbaglio.

—È vero.

—Ed ai parenti mo', ci ha ella pensato?

—È sola con suo padre; questi è vecchio e povero ci chiuderemo la bocca con una manciata d'oro. D'altronde non lo vogliamo privare per sempre della sua cara figliuola. Gli dirai che stanca dal lavoro ha voluto recarsi un po' a diporto, che si trova in un luogo ove non le manca nulla, che vive da signora e che fa conto anzi d'inviargli settimanalmente il frutto de' suoi risparmi che sorpasserà al certo i tenui guadagni del magazzeno. Anche questo è affar tuo, penserai ad accomodarla col vecchio a quei patti ch'egli vuole. Sopra tutto non profferire il mio nome, ne indicare il mio castello.

—Eh, sono una volpe vecchia io, ed ho un'abilità speciale nel piantar carote in terreno altrui. Ma—quì Marco abbassò ancora più la voce—e se il padre s'incaponisse e mi mettesse di mezzo la polizia? Capirà bene una fanciulla sparita merita che se ne occupi e questi demoni di tedeschi, che ci venga a tutti il malanno, hanno le braccia lunghe, saprebbero scoprire l'ovile ove sta rinchiusa la pecorella. E lei deve ancora il saldo di certe vecchie partite…

—La polizia tedesca, Marco, io la sfido; d'altronde ella è più venale d'una femmina da partito e sebbene abbi dei motivi di odiare la mia famiglia, odio che in fin dei conti mi fa molto onore, sono ricco abbastanza per comperare i di lei favori. Ciò non toglie che tu debba comporla amichevolmente col vecchio.

—Farò del mio meglio. Ora a lei a farmi conoscere la fanciulla.

—Ecco, rispose il conte un po' imbarazzato, il suo vero nome l'ignoro, vien chiamata da tutti biondina ed abita sul corso di Porta Nuova. Suo padre è il portinaio di quel bel palazzo vicino ai portoni… dopo la bettola all'insegna dell'Aquila.

—Che! proruppe Marco, ha detto la biondina di Porta Nuova? Oh guardi la combinazione!

—La conosci forse, rispondi, sai qualche cosa sul di lei conto?

—Altro che sapere, nientemeno che stiamo per cogliere due piccioni ad una fava.

—Non t'intendo, suvvia spiegati, disse Sampieri impazientito.

—Si tratta di far restare con tanto di naso un piccolo bellimbusto tedesco che mena tanto ruzzo perchè veste la divisa d'ufficiale.

—In che modo?

—Ecco quà, incominciò Marco assumendo una cert'aria d'importanza: la bettola all'insegna dell'Aquila a Porta Nuova è l'unico sito ch'io conosca in Milano ove se ne possa bere un boccale di quel buono e per questo, allorquando i miei doveri lo permettono, mi compiaccio passarvi qualche oretta giuocando una partita con mastro Andrea il degnissimo oste.

«Uno dei più fedeli frequentatori della bettola è un buon diavolo di croato che questi ladri tedeschi ci hanno menato giù da quelle parti dove usano farla da padroni come qui da noi.

«Parla abbastanza bene l'italiano e non essendo totalmente sciocco scambio con lui volontieri qualche ciarla, anzi mi tien luogo di mastro Andrea nella solita partita, allorquando questi è occupato altrove.

«Un giorno, era domenica mi ricordo bene, e la bettola piena, zeppa di gente.

«Io ci entro, do un'occhiata intorno e non trovo neppure un amico, tranne il mio croato che soletto in un canto trinca la sua caraffa.

«Piuttosto che rimanermi solo mi reco da lui. Bisognava che in quel giorno ne avesse bevuto qualche bicchiere più del consueto poichè non l'ho mai trovato così aperto e voglioso di far confidenze.

«—Oggi esser festa per me, mi dice tutto contento.

«—Lo credo, rispondo io, oggi è domenica per tutti.

«—Mia patrona, riprende lui, afermi tonata pel recalo e lasciala in libertà tutta giornata; oggi essere il suo… nomo… nomo… come dite foi… ah, suo nomastico.

«Povero diavolo si spiega come può.

«—Ma come avviene che tu abbi un padrone, gli domando io.

«Egli allora mi racconta essere lo staffiere d'un officiale polacco ed abitare il palazzo dirimpetto all'osteria.

«—Oh bella, non sapevo, dico io; e così come ti trovi col tuo padrone, non ti mancheranno certo bastonate, eh?

«—Mia patrona non esser catifo, mi risponde il croato, esser stata sempre pona con me, ma atesso che star innamorata difenire un po' pricante.

«—Ah, il tuo padrone è innamorato? diavolo, bisogna che la sua bella non sia troppo del suo parere se l'amore gli fa passare dei brutti quarti d'ora.

«Il croato parve d'un tratto pentirsi d'aver condotta la conversazione su questo punto e tentò deviarla; io allora insisto. Finalmente dopo d'averne ingollati ancora un paio di bicchieri egli mi spiffera tutto quanto sa sul conto del suo padrone.

«Ed è questo.

«Una mattina l'ufficiale vide la biondina recarsi al magazzeno; bisogna che quella fanciulla sia ben leggiadra di volto e di forme, poichè il polacco, come lei signor conte, se ne invaghì.

«Da quel giorno la bionda non mosse passo fuor di casa senza trovarsi al fianco la figura attillata del giovine ufficiale che la seguiva dovunque, tentando ogni mezzo per vincere quella ritrosia più o meno comune a tutte le donne.

«Non ci fu verso; la bionda che ora incomincio a credere un portento di virtù non fece mai mostra d'accorgersi di nulla, finchè lui vedendo che non era carne per i suoi denti abbandonò l'idea di sedurla, non certo io credo, la brama di possederla.

«S'immagini adunque come dovrà restare il nostro polacco allorquando saprà che quel fiore ch'egli non seppe cogliere ornò il petto d'un altro più felice mortale, lasciandovi tutti i tesori de' suoi olezzanti profumi.»

—Sta bene, esclamò il conte con soddisfazione; gli proveremo che le nostre donne le sappiamo tener per noi.

—E che volere è potere.

—Adunque la cosa è combinata, proseguì Sampieri col tuono di chi non ammette repliche. Sabato alle due di notte la fanciulla nel mio castello di Magenta, qualunque sieno i mezzi, anche i meno prudenti. Guai s'io dovessi attenderla invano….

E gli occhi del conte ebbero un lampo terribile.

—Per tutti i diavoli dell'inferno, signor padrone, ella sarà ubbidito, o ch'io non son più Marco.

Una notte fatale ovvero il racconto dell'esiliato

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