Читать книгу Sotto La Luna Del Satiro - Rebekah Lewis - Страница 10

Capitolo tre

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Non tutte le donne soccombevano al canto da satiro di Ariston, il che andava bene. Non gliene importava molto, dal momento che non erano altro che facce senza nomi, corpi disponibili per alleviare il suo desiderio e rendere l’eternità un po’ più piacevole per qualche settimana. Se non avesse fatto sesso con delle donne a caso, il dolore dell’eccitazione lo avrebbe costretto a trasformarsi di nuovo in quella creatura irrazionale con una sola cosa in mente. Ariston non voleva assolutamente sperimentare di nuovo quell’orribile e doloroso bisogno al massimo della sua intensità.

La maggior parte delle donne si arrendeva alla sua melodia. La canzone fungeva da richiamo, ma le donne potevano scegliere, come pesci di fronte a un amo con esca. Se avessero desiderato il premio abbastanza da correre il rischio, avrebbero abboccato. Se invece fossero state spaventate da quanto offerto, lo avrebbero evitato. Ariston poteva dare loro qualcosa che molte avrebbero avuto paura di chiedere: del sesso privo di sensi di colpa con un immortale, il cui ricordo sarebbe parso solo come un sogno. Potevano ritornare alle loro vite e ai loro innamorati come se niente fosse successo. Nessun legame. Nessun rimpianto.

Solo che un rimpianto c’era – Ariston provava rimorso per ogni subdolo metodo usato per fare sesso, ma tale era la vita dei satiri. Non poteva certo instaurare una relazione con una donna e aspettarsi che questa non desse di matto, quando dopo un appuntamento gli fossero spuntate le corna e avesse iniziato a zoccolare per la camera da letto come il diavolo in persona, con i suoi zoccoli fessi. No, giusto o sbagliato che fosse, aveva smesso da tempo di preoccuparsene, dopo aver rinunciato alla speranza di poter cambiare il proprio destino.

La speranza non era che una fantasia. Spingeva le persone a credere che ci fosse una possibilità, una cura. Salvezza. Ma c’era un limite ai decenni, ai secoli persino, che uno poteva attraversare prima che la speranza diventasse un mito. Le ninfe erano tutte scomparse, nonostante la promessa fattagli da Dafne tantissimi anni prima. Ariston aveva vagato per il mondo intero, lo aveva percorso tutto almeno venti volte. Non c’era salvezza per lui.

Aveva intrapreso la strada della solitudine, ricorrendo alla magia del suo flauto di Pan per ottenere, al bisogno, della compagnia femminile. Gli arcadici, quando ancora non conoscevano l’incantesimo che li faceva apparire umani durante il giorno, avevano imparato a usare il canto per ingannare le donne e far vedere loro quello che volevano, quando li guardavano. Non era infallibile e non tutte le donne si gettavano fra le loro braccia. Alcune restavano fedeli ai loro mariti e altre si rifiutavano di cedere ai propri desideri. Tuttavia, alcune lo facevano, risparmiando ad Ariston molti fastidi. Permettendogli di non diventare ciò in cui la maledizione avrebbe voluto trasformarlo – ciò che si rifiutava di diventare.

Una donna bionda emerse dalla foresta e Ariston si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, nonostante il contraddittorio nodo allo stomaco. Sebbene non avesse assunto sembianze umane, la bionda vide solo ciò che desiderava vedere. Se lo stava vendendo in forma di satiro e gli si avvicinava comunque, beh, a ognuno le sue perversioni.

La bionda si spogliò, sorridendo.

Ariston ripose il flauto di Pan nella fondina che aveva creato appositamente e lo mise sopra l’uniforme da ranger, che aveva ripiegato e lasciato vicino all’albero quando si era spogliato. Aveva resistito per poco più di tre settimane questa volta, ma più si avvicinava l’eclissi, più la sua agitazione cresceva. Avrebbe fatto tutto meccanicamente, come sempre – darle piacere, prendersi il suo e rispedirla alla sua tenda. Ariston riceveva poco da queste esperienze, a parte una breve sensazione di appagamento e la consapevolezza che non sarebbe stato un pericolo, finché avesse fatto sesso di nuovo in un paio di settimane. Se avesse aspettato di più la maledizione avrebbe iniziato a offuscare il suo giudizio, fino a fargli perdere il controllo.

Prima che Ariston potesse soffermarsi sulla sua mancanza di entusiasmo, la bionda fu sotto di lui, eppure non provò alcun desiderio di godersi il suo tempo insieme a lei. Non lo stava facendo per divertimento, ma per necessità. Lo nauseava. Il suo corpo iniziò a tremare, prova che il suo autocontrollo stava per esaurirsi. Voleva spingere via la donna. Per gli dèi, cosa c’è che non va in me? Non posso resistere più a lungo? Ariston era abbastanza convinto che sarebbe stato più brutale del solito e, non volendole fare del male, si tuffò tra le sue cosce per prepararla, soffocando un’imprecazione.

Crack!

Nonostante gli esuberanti gemiti della donna, l’interruzione riuscì a uccidere definitivamente quel poco di interesse che Ariston era riuscito a raccogliere per portare a termine l’atto. Cercando di ignorare le mani troppo impazienti che gli tiravano i capelli, si concentrò su ciò che lo circondava. Se ci fosse stato qualcun altro nell’area, Ariston avrebbe potuto essere scoperto. Il suo sguardo corse verso il flauto di Pan e calcolò quanto tempo gli ci sarebbe voluto per raggiungerlo e per suonare la melodia che avrebbe prodotto l’illusione di un aspetto umano. Se lo avessero scoperto, avrebbe perso la sua casa. Gli piaceva la vecchia baita della guardia forestale dove si era stabilito e non era ancora pronto per andarsene. Era difficile per un satiro trovare un rifugio sicuro in questa nuova epoca.

Ariston si passò una mano sulla bocca e strizzò gli occhi, continuando a scandagliare l’area da cui era giunto il suono. Eccola là! Alta e snella, con i capelli marrone scuro, forse persino neri, tirati indietro dal viso e dalle spalle. Lo stava fissando con gli occhi spalancati.

«Perché ti sei fermato», si lamentò Biondina, tirandosi su e infilando una mano tra loro per afferrargli il pene. Ariston la ascoltò appena e le allontanò la mano. Il suo desiderio si era risvegliato durante la gara di sguardi con il suo pubblico, ma non voleva le mani di Biondina su di sé. La mora aveva dirottato la sua attenzione e a mettere le mani su di lui sarebbe stata solo lei. Stranamente, tutta la rabbia che aveva nutrito mentre era solo con Biondina svanì. Voleva davvero la nuova ragazza. Il bisogno era lì, come sempre, ma la desiderava. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che avesse desiderato spontaneamente di giacere con una donna, dato che la mancanza di scelta tendeva a rovinare per lui l’intero atto.

Chiuse gli occhi e prese a immaginare la scena. A breve la nuova ragazza si sarebbe addentrata nella radura e li avrebbe raggiunti. Ariston avrebbe suonato una breve melodia per scacciare Biondina, rimuovendola dall’equazione, e poi si sarebbe concentrato solo su Moretta. Si sarebbe preso il suo tempo con lei, estorcendole fino all’ultima goccia di piacere e forse finalmente, finalmente, avrebbe apprezzato di nuovo il sesso. La ragazza sembrava avere bisogno di una bella e forte s—

Ariston aprì gli occhi e vide Moretta voltarsi e fuggire come una cerva spaventata.

«Cazzo!»

«Sì, ti prego!» Biondina allungò le braccia e fece un gesto con le mani, come a dire “dammelo”. Seriamente? Ariston non aveva tempo di occuparsi di lei in modo adeguato. Moretta poteva aver scattato delle foto ed essere sul punto di inviarle a qualche fonte di notizie, mentre lui se ne stava lì seduto come uno stupido, sotto shock. L’avvistamento di un satiro da parte di un mortale avrebbe scatenato il panico e potevano esserci altre persone insieme a lei.

Il sesso poteva aspettare. Moretta andava fermata, prima che rivelasse ciò che aveva visto. Ovviamente, dopo averla colta con le mani nel sacco, avrebbe dovuto punirla per averlo spiato. Saltò in piedi, apprezzando il piano e corse a recuperare il flauto di Pan, in caso gli fosse servito. Biondina mise il broncio e lo imitò, alzandosi a sua volta. Cazzo. Mi ero già dimenticato di lei.

«Ehm… non hai finito.» Che vocina arrogante per una ragazza così carina. Piena di altezzosa presunzione e segno di un’infanzia viziata. Ad Ariston non piacevano le donne come lei. Non sembravano mai contente, persino quando le soddisfaceva.

«Lascia che ti suoni una canzone. Creerà l’atmosfera.» Ariston forzò un sorriso e nel frattempo fece scivolare lo strumento fuori dalla fondina e lo portò alle labbra.

«Sono già dell’umore. Ero così vicina quando hai deciso di fermarti. Così. Vicina. È semplicemente da maleducati tirarsi indietro ora!»

Ignorandola, Ariston soffiò lungo le canne. Quando la melodia per rimpiazzare la realtà con un ricordo onirico fece presa su di lei, si sentì sollevato. Gli occhi di Biondina si fecero vitrei, iniziò a raccogliere i propri abiti e si vestì velocemente, farfugliando oscenità che oscillavano fra l’insulto e il desiderio che accadessero cose sgradevoli ai suoi genitali. Si allontanò per fare ritorno alla sua tenda, ovunque fosse. Auspicabilmente, l’incantesimo sarebbe durato. Ariston non aveva tempo di farle da babysitter per assicurarsene. Sentendosi leggermente in colpa per non averla fatta venire, suonò un paio di altre note veloci… e Biondina vacillò con un gemito. Buon per lei.

È il momento della caccia. Con un gran sorriso, Ariston voltò le spalle a Biondina, augurandole silenziosamente un buon viaggio. Moretta non lo sapeva ancora, ma era una delle cose più interessanti che gli fossero successe da anni. Legò la fondina su una spalla e di traverso sul petto, come se volesse nascondere una pistola, e assicurò il flauto di Pan all’interno. Per i vestiti sarebbe potuto tornare più tardi, perché indossarli gli avrebbe fatto perdere altri secondi preziosi.

Ariston se ne pentì subito dopo essere partito all’inseguimento, rendendosi conto che la sua nudità avrebbe reso Moretta più guardinga, una volta che l’avesse raggiunta. Erano finiti i tempi in cui un satiro nudo sarebbe stato, beh, sorprendente, ma prevedibile. Sarebbe parso non solo come un mostro, ma anche come un pervertito della peggior specie. Lo aveva spiato in assenza dell’incantesimo che gli conferiva un aspetto umano, dunque alterare le sue sembianze non sembrava una priorità. C’erano dettagli più importanti su cui concentrarsi. Come aveva fatto a trovarlo senza seguire la sua canzone fino alla radura e fra le sue braccia – o lo aveva fatto? C’è solo un modo per scoprirlo.

Le sue tracce si rivelarono facili da seguire. Moretta non gli stava certo rendendo le cose difficili con quelle vistose orme nel fango umido. Si era lasciata l’attrezzatura da campeggio alle spalle, il che lo fece esitare. È sola?

Scosse la testa e ridacchiò. Non sarebbe stata sola a lungo. Ariston avrebbe messo presto le sue mani su di lei. Ne era quasi deluso. Quasi. Forse l’ebbrezza di giocare al gatto e al topo era ciò che gli serviva per sedare il suo desiderio. Anche se, una volta che avesse catturato Moretta…

Il rumore di respiri affannati lo fece rallentare. Scostò con delicatezza le lunghe foglie di una felce selvatica e le sue narici si spalancarono in trionfo. Dietro l’angolo, Moretta era piegata in due, con le mani sulle ginocchia, cercando di riprendersi dalla corsa. Sciocca femmina. Da dietro il fogliame, Ariston si concesse di esaminare accuratamente la sua preda. I suoi capelli scuri erano raccolti in una treccia che le arrivava a metà schiena e la sua t-shirt bianca avvolgeva un seno di medie dimensioni. La sua vita sottile si allargava in fianchi ben scolpiti e un sedere stupendo e le sue gambe toniche ostentavano la loro perfezione da sotto l’orlo di un paio di pantaloncini kaki. Ariston sarebbe potuto rimanere ore a fantasticare su cosa avrebbe trovato rimuovendo quegli strati; invece, fece la sua mossa.

Quando entrò nel suo campo visivo, Moretta sussultò. Poi, con gli occhi spalancati, lo fissò spudoratamente, fino a che il suo sguardo atterrò finalmente sui suoi piedi. Ad Ariston sembrò di scorgere sul suo viso un breve lampo di trionfo. Sorrise, mettendo in mostra dei perfetti denti bianchi. Poi il sorrisetto si trasformò in una smorfia. La ragazza sbatté le palpebre e scosse la testa. Quando incontrò di nuovo lo sguardo di Ariston, la paura era ancora là.

«Oh, mio Dio. Oh, mio Dio. Sto avendo le allucinazioni, probabilmente ho la febbre e ho bisogno di uscire da qui, subito.» Annuì dicendo l’ultima parola, come a finalizzare il suo balbettio, confermando una discussione interiore di qualche tipo.

«Non credo che tu stia soffrendo di alcuna malattia. Puoi continuare a fissarmi per tutto il tempo che vuoi. Anche se preferirei che guardassi un po’ più in alto dei miei piedi.» Decisamente più impressionante, quello. Perlomeno, nessuno se ne era mai lamentato prima.

La donna fece un suono sprezzante in fondo alla gola. «Per favore, dimmi che sei un qualche fan di D&D in un costume fatto veramente bene e che non vuoi farmi del male. Inoltre, se hai un cellulare, ti sarei grata se non prendessi il mio commento precedente sul personale e me lo prestassi per un momento.» Ah, bene, questo risolveva una delle sue preoccupazioni; senza un telefonino non poteva aver inviato delle prove o contattato qualcuno per raccontare ciò che aveva visto. A meno che non avesse una macchina fotografica nascosta da qualche parte. Dovrei perquisirla per scoprirlo.

Incrociò le braccia. «Non è un costume.» Ariston strinse gli occhi, colpito da un pensiero. «Non ho sentito la tua attrazione per la mia canzone, come è successo invece per la bionda. Sei un essere magico? Una divinità? Una semidea?» Era vicino a scoprire qualcosa, ma non sapeva esattamente cosa. Era stata lei a causare lo strano temporale della notte precedente? Non c’era stato alcun segnale di pioggia, eppure aveva piovuto. Aveva persino grandinato.

«Giusto… Forse dovresti darmi quel telefono che ho menzionato prima. Penso che potrebbe portare aiuto per entrambi.»

«Non ho con me un cellulare. Dove potrei metterlo? Tra i peli della mia gamba?» Alzò uno zoccolo e lo sventolò in senso antiorario.

Gli occhi di Moretta si spalancarono di nuovo. Perché tutti si agitavano per gli zoccoli, ma non per le corna? Quelle di solito scatenavano delle scrollate di spalle, seguite da qualche battuta. Quasi temessero che iniziasse a fare il verso della capra e a masticare bottoni. L’unica parte davvero importante della sua anatomia gravava pesantemente tra le sue gambe ed era tanto umana quanto quella di qualsiasi mortale. Anche se gli piaceva pensare di essere più dotato.

«Nella tua, ehm, fondina?» La mora indicò il suo flauto di Pan.

«Che cosa?» chiese Ariston.

«Hai chiesto dove avresti potuto mettere il telefonino. C’è una ampia tasca in quella tua specie di borsetta.» La donna si mordicchiò il carnoso labbro inferiore, un’azione che accese un fuoco all’altezza del suo inguine.

«Non è una borsetta. Come puoi anche solo pensarlo? È molto maschile.»

«Sì, sì. Certo.»

«Lo è.» La fitta di desiderio si affievolì quando notò la benda macchiata di sangue, stretta attorno al palmo della sua mano. «Come ti sei ferita?»

Ariston fece inconsciamente un passo verso di lei. Aveva delle scorte mediche nella sua baita. Pur guarendo a una velocità fenomenale, il suo sangue faceva comunque un casino quando scorreva dalla parte sbagliata della sua pelle. Avrebbe potuto ricucirla in un lampo.

La donna si guardò il palmo, quasi sorpresa di vedervi la benda. Poi scosse la testa e disse: «Sì, questa è decisamente la conversazione più strana di sempre. Mi dispiace, ma… devo scappare». Schizzò via nella direzione opposta. Mentre fuggiva, pungenti gocce d’acqua iniziarono a bombardargli la pelle. Doveva essere Moretta a manipolare la pioggia, ma come? Che cos’era? Qualunque cosa fosse, doveva essere in qualche modo collegata alle sue emozioni e lo portò a chiedersi che cosa fosse accaduto per provocare il furioso assalto degli elementi della notte precedente.

Ariston si risvegliò dal suo torpore e la inseguì. «Ehi, non così veloce!» Un pensiero iniziò a mettere radici nella sua mente. Era già entusiasta di lei prima, ma se avesse avuto ragione… Per gli dèi, non poteva lasciarsela scappare. Non se ci fosse stata una possibilità.

Moretta possedeva una natura magica, influenzava gli elementi. Il tempismo era troppo buono per essere vero. Ariston era in cerca di una come lei da quando era diventato un satiro e se si fosse rivelata davvero una ninfa, sarebbe stata la sua salvezza. Sfortunatamente, la sua salvatrice continuava a mettere distanza fra di loro. Poteva anche avere un vantaggio nella pioggia, ma lui conosceva bene la foresta. L’avrebbe catturata, come nelle antiche leggende e sarebbe stata sua. Mia!

Si era rivelata a lui. Magari non di proposito, ma lo aveva fatto. Tutto ciò di cui aveva bisogno era che Moretta lo desiderasse abbastanza da farne il suo amante sotto la Luna del Satiro. Sorrise. Ariston era un po’ arrugginito quando si trattava di vera seduzione, senza l’uso della magia, ma gli piacevano le sfide. Avrebbe potuto essere libero, mortale, avrebbe potuto avere una famiglia, finalmente, invecchiare e vivere una normale vita umana.

Moretta si guardò alle spalle ed ebbe un sussulto. Credeva davvero che le avrebbe concesso di rivelarsi così per poi correre via? Come se non sapesse cosa ci fosse in gioco per lui. Se non avesse trovato uno specchio d’acqua in cui nascondersi, l’avrebbe catturata. Una ninfa dei boschi o delle montagne sarebbe già svanita, camuffandosi da albero o quant’altro, ma la pioggia era acqua e lei doveva essere una rara ninfa delle acque per avere una tale influenza sugli elementi atmosferici.

Quando Moretta deviò a sinistra, Ariston andò a destra, scivolando facilmente tra i rami aggrovigliati e sfrecciando sopra i tronchi caduti. Il satiro rallentò il passo e avanzò lentamente verso di lei. La ragazza perse tempo a guardarsi indietro.

Ariston le si posizionò davanti mentre era voltata e lei gli finì dritta contro il petto. Allungò le braccia per stabilizzarla, circondando il suo corpo esile e concedendosi nel mentre una palpatina al suo sedere. I satiri palpeggiano. È così. Il tessuto della sua maglietta era bagnato, la pelle ghiacciata. Da vicino, riusciva a sentire l’odore della pioggia sulla sua pelle, mischiato al profumo di lavanda di qualcosa con cui si era lavata o che aveva spalmato sul suo corpo.

«Guarda dove vai. Finirai con il farti male, continuando a fare la preziosa» mormorò Ariston contro i suoi capelli, sorridendo. Quando la donna si rese conto di chi la stesse tenendo, si irrigidì e lo spinse via con forza. Ariston la lasciò fare, approfittando dell’occasione per ammirare la sua bellezza, mentre lo fissava furiosa. Lo sguardo di Ariston cadde sulla sua scollatura. I suoi capezzoli erano chiaramente visibili attraverso la maglietta bianca bagnata e il reggiseno sportivo. Senza pensarci, aggiunse: «Guarda, guarda. Il bianco ti dona».

Moretta incrociò le braccia, lanciandogli un’occhiataccia. «Pervertito. Perché non mi lasci in pace?»

Ah-ah. Ariston sapeva che lo avrebbe chiamato così. «Sarei io il pervertito? Chi è che mi stava spiando, prima? Ti è piaciuto lo spettacolo?»

«Non ti stavo spiando. Ho sentito la musica e volevo sapere da dove provenisse. Sei tu quello che gira in giro nudo. Chi fa una cosa del genere?»

Ariston scrollò le spalle. «Sfortunatamente, sei finita dritta dritta in qualcosa che era destinato ad accadere da molto tempo. Se tua madre e le tue sorelle ti avessero avvertita per bene, come hanno fatto con tutte le altre, avresti prestato più attenzione.» Grazie agli dèi non lo aveva fatto.

Delle emozioni indistinguibili balenarono sul suo volto. «Non ho una famiglia. Sono cresciuta in affidamento.» Moretta distolse lo sguardo, furiosa. Se con lui o con se stessa, Ariston non sarebbe stato in grado di dirlo. Era certo che non avesse avuto intenzione di condividere quell’informazione, tuttavia, spiegava perché non si fosse nascosta da lui. Perché avesse seguito la canzone, invece che prenderla come un avvertimento e correre nella direzione opposta. Nessuno l’aveva messa in guardia. Non le era stato insegnato a evitare i satiri e probabilmente non sapeva neppure di essere una ninfa. Moretta non sapeva assolutamente in cosa si fosse cacciata. Se Ariston glielo avesse spiegato, rivelandole quella notizia bomba, di sicuro non l’avrebbe presa bene.

«Mi dispiace per il tuo passato, ma il Fato ti ha messa sul mio cammino per una ragione, perciò non andrai da nessuna parte se non con me.»

Quello sembrò attirare la sua attenzione. «Il mio ragazzo è poco distante, nella direzione da dove sono venuta. Mi basterà urlare e verrà qui. È grande e forte e perfettamente in grado di farti il culo.»

Eppure, non aveva pensato di urlare, mentre la stava inseguendo. L’angolo della bocca di Ariston si inclinò verso l’altro in un sorrisetto. Avrebbe dovuto sapere che avrebbe smascherato il suo bluff. Aveva visto la sua attrezzatura abbandonata fra i cespugli mentre la inseguiva. «Mi piacerebbe vederlo provarci. Tuttavia, se davvero c’è un fidanzato tra questi boschi, sicuramente starà facendo un pisolino. Vedi, la canzone che stavo suonando prima tende a rendere gli uomini un po’ sonnolenti, quando le loro ragazze decidono di seguirla. D’altronde, nemmeno un marito o un padre scontroso potrebbero salvarti ora. Arriverei persino a combatterli per te.»

«Ti prego, non farmi del male. Sono una brava persona. Me ne andrò e non dirò a nessuno che ti ho visto. Non denuncerò né te né niente di tutto questo. Non lo racconterò nemmeno al mio ragazzo, ma… per favore…» Sbatté furiosamente le palpebre.

La determinazione di Ariston vacillò e il senso di colpa gli lacerò il petto. Se lo strofinò. Le aveva dato l’impressione di essere un pervertito, troppo aggressivo e strano. Aveva gli zoccoli, per l’amor degli dèi! Forse avrebbe fatto meglio a lasciarla andare. Lasciare che continuasse a vivere la sua vita nella beata ignoranza della propria vera natura. Tuttavia, aveva lasciato andare Dafne e si era maledetto per secoli, sebbene nel suo cuore sapesse che era stata la cosa giusta fare.

Che il Fato sia maledetto per ciò che sto per fare. Voleva essere di nuovo umano. Gli si era presentata una seconda occasione, finalmente e la ragazza non sapeva nulla. Ariston avrebbe sconvolto il suo mondo e non solo sessualmente. Certo, avrebbe avuto solo una settimana per convincerla ad accettarlo.

«Non ti farò del male.» Ariston ammorbidì il suo tono. «Ma non posso lasciarti andare fino a dopo l’eclissi. Ho bisogno del tuo aiuto per una cosa importante. Poi potrai andartene… se lo vorrai.»

La ninfa si guardò intorno in cerca di una via di fuga. «E se non volessi aiutarti?»

«Lo farai. Forse non vuoi adesso, ma crollerai di fronte ai miei metodi di persuasione.»

«Ne dubito.»

Ariston le rivolse un ampio sorriso. «Mi divertirò a dimostrarti che ti sbagli.»

Moretta spalancò la bocca, ma non replicò. Evidentemente, riteneva che scappare fosse l’opzione migliore, perché tentò la fuga. Di nuovo. Peccato che non possa lasciarti scappare. Ariston rise, inseguendola. Prima o poi la ninfa si sarebbe stancata, ma non lui.

L’aveva quasi raggiunta, aveva quasi circondato la sua esile vita con le braccia, quando Moretta scivolò su una pozzanghera di fango, sfuggendo alla sua presa. Un sonoro plop riecheggiò tra i tic tac della pioggia e il rumore di un tuono che risuonava in lontananza. La ragazza non si rialzò.

Ariston corse verso di lei, tutto il divertimento svanito. Quando le sollevò la testa per controllare i danni, vide la radice nodosa e sporgente responsabile del suo stato di incoscienza. La pioggia si fermò, veloce come era iniziata. È decisamente lei a causare questi cambiamenti climatici.

Dato che non sembrava aver subito altre lesioni a parte il colpo in testa, Ariston prese Moretta tra le braccia. Qualcosa in lei lo stimolava e non solo sul piano sessuale. Abbassò lo sguardo su di lei, non riuscendo quasi a credere che esistesse davvero, mentre il contatto con il suo corpo caldo gli accendeva nelle vene scintille di consapevolezza.

La ninfa era incantevole. Ed era anche coraggiosa, perspicace e intelligente. Ariston non avrebbe potuto chiedere di meglio in una donna. Fuggire da lui era stata una scelta saggia. Fortunatamente per lei, non avrebbe potuto assecondare le sue intenzioni decisamente poco caste. Per ora. Ciò gli avrebbe concesso del tempo per accattivarsela.

“Non arrenderti mai, Ariston. Troverai la tua ninfa, un giorno. Non oggi, ma un giorno. L’ho vista ed è molto bella. Proteggila.” Le parole pronunciate da Dafne tanto tempo prima gli risuonarono nella testa.

Era Moretta la ninfa che aveva predetto? Ariston le premette una mano contro la guancia e deglutì. Zeus misericordioso, poteva davvero convincerla a restare insieme a lui? Poteva guadagnarsi la sua fiducia, il suo desiderio?

Da che cosa avrebbe dovuto difenderla, oltre che da se stesso?

Sotto La Luna Del Satiro

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