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Prologo

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Lungo i confini di Tespie, Grecia, Beozia, 567 d.C.

Tutto cadeva in rovina. Il tempo e le avversità facevano deteriorare anche le rocce più solide. Rimodellate, erose dagli elementi, niente restava se non la polvere. Eppure, alcune cose ingannavano l’ordine naturale, perlomeno superficialmente – persino l’immortalità mancava di perfezione. I cuori potevano essere rotti. Le anime fatte a pezzi. Il grave peso delle emozioni poteva essere tanto distruttivo quanto qualsiasi forza fisica, ma i danni si verificavano all’interno. Invisibili ai più, eppure avvertiti per sempre da colui che ne portava le cicatrici.

Gocce ghiacciate colpirono il viso di Ariston quando tirò indietro il cappuccio, che non riusciva in alcun modo a proteggerlo dalla pioggia torrenziale. La terra che aveva conosciuto durante l’infanzia conservava solo un vago senso di familiarità. La sua casa era sparita, non era rimasto altro che un cumulo di macerie sulla cima abbandonata di una collina. Il bestiame non pascolava più sulle terre circostanti. Forse, se fosse tornato a casa prima… ma non lo aveva fatto. La vergogna lo aveva tenuto lontano, insieme alla paura di cosa la sua maledizione avrebbe potuto scatenare sulla sua famiglia. Tornare prima sarebbe stato egoista. Ciononostante, mentre se ne stava lì, in piedi, davanti alle ultime tracce rimaste della sua vita mortale, deteriorate e sul punto di sparire, fu sopraffatto dal rimorso.

Gli anni potevano diventare tanto irrilevanti quanto i minuti, quando smettevano di rappresentare il conto alla rovescia per una morte che non sarebbe mai arrivata. Non erano più importanti, non sul serio. La vita di Ariston ormai non era altro che un alternarsi di scopare e nascondersi. Di rifugiarsi la notte nell’oscurità dei boschi, dato che non poteva conservare la forma umana dopo il tramonto, per poi passare la giornata sforzandosi di non cedere ai propri desideri. Il che era ridicolo, considerato che, alla fine, i suoi desideri vincevano, sempre. C’erano giorni in cui si domandava che senso avesse combattere contro quei bisogni, perché non arrendersi e abbandonarsi completamente alla maledizione. La sua umanità diventata spesso un pesante fardello.

Ariston si inginocchiò nel punto in cui una volta c’era stato il focolare. Le rocce frantumate erano sparpagliate, ricoperte di sporcizia e, in alcuni punti, di vegetazione, che ne evidenziava il grado di disuso. La pioggia bagnava le pietre, purificandole dalla loro storia e ricordandogli allo stesso tempo che il suo passato, finché fosse rimasto in vita, non si sarebbe mai potuto cancellare. Come le rocce ai suoi piedi, la sua memoria accumulava sporcizia, mentre pezzi della sua anima si sgretolavano, lasciandolo deforme e non più integro. Dal momento che la morte non era un’alternativa, l’unico modo per adattarsi era andare avanti e non guardarsi mai alle spalle.

La maledizione gli aveva portato via tutto in un attimo. La sua vita, la sua felicità, il suo senso di appartenenza. Andati. Tutti. Non che avesse mai dato tanta importanza a quelle cose quando ancora le possedeva. Avrebbe potuto essere qualcuno. Un marito. Un padre…

Invece, Ariston era svanito negli abissi del tempo, affondando ogni giorno più in profondità. Uno spauracchio usato per tenere i giovani maschi lontani dai vizi e le femmine dall’avventurarsi da sole nella foresta dell’Arcadia, dove aveva vissuto, per timore di cadere preda di un mostro leggendario. Ariston era stato temuto, ridicolizzato e, in rare occasioni, desiderato.

E ora?

Era un mito nelle menti dei mortali – un mostro il cui nome era privo di infamia e nessuno ricordava; non come Pan, che era un dio. O Adone, suo fratello, celebrato da umano per la sua bellezza virile e stimato per questo come un raro “dio mortale”. Adone aveva raggiunto la notorietà attraverso le storie di Afrodite, la bella dea che aveva pianto la morte del suo amante mortale. Quelle stesse storie che si beffavano della verità, visto che Adone non era davvero morto, ma caduto vittima della stessa maledizione di Ariston. Nessuno avrebbe ascoltato dei racconti sul gemello di Adone, perché, alla fin fine, era insignificante.

Ariston e Adone erano stati abbastanza sfortunati da essere presenti, quando Pan e Dioniso avevano creato accidentalmente quelle creature conosciute come satiri. La maledizione aveva colpito ogni maschio umano che avesse assistito allo scontro tra le due divinità. Dai loro crani erano spuntate delle corna e i loro piedi si erano trasformati in zoccoli fessi, lasciandoli tutti inorriditi e alterandogli la struttura complessiva delle gambe dal ginocchio in giù. Secondo la leggenda, i satiri, conosciuti anche come fauni, erano per metà uomini e per metà capre. Ma erano stati pienamente umani un tempo, malgrado il loro aspetto mutato. La paura, tuttavia, non si soffermava sui dettagli. Certo, il fatto che Pan fosse diventato celebre per saltar fuori dai cespugli e inseguire degli sventurati mortali attraverso i boschi nei momenti di irrequietudine – un’inclinazione fortunatamente non condivisa dai satiri dell’Arcadia e da pochissimi della Beozia – non aiutava.

Per qualche ragione, ai satiri che si erano trovati alle spalle di Dioniso al momento della maledizione erano cresciute lunghe corna rivolte verso l’alto. Dioniso, però, non pareva aver subito cambiamenti fisici. A Pan e a quelli che si erano trovati dietro di lui, invece, erano spuntate corna da ariete, che si arricciavano ai lati delle loro teste, con le estremità appuntite rivolte in avanti. Questi avevano seguito Pan in Arcadia; gli altri erano rimasti con Dioniso sul monte Citerone, in Beozia.

Sebbene né gli arcadici né i beoti avessero recato danno agli altri, essi rimanevano divisi da mutua sfiducia e disprezzo. Ad accrescere la distanza fra loro, il Fato aveva lasciato che Adone divenisse un satiro della Beozia. Ariston, benché grato di essere un arcadico, si era spesso pentito di non aver combattuto per portare il fratello con sé, prima di andarsene insieme a Pan. Non lo aveva più visto dopo quella notte.

Ariston scosse la testa per scacciare ogni pensiero sugli dèi e su Adone. Le rocce fecero rumore, colpendosi l’un l’altra, mentre rovistava nel mucchio. Trovandone una ancora più o meno integra, la sollevò e la strizzò. Non si sgretolò, sapeva di non essere abbastanza forte da frantumarla, nonostante lo stato di semi distruzione in cui versava la sua vecchia casa. Cos’era successo? Erano passati milleseicento novant’anni da quando era stato lì l’ultima volta e non aveva idea di cosa fosse accaduto durante la sua assenza. L’odore pungente di terra umida e muschio gli solleticò le narici e Ariston sospirò.

Il profumo di casa. Il profumo della perdita. La distruzione che ho causato alla mia famiglia.

Qualunque cosa fosse successa, la colpa era sua. Avrebbe dovuto ereditare quella terra e tramandarla ai propri figli.

Non saresti mai stato in grado di provvedere a una famiglia, non sei riuscito nemmeno a proteggere tuo fratello dagli dèi.

Non si sarebbe dovuto incolpare. La guerra aveva devastato quella zona per anni. Ateniesi, tebani, spartani, persiani… non c’era stato un solo momento in cui una battaglia non avesse avuto luogo sul suolo beotico. Ariston si chiese se Adone fosse mai tornato, o se avesse lasciato la Grecia da tempo. E se era tornato, era rimasto in quello stesso punto, bramando quel tempo in cui erano stati umani e non coinvolti nelle vite degli dèi?

Ariston fece scivolare la pietra nella borsa di pelle che portava al fianco. L’avrebbe tenuta come ricordo per il suo viaggio, perché sospettava che non sarebbe più tornato in quel luogo. Cosa avrebbero pensato di lui i suoi genitori se si fosse presentato alla porta come un satiro? Lo avrebbero accettato, come facevano con le storie più colorite sugli dèi o lo avrebbero fatto vivere all’aperto con le capre? Forse avrebbero persino tentato di ucciderlo. Un mostro non aveva alcuna utilità in una fattoria; avrebbe spaventato le pecore. E poi, i mostri come lui davano la caccia agli esseri umani – Ariston lo sapeva bene – e presto tutte le figlie dei vicini sarebbero state sue da prendere.

Guardò a destra, nel punto in cui sua madre soleva sedere vicino al fuoco per riparare i vestiti. Ariston si alzò e le immagini del passato si dissolsero nel presente. Senza mura, poteva vedere la distesa dei terreni circostanti. I campi, dove un tempo avevano pascolato le pecore, erano incolti e incurvati dall’assalto della pioggia. Là, oltre il paesaggio abbandonato, con il monte Elicona che incombeva in lontananza, poggiavano gli alberi fra cui Ariston era solito incontrare le sue amanti, invece che svolgere le faccende domestiche quotidiane. Pan lo aveva colto sul fatto una volta…

Non voleva pensare a Pan. Il dio aveva lasciato gli arcadici da soli, senza alcun rimorso, non appena aveva iniziato ad annoiarsi. Era tempo che Ariston facesse lo stesso. Eppure, qualcosa lo aveva attirato in quel luogo. Forse, per poter andare avanti, doveva prima lasciar andare completamente il passato. Forse il suo senso di colpa aveva bisogno di vedere, bisogno di confermare, che era rimasto davvero solo al mondo. Ritornare, tuttavia, non lo aveva consolato affatto. Macerie e terra e pioggia lo avevano accolto dove una volta c’era stato amore e una famiglia e calore umano. Questa non è più casa mia. Diede una pacca alla borsa in cui aveva posto la pietra del focolare in rovina. No, non aveva più una casa, ma era sempre uno stupido sentimentale.

Dei lampi tagliarono il cielo e un tuono rombò alle sue spalle, come se Zeus stesso volesse suggerirgli di andarsene. Ariston lo fece volentieri. Scese dalla collina e raggiunse il suo cavallo, legato a un albero con rami in grado di proteggerlo dal grosso dalla pioggia. Sentendolo arrivare, l’animale alzò la testa, ma subito dopo tornò a mangiare la sua appetitosa erba, ignorandolo, come se non lo reputasse degno della sua attenzione. Te e tutti gli altri, cavallo. Una volta venduto, al molo, forse avrebbe trovato il suo nuovo padrone più affascinante.

Dopo essersi tolto la borsa e averla messa al sicuro, insieme ai suoi effetti personali, nel piccolo sacchetto appeso alla sella, Ariston controllò di nuovo che la siringa fosse avvolta con cura nei vestiti di ricambio. Il flauto, creato da Pan unendo le canne palustri che avevano fatto da tomba alla ninfa Siringa, si era dimostrato troppo potente per poter rimanere nello stesso luogo troppo a lungo. Pan temeva che lui stesso sarebbe stato tentato di abusare della magia in esso contenuta. Parole importanti, dette dall’unico dio dell’Olimpo praticamente privo di brama di potere.

Quando Xanto gli aveva affidato lo strumento, qualche giorno prima, Ariston si era offerto di lasciare la Grecia. Se ne sarebbe andato in ogni caso, ma la siringa gli forniva una scusa. Come Pan, Ariston non aveva alcun desiderio di usarla. Quando la magia diventava necessaria, utilizzava il flauto che il dio aveva creato in un secondo momento, sul modello della siringa. Prima o poi, avrebbe dovuto rintracciare un altro arcadico, per evitare che la posizione dello strumento venisse scoperta. Finché la siringa fosse passata da una mano all’altra, infatti, localizzarla avrebbe rappresentato una sfida per chiunque ci avesse provato. Con il tempo sarebbe stata dimenticata, trasformandosi in una leggenda, e nessuno l’avrebbe più cercata. Fino ad allora, però, Ariston si sarebbe potuto lasciare alle spalle gli altri satiri e scacciarli dalla sua mente.

Slegò il cavallo, il cui morbido pelo marrone era reso nero come l’inchiostro dalla pioggia, e iniziò a camminargli al fianco. Ariston poteva cavalcare come qualsiasi uomo. Tuttavia, riusciva sempre a percepire la presenza fantasma degli zoccoli, sebbene fossero invisibili. Quando muoveva le dita dei piedi, a muoversi era solo l’illusione. Il suo zoccolo non era altro che un pesante e tozzo, beh… zoccolo. In ogni caso, camminare gli faceva bene. Gli consentiva di rimanere concentrato sul presente, invece che pensare al passato.

Mentre conduceva il cavallo verso la foresta, un ramo si spezzò da qualche parte in lontananza. Ariston esitò, cercando segnali di pericolo tra gli alberi e lungo il pendio della catena montuosa. Al suo fianco, il cavallo nitrì piano e agitò il muso, ma non sembrava preoccupato. Ariston sentiva la morsa pungente del vento sulla pelle bagnata, mentre l’aria si faceva sempre più fredda man mano che si avvicinava la notte. Doveva passare per i boschi, per evitare di essere visto sulle strade principali. Il fatto che i Greci credessero alle loro leggende non significava che avrebbero gradito l’incontro con le creature che popolavano le storie della buonanotte. Né desiderava essere preso in giro o aggredito per il suo aspetto nella terra che un tempo aveva chiamato casa. Il ricordo di quel posto non aveva bisogno di essere infangato ulteriormente.

Non volendo prolungare l’inevitabile, Ariston condusse il cavallo all’interno del bosco. Avrebbe acceso un fuoco per scaldare entrambi, se solo fosse riuscito a trovare un pezzo di legno abbastanza asciutto da bruciare. Con la coda dell’occhio, vide un movimento e sentì una voce femminile canticchiare, così sommessamente che fu quasi certo di averla immaginata.

Legando di nuovo il cavallo a un albero, Ariston ispezionò l’ambiente circostante, fingendo di cercare un riparo dalle intemperie per la notte. Ecco. Ancora quel canto, alla sua sinistra. Alzò la testa e strizzò gli occhi contro le gocce di pioggia, ma non vide nessuno. Poi capì.

Ninfe. Almeno una, in ogni caso. O era perfettamente consapevole di cose fosse o stava semplicemente giocando con quello che credeva essere un mortale, dal momento che il sole non era ancora tramontato abbastanza da far svanire il suo aspetto umano, facendolo apparire nuovamente come un satiro. Le ninfe erano note per cacciare gli umani, un po’ come i satiri, ed erano solite prendersi il loro piacere ovunque riuscissero a farlo. Secondo la leggenda, se un uomo fosse riuscito a catturare una ninfa, avrebbe potuto prenderla in sposa. Sarebbe stata solo sua fino alla Luna del Satiro successiva.

Ariston si derise silenziosamente. Sapeva per esperienza che quelle storie erano spesso una combinazione di verità e immaginazione. Le ninfe seducevano gli uomini che trovavano desiderabili, ma raramente instauravano una relazione con gli umani, eccetto in rare occasioni. Era quasi impossibile scovare una ninfa, perché erano loro a scegliere i partner sessuali e apparentemente erano in grado di scomparire nel nulla, diventando un tutt’uno con la terra o con l’acqua, se minacciate. Costringerne una a diventare una sposa – ridicolo. Ariston non era stato in grado di localizzarne nemmeno una dalla notte della maledizione. Certo, aveva un evidente svantaggio, non essendo in grado di vedere una ninfa a meno che non fosse lei a volerlo.

Eppure, aveva sentito la melodiosa voce di una donna dove non c’era nessuna donna da vedere. Che il Fato gli avesse davvero concesso una tale opportunità? La ninfa necessaria a spezzare la sua maledizione e a renderlo di nuovo umano? Avrebbe potuto essere di nuovo libero, ma prima doveva trovarla e convincerla che meritava di essere salvato.

«Dove sei?» Ariston si stava guardando intorno, girandosi di qua e di là, quando sentì uno sguardo su di sé.

«Sono quassù, satiro» lo stuzzicò la ninfa. Ariston seguì il suono della sua voce e la trovò appollaiata su un albero, sorridente. Portava una semplice tunica bianca, simile a quelle indossate dagli dèi dell’Olimpo. Quell’abito la faceva sembrare decisamente antica. Fantasmi del passato fluttuarono nella sua mente.

«Dafne.»

Era stata presente la notte della maledizione, finché Apollo non se ne era andato, portandola con sé e lasciandoli tutti lì a marcire per l’eternità come mezze bestie. I capelli scuri le si appiccicavano alla fronte e alle spalle a causa della pioggia, aggrovigliati invece che ondulati. Ciò non diminuiva in alcun modo il suo fascino, ma la rendeva più selvaggia, più spensierata e non faceva che tentare ulteriormente Ariston.

«Ti ricordi di me? Sono affascinata.»

«Non mi interessa cosa sei, ninfa. Vieni giù e guariscimi!»

«Per gli dèi, Ariston. Certamente sai come far sentire desiderata una donna. Come pensi di riuscire a liberarti di quelle corna, quando non riesci nemmeno a convincerne una a scendere da un albero? No, non posso curarti. In ogni caso, non sono qui per disfare la tua maledizione.»

Era un ringhio quello che aveva appena emesso? Ariston non riusciva a ricordare di aver mai prodotto un suono simile. Perché Dafne era lì per deriderlo? Avrebbe potuto essere la sua salvezza. La sua libertà! Eppure, lo scherniva da un’altezza sicura.

«Non mi lasci altra scelta, allora.» Si avvicinò all’albero, con l’intento di arrampicarsi e strapparla da lì. Cosa avrebbe fatto una volta che l’avesse avuta fra le mani era un’altra storia. Non poteva fare sesso con lei per spezzare la maledizione fino alla Luna del Satiro successiva e non sapeva quando sarebbe apparsa. C’erano persone in grado di tracciare i movimenti delle stelle e della luna, ma per domandarglielo avrebbe dovuto cercarli e allo stesso tempo evitare che Dafne scappasse.

«Smettila subito.» La voce della ninfa aveva abbandonato il tono giocoso. «Sono venuta per parlare. Devo trasmetterti un messaggio, prima che Apollo realizzi che me ne sono andata. Il che probabilmente avverrà a breve.» Guardò verso il sole all’orizzonte, nascosto dietro a delle nuvole scure e rabbrividì.

«Fammi capire», disse Ariston. «Non solo mi sbandieri davanti il rimedio che rifiuti di concedermi, ma scateni su di me anche l’ira di Apollo?»

La ninfa sospirò e le sue spalle si incurvarono. «Ariston. Bello e dolce Ariston. Se solo potessi privarti di questo fardello, ma ho donato il mio cuore a un altro. Lo disonorerei, facendolo.»

«Come lo disonori stando attaccata al fianco di Apollo?»

Un lampo balenò sopra di loro, riflettendosi nello sguardo furioso di Dafne. «Apollo non mi ha avuta in quel modo. Tu hai la tua maledizione e io ho la mia. Non sono qui per parlare dei miei guai. Essere bloccata sull’Olimpo ha i suoi vantaggi. Così come fare amicizia con le Moire. Beh, una Moira. Cloto ha l’abitudine di lasciare le cose in giro – in particolare una sfera di cristallo che le permette di vedere il destino di chiunque e in qualsiasi epoca. Non ho avuto molto tempo, ma sono riuscita a capire come farlo funzionare. Sfortunatamente, sono dovuta uscire dalla caverna prima che Apollo si accorgesse della mia assenza al tempio.»

«Hai dato uno sguardo al tuo destino?»

Dafne lo guardò a bocca aperta. «No. Non mi è neanche passato per la testa.»

«Perché perdere tempo se non stavi cercando di ingannare il tuo destino?»

«Alcune cose, alcune persone, sono più importanti della tua stessa vita. Spero che tu lo scopra, un giorno.»

Non sarebbe mai successo. Gli immortali erano poco adatti alle relazioni durature. Qualunque amante umana sarebbe invecchiata e morta, mentre lui sarebbe rimasto lo stesso, e gli altri immortali potevano rivelarsi decisamente spaventosi. «Perché sei venuta da me? Chiaramente non sono io quello che ami; lo hai detto tu stessa quando ti sei rifiutata di curarmi.»

«Perché il tuo destino è intrecciato al suo. Qualunque cosa tu faccia, non importa cosa diranno gli altri, dovrai fidarti di Melancton. Per favore, Ariston.» Dafne era troppo distante per poterlo dire con certezza, ma Ariston notò un luccichio nei suoi occhi e pensò che stesse per piangere.

«Melancton è un beota.» A volte bisognava dire le cose come stavano.

La ninfa fece un verso di disgusto e iniziò a scendere dall’albero, scostando occasionalmente l’orlo del vestito, quando le si impigliava nei piedi. «Sì, tecnicamente lo è. Vorrei ricordarti, però, che tu stesso sei nato in Beozia. Non fa alcuna differenza. Beota. Arcadico. Sono solo parole, usate per definirvi e dividervi.»

Dafne saltò a terra e gli si avvicinò. «Tu hai formato un legame con Pan perché sei suo amico e gli altri perché sono stati colpiti dalla sua metà della maledizione. Lo stesso vale per coloro che stanno dalla parte di Dioniso. Come voi, non possono evitarlo, ma non esiste una parte buona e una cattiva a priori. Sono le azioni dei singoli individui a contare. Le corna non servono ad altro che a distinguere fisicamente chi si trovava da un lato e chi dall’altro, in quel momento e in quel luogo tanto infausti. Melancton avrebbe voluto seguire Pan. Aveva pianificato di raggiungerlo, ma Apollo non lo ha permesso.»

Dafne stette faccia a faccia con Ariston, guardandolo con aria di sfida. La sua mascella era serrata e il satiro riusciva a distinguere l’impercettibile pulsare di un nervo sulla sua guancia. Era davvero bella. Apollo doveva averle dato dell’ambrosia, si rese conto Ariston, rendendola immortale, perché non era invecchiata di un giorno. La vicinanza della ninfa scatenò la maledizione dei satiri, che iniziò ad assumere il controllo dei suoi pensieri, accendendo in lui un desiderio irrazionale. Strinse i pugni e fece un passo indietro. L’odore di lei, come di fiori di campo in una calda giornata d’estate, gli assalì i sensi. Ariston la desiderava. Perlomeno, il suo corpo. Lui voleva solo liberarsi della maledizione. Sebbene Dafne fosse bella, non provava niente per lei.

Come no. Pensa a come sarebbe averla sotto di te, mentre si dimena per il piacere che le procuri.

Disgustato da se stesso, Ariston si allontanò ulteriormente, quasi inciampando nei suoi piedi. Dafne stava giocando a un gioco pericoloso, avvicinandosi a lui quando il suo autocontrollo era tanto fragile.

«Non credo di capire come mai dovrebbe importare ad Apollo.» Intrecciò le mani dietro alla schiena, per evitare di allungarle verso di lei e attirarla a sé. Come avrebbe fatto a controllarsi vicino a una ninfa e aspettare la Luna del Satiro? Riusciva a stento a trattenersi dall’attaccare Dafne sul posto. Dentro, era furioso. Non poteva averla, non poteva porre fine alla maledizione. Non poteva tornare a essere normale. Eppure, Ariston non l’avrebbe costretta. Si rifiutava di diventare il mostro che il suo aspetto suggeriva. Doveva essere più forte. Pan gli aveva insegnato che l’unico modo per restare ancorato alla propria umanità era reprimere i propri istinti il più spesso possibile.

Ma, per gli dèi, il sesso, le sensazioni. Non si stancava mai. Avrebbe potuto continuare…

No. Non pensarci. Distolse di scatto lo sguardo dal suo seno, premuto contro la stoffa setosa dell’abito. Se anche Dafne avesse notato il suo sguardo lascivo, scelse di ignorarlo. Le sue labbra si stavano muovendo, ma Ariston riusciva a sentire solo il battito del proprio cuore in lontananza ed era estremamente consapevole di quanto fosse duro sotto la cintola. Sbatté rapidamente le palpebre e scosse la testa. Cosa stava dicendo?

«–ti ho detto più di quanto avrei dovuto. Non posso perderlo.»

Fingendo di aver compreso ogni parola, Ariston rispose: «Lo prenderò in considerazione, ma sappi che non avrei altra scelta che seguire il mio istinto, se dovesse darmi una ragione per non fidarmi».

«Capito.» Dafne alzò la testa, mentre la pioggia martellante lasciava il posto a una pioggerellina leggera. Le nuvole si allontanarono dal sole abbastanza a lungo perché potesse illuminare la foresta, mettendo in risalto il delicato pallore eburneo della sua pelle. «Si sta facendo tardi e Apollo verrà a cercarmi prima che cali la notte. Devo andare e condurlo lontano da te.» Si sporse verso di lui e sussurrò con fare cospiratorio: «Ho visto cosa nascondi in quella borsa. Apollo abuserebbe di una tale magia». Detto ciò, Dafne svanì, ma Ariston sentì un dolce tocco sulla guancia, come lo sfiorare lieve di un petalo contro la pelle. Una voce gentile gli sussurrò all’orecchio: «Non arrenderti mai, Ariston. Troverai la tua ninfa, un giorno. Non oggi, ma un giorno. L’ho vista ed è molto bella. Proteggila».

«Proteggerla da cosa? Da chi?»

Nessuna risposta. Se non altro, aveva smesso finalmente di piovere.

Sotto La Luna Del Satiro

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