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Capitolo II

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Quel pomeriggio Lady Margaret mi ricevette a casa sua. Mentre serviva il tè in eleganti tazze di porcellana accompagnate da paste danesi al burro e un magnifico cioccolato belga regalo di una studentessa, continuavo ad ammirare il suo superbo salone. Sembrava aver cercato ogni pezzo per anni in modo che tutto si adattasse perfettamente, come se fosse il meccanismo perfetto di un orologio svizzero.

Le pareti erano piene di numerose tele, per lo più scene di caccia con un colore enorme. Al centro, un bellissimo camino bianco presidiava la stanza. Di fronte c'era un magnifico divano in pelle accanto a due poltrone stampate con colori chiari e alla sinistra del camino c'era un grande mappamondo terrestre accanto ad una libreria in noce che conteneva i grandi classici della letteratura russa. All'altra estremità del salone, sotto la finestra principale, un grande pianoforte a coda completava la decorazione.

«Le dirò tutto quello che so» disse dopo essersi accomodata sulla sua poltrona.

Londra, 1902

«Stavo tornando dallo shopping quando ho dovuto sollevare i risvolti del colletto del mio cappotto e allacciarlo stretto. Il cielo si era rannuvolato e le foglie di cipresso iniziavano a cadere sotto i miei piedi mentre attraversavo Hyde Park. Fortunatamente, la mia casa era a soli due isolati di distanza, quindi ho accelerato il passo.

All'arrivo trovai il postino che suonava al campanello della mia porta.

«Signor Hargreaves, ha posta per me?»

«Un telegramma, signorina Spencer» disse, girando la testa. «Deve firmare qui.»

Aprii la porta, entrai in casa e lessi il telegramma con impazienza. Era un messaggio della Geographical Society in cui mi convocavano nell'ufficio del direttore.

La mattina dopo mi svegliai presto; avevo dormito a malapena, perché i miei nervi mi attanagliavano. Il telegramma non spiegava perché la Geographical Society avesse bisogno dei miei servizi. Feci colazione con un paio di fette di pane tostato con un tè e mi diressi in una carrozza verso Kengsington Street, nel centro di Londra.

Durante il tragitto vidi attraverso il finestrino le lampade elettriche che continuavano a restare accese in quelle ore mattutine; non molto tempo fa avevano sostituito le luci a gas. In quel momento mi venne in mente quanto il tempo passa rapidamente.

Avevo finito gli studi universitari due anni prima e mi stavo preparando per fare l'insegnante. La maggior parte dei miei colleghi era specializzata in egittologia, che all'epoca era la cultura più richiesta, mentre io avevo optato per la civiltà precolombiana.

Mio padre, dopo un viaggio d'affari nelle Americhe, ci regalò diversi libri da bambini che raccontavano i loro costumi. Da quel momento è iniziata la mia passione per queste culture e alla fine sono diventata una delle prime laureate nella cattedra che era stata istituita alcuni anni prima all'Università di Oxford.

Sentii il cavallo nitrire quando il vetturino tirò le redini e smise di far risuonare gli zoccoli sull'asfalto. Il cocchiere scese dalla carrozza, aprì la porta e scesi le scale di fronte all'ingresso principale.

La Geographical Society era un edificio a tre piani di mattoni rossastri e tetti neri con grandi finestre. Un po' piccolo secondo me per rappresentare un'istituzione così notevole. Attraversai l'ingresso principale e una magnifica sala fiancheggiata alla sinistra dagli uffici dei membri della Società e a destra da una delle biblioteche più splendide del Regno Unito. Al secondo piano si trovava la grande sala in cui si tenevano le riunioni del Consiglio per discutere dei progetti che arrivavano ogni giorno alla loro sede generale. Di fronte c'era l'ufficio del direttore.

La segretaria mi fece passare in un elegante ufficio decorato con mobili in mogano, dove spiccava una libreria gotica con volumi antichi e una scrivania francese con un mappamondo del XVI secolo accanto ad un busto in miniatura di Charles Darwin.

Sulle sue pareti si potevano vedere vari oggetti portati da innumerevoli spedizioni.

Lì mi ricevette il direttore della Geographical Society: un signore con folti capelli grigi e occhiaie pronunciate vestito con un abito nero e un elegante gilet grigio. Alla sua sinistra c'erano altri due signori nella sala.

«Benvenuta, signorina Margaret. Mi consenta di presentarle il professor Cooper, uno specialista in Storia Americana, e il signor Henson, un abile archeologo che è appena tornato dalla sua ultima spedizione in Egitto.»

«È un piacere conoscerla.»

«Anche per me, signorina Spencer» disse James.

«Si accomodi.»

«Grazie» risposi. E mi accomodai sulla sedia.

Il direttore si sedette di fronte a me in un'elegante poltrona in pelle nera; emanava un forte profumo di acqua di colonia. Aprì una cartella che aveva sul tavolo con il mio nome stampato, diede una rapida occhiata e la richiuse.

«La mia segretaria le ha detto il motivo della sua convocazione?»

Scossi la testa.

«Ho un'altra riunione tra cinque minuti. Glielo spiegherò brevemente. Dopo aver analizzato attentamente il suo curriculum crediamo che lei sia la persona migliore per far parte della nostra prossima spedizione in Sud America.»

Restai senza parole; era quello che avevo sempre sognato di sentire fin da quando ero bambina.

«La spedizione sarà guidata dal signor Henson» spiegò mentre si voltava verso di lui. Oltre alla sua esperienza come archeologo, parla perfettamente lo spagnolo. Il professor Cooper è un grande studioso nella storia del continente americano. Penso che vi conosciate già, era un professore all'università se non sono male informato?»

Affermai con un lieve cenno del capo.

«E allora? Cosa ne pensa di far parte del nostro progetto?»

«Mi lascia senza parole. Pensavo che mi aveste chiamato per aiutarvi in qualche trascrizione come in precedenti occasioni.»

Il direttore sorrise debolmente.

«È un privilegio che mi abbiate notata» aggiunsi prima di continuare a parlare. «Sarei felice di far parte della spedizione.»

«Sono contenta che lei abbia deciso così in fretta. Nella sala riunioni, il signor Henson le spiegherà di cosa tratta il progetto.»

«Grazie mille per questa opportunità» risposi, stringendogli la mano. «Spero di non deludervi.»

«Non ho dubbi, signorina Spencer.»

Ci salutò cordialmente e James ci condusse nella stanza accanto.

Entrando nella sala riunioni, la prima cosa che si distingueva era un gigantesco atlante mondiale in cui spiccavano le grandi scoperte della Geographical Society.

Su entrambi i lati erano appesi i ritratti dei grandi esploratori che avevano dato prestigio alla Geographical Society dal XIX secolo. Quando passai accanto ad essi immaginai come il mio ritratto sarebbe stato vicino a quello di quei grandi personaggi. Due grandi lampadari sul soffitto completavano la decorazione di quell'imponente sala.

Il professore ed io ci sedemmo al tavolo riservato alle riunioni del Consiglio, mentre James iniziò a spiegare il progetto su una grande carta geografica.

La mia prima impressione fu quella di un giovane entusiasta e impegnato per il lavoro che stava realizzando. Di media statura e profondi occhi blu, in lui spiccava una barba folta che, secondo me, non gli donava molto, nonostante il suo bel sorriso. Le maniere squisite denotavano la sua origine da una famiglia aristocratica.

«Dei contadini hanno scoperto una città abbandonata negli altopiani» spiegò.

Si avvicinò alla mappa e indicò l'area a cui si riferiva.

«Si sa qualcosa sulla città?» chiesi con grande interesse.

«Abbiamo a malapena qualche informazione. Per anni alcuni viaggiatori avevano fatto dei riferimenti a questo posto, anche se molto pochi. Si pensava che fosse uno dei miti e delle leggende che circolano in quella zona.»

Annuii mentre prendevo nota su un piccolo taccuino.

«Ho potuto studiare diversi libri spagnoli e in nessuno di essi viene menzionato» continuò con una scrollata di spalle. «Questo mi sembra ancora più intrigante.»

«Quale sarà la nostra missione?» chiese il professore.

«La mia missione sarà la supervisione e l'organizzazione della stessa. La sua, signorina Spencer, la trascrizione di tutta la documentazione che troveremo» aggiunse, posizionandosi di fronte a me. «Lei professore, ci aggiornerà sulla cultura precolombiana prima della conquista spagnola. Altre domande?»

Entrambi facemmo cenno di no con la testa.

«Qui avete la cartografia più recente.»

Aprì una cartella sul tavolo e distribuì diversi documenti.

«Farete uno studio preliminare prima di partire per la nostra destinazione. La nave salpa tra quattro giorni.»

Il professore ed io ci guardammo stupiti. Tentammo un cenno di protesta, ma Henson aveva già lasciato la stanza.


Un giorno prima della nostra partenza, James ci diede appuntamento nell'elegante sala da tè di Abbey Road per terminare alcune ricerche prima di imbarcarci. Arrivai pochi minuti prima del previsto perché fuori imperversava un forte acquazzone e decisi di aspettare all'interno.

Quella sala era diventata uno degli ambienti di moda in città. Era un posto accogliente dove venivano servite le migliori torte del centro di Londra. Le pareti erano decorate con un tenue indaco, con appese delle tele raffiguranti la campagna sudorientale. Il loro colore era in contrasto con il mogano scuro dei tavolini e le sue bellissime sedie erano tappezzate con uno schienale in verde cobalto.

Passai accanto ad un espositore pieno di un vasto assortimento di dolci, il loro colore intenso saziava l'appetito ancor prima di assaggiarli.

Ero ubriaca dell'irresistibile profumo proveniente dal forno della cucina e dei suoi sapori incomparabili: formaggio marmorizzato con lamponi, banana con gocce di cioccolato, limone con cocco, caffè intenso, cioccolato con glassa alla vaniglia, zucca morbida, noci di macadamia e salsa al caramello.

Al centro del locale spiccava una grande vetrina rotante, di diversi piani, con torte a tre e quattro strati con sapori molto simili alle paste.

Mi sedetti di fronte ad una grande finestra dove ascoltavo il rumore prodotto dall'altro lato del vetro dalle sottili gocce di pioggia che punteggiavano la strada.

Guardai l'orologio a cucù che presidiava la sala quando risuonarono le quattro. In quel momento James apparve con un abito grigio perla, un gilet color crema e un elegante fazzoletto azzurro annodato al collo. Lasciò l'ombrello nel portaombrelli e porse il cappello a una snella cameriera dai capelli rossi che gli rivolse un ampio sorriso. Si guardò intorno e gli feci un cenno dal mio tavolo; l'ambiente era affollato ed era difficile riconoscere qualcuno.

«Buon pomeriggio, signorina Spencer» disse mentre mi baciava la mano e si sedeva «Aspetta da molto tempo?»

«Solo da dieci minuti. Ero nella libreria alla fine della strada a guardare alcuni volumi e sono arrivata in anticipo.»

«Posso?» chiese James.

Prese il libro che era sul tavolo e cominciò a sfogliarlo.

«Grandi speranze di Dickens. Ottima scelta.»

«L'ho comprato per il viaggio» risposi con un sorriso. «Sembra che il professore sia in ritardo.»

«È indisposto. Andrò a casa sua per dargli i passaporti e a documentazione. Ecco il suo.»

Prese i visti dalla tasca interna della giacca e me li porse. La Geographicalal Society era responsabile di tutte le procedure burocratiche di cui avevamo bisogno durante il nostro viaggio. Era incredibile la rapidità con cui avevano ottenuto il passaporto e qualsiasi tipo di documentazione.

«Spero non sia nulla di grave» replicai allarmata.

«Uno dei suoi attacchi di gotta. Dovrà riposare sulla nave e seguire una cura per un paio di settimane.»

Mi sentii sollevata. Conoscevo il professore da anni e sarebbe stato un grande supporto per me durante quel viaggio. Non avevo voglia di viaggiare da sola con Henson.

James ordinò un tè e poi una cameriera con le guance rosa passò con il carrello dei dolci; sembravano deliziosi. Ne scegliemmo due ciascuno. Non sapevamo a cosa avremmo dovuto attenerci con il cibo in futuro e approfittammo dell'occasione.

«So che lei è una delle prime laureate della sua Università» affermò, posando la tazza di tè. Non l'aveva lasciata riposare abbastanza a lungo ed era ancora in ebollizione.

«Mi scusi se la correggo» risposi mentre assaggiavo una torta di mirtilli. «Da anni le donne si laureano nonostante l'opposizione dei settori conservatori. Continuano a pensare che l'istruzione universitaria dovrebbe essere solo maschile.»

«Non intendevo offenderla. Mi riferisco ad un commento fatto dal direttore della Geographical Society.»

«Il direttore è un grande amico di mio padre. Gli sono molto grata per l'opportunità che mi hai dato» spiegai. «Ma lei sarà d'accordo sul fatto che la Geographical Society non ha mai incoraggiato la partecipazione femminile.»

James annuì con la testa.

«Se sono qui oggi, è a causa del poco interesse mostrato per le culture precolombiane nel nostro Paese. Non c'erano molte altre opzioni quando si assumeva un esperto nella materia.»

«Passeremo molto tempo a lavorare insieme» mi interruppe «Cosa ne pensi se ti chiamo con il tuo nome di battesimo?»

«Perfetto» aggiunsi con un ampio sorriso. «Anch'io comincerò a darti del tu.»

«Per rispondere alla tua domanda, Margaret, è vero che ci sono pochi esperti nella cultura precolombiana. La maggior parte dei nostri studenti non si è mai preoccupata del proprio passato nelle mani degli spagnoli.»

«La distanza e il fatto che parlano un'altra lingua non li ha avvantaggiati.»

«Se il direttore ti ha scelta, è perché sei ben preparata per questa spedizione.»

«Grazie, James. Apprezzo le tue parole.»

Continuammo a chiacchierare ancora per un po' finché non decidemmo di andarcene. C'era molto da preparare quel pomeriggio. Quando lasciammo l'edifico, aveva smesso di piovere e la strada era di nuovo piena di gente.

«Una carrozza ti verrà a prendere presto. Ci vediamo alla Geographical Society.»

«D'accordo. Dirò addio alla mia associazione e poi terminerò i bagagli.»

«Un club di lettura?»

Scossi la testa.

«Appartengo al movimento delle suffragette del West End.»

James non rispose e se ne andò lungo la strada.


Ci imbarcammo a metà pomeriggio nel porto di Southampton verso il nord della Spagna, dove ci attendeva il vapore che faceva la rotta dall'Europa ai Caraibi. La nostra destinazione era la città di Cartagena delle Indie, nel nord della Colombia.

Ci sistemarono in cabine adiacenti al terzo piano della nave. Piccoli scompartimenti senza bagno interno, con un letto nella parte inferiore e diverse poltrone. Erano decorati con motivi marini e avevano un oblò.

Il viaggio aveva una durata di quaranta giorni, tempo più che sufficiente per definire i preparativi per la nostra spedizione e conoscerci un po' meglio.

I primi giorni esplorammo quella splendida nave. Era un transatlantico di dimensioni impressionanti con giganteschi camini che espellevano il fumo nell'aria lasciando una larga nuvola nera sul suo cammino. La nave si stava fermando su diverse isole prima di raggiungere la sua destinazione finale nelle Americhe.

Le classi sociali erano ben definite nell'infrastruttura della nave. Noi alloggiavamo in prima classe, dove i passeggeri avevano tutti i tipi di comfort, quasi nessun contatto con il resto, dove emigranti e avventurieri erano situati nelle cabine inferiori. Il numero di passeggeri superava di gran lunga la capacità della nave.

La Transatlantic Company ospitava i sogni di uomini e donne che lasciavano il loro Paese in cerca di prosperità e nuovi orizzonti.

Ogni giorno c'erano storie di familiari e amici che vivevano come re dall'altra parte dell'Atlantico. La popolazione era triplicata in Europa, l'assenza di opportunità di lavoro e le cattive condizioni di vita rendevano le Americhe un'occasione unica per trovare un futuro migliore.

La mattina ci riunivamo nella cabina di prua per continuare a studiare il progetto, mentre i pomeriggi li trascorrevamo nella sala principale bevendo tè e giocando a carte in compagnia di diversi uomini d'affari britannici che avevano affari in America Latina.

Devo ammettere che James era un buon compagno di bridge, ma la coppia con cui giocavamo era spesso così esperta che non ci fu modo di vincere una partita durante tutto il viaggio. Il professore continuava il suo attacco di gotta e riposava nella cabina studiando le culture mesoamericane.

Un pomeriggio, la signora McLeyton, un'anziana robusta con le guance rosee e suo marito, Fraser, un colonnello allampanato del Royal Army, lasciarono il gioco prima del solito soffrendo di forte nausea, lasciando me e James al tavolo del bridge a degustare uno soave tè di Ceylon. Durante i fine settimana c'erano spettacoli musicali nel salone. Quel giorno, salì sul palco una soprano avanti con l'età con un abito malva vecchio stile. Si fermò accanto ad un elegante pianoforte a coda e iniziò a cantare la Carmen di Bizet.

«Dio mio!» esclamai coprendomi il viso quando cominciò a cantare.

James iniziò a ridere senza sosta. Era la peggior interpretazione che avesse mai sentito.

Dal tavolo accanto iniziarono a guardarci, ci alzammo e decidemmo di fare una passeggiata sul ponte.

Alcuni passeggeri si godevano la splendida giornata sdraiati su comode amache con un libro in mano. I bambini correvano senza sosta al nostro passaggio e pochi metri più avanti giocavano a shuffleboard o, come lo chiamavano gli spagnoli su quella nave, il gioco del Tejo. Una coppia di sposi novelli si divertiva a lanciare i dischi con una palette a forma di scopa cercando di ottenere il punteggio più alto possibile.

«Ti piacerebbe fare una partita?»

«Forse un'altra volta» risposi con un sorriso. Ero molto impacciata nei giochi.

Continuammo la passeggiata e quando arrivammo alla fine della nave ci appoggiamo al bordo mentre contemplavamo la schiuma lasciata dalla nave sul suo percorso.

Quel tardo pomeriggio un grappolo di nuvole cercava di togliere il centro della scena ad un sole radioso che sembrava preso da una bellissima tela impressionista.

«Potrei farti una domanda personale?» disse James mentre l'aria turbinava i suoi abbondanti riccioli per il forte vento.

Annuii sorridendo.

«Partecipi spesso a queste riunioni del movimento delle suffragette?»

«Certo che sì» risposi indignata. Non mi aspettavo quella domanda. «Non possiamo più essere soggette alle opinioni che questa società sessista impone.»

Mi guardò un po' sorpreso. Immagino per la veemenza che usai nel difendere i miei argomenti.

«Siamo agli albori del XX secolo e non nel Medioevo» continuai. «Il movimento è iniziato con poche combattenti e si è diffuso in tutto il Paese. Non ci vorrà molto per ottenere il diritto di voto e tutto cambierà.»

«Sono d'accordo con te» rispose con voce sommessa. «Ma conosco il modo di pensare di diversi membri del Governo. Penso che siate ancora lontane dall'essere in grado di ottenerlo.»

«Hai qualcosa contro il nostro movimento?»

«No, al contrario. Ho incontrato diverse donne in Egitto che finanziano privatamente le loro spedizioni archeologiche. Fanno un ottimo lavoro.»

«È un peccato che, tranne in alcune occasioni come la mia, le donne abbiano dovuto organizzare spedizioni a proprie spese.»

«In questo caso siamo sotto l'enorme responsabilità» rispose, fissandomi negli occhi. «Se avremo successo, molte donne avranno l'opportunità di far parte di qualche spedizione.»

Rimasi in silenzio per alcuni istanti meditando sulle sue parole.

«Non ci avevo pensato. Vuoi dire che la responsabilità è mia?»

«No, Margaret. Formiamo una squadra, ricordi?»

Annuii e gli dedicai il migliore dei miei sorrisi.

Andammo nella sala dove la cena era già iniziata.


Continuammo la traversata senza grandi imprevisti. Un pomeriggio, una forte tempesta fece oscillare la nave da un lato all'altro. Dall'oblò vedevamo come le onde forti superassero l'altezza alla quale eravamo. Era difficile che quell'enorme nave colasse a picco, ma sentivo un brivido intenso ogni volta che avvertivo una forte scossa.

Decidemmo di trascorrere il pomeriggio in cabina a studiare il nostro progetto.

«Prima di arrivare alla nostra destinazione, vorrei spiegarvi il metodo di scavo che useremo nella spedizione.»

Il professore ed io ascoltavamo seduti sulle comode poltrone della cabina.

«Ho pensato di dividere la città in due parti: Nord e Sud» disse, disegnando una grande mappa che posizionò su un leggio. «Concentreremo gli scavi dove si trovano gli edifici principali della città. Quindi analizzeremo il resto, che ha un interesse archeologico minore.»

«Io realizzerei uno studio più approfondito» risposi indicando diversi punti sulla mappa. «Potremmo creare una divisione molto più piccola del terreno, in questo modo conosceremmo meglio la sua popolazione. È un nuovo metodo che viene eseguito in diverse spedizioni.»

«Hai ragione, Margaret» aggiunse il professore. «È una delle ultime tecniche che si stanno perfezionando. Ma ogni archeologo ha la sua, non esiste la certezza che un metodo sia migliore di un altro.»

«Hai sentito il professore. Questa è la mia spedizione e prendo io le decisioni. Il giorno in cui ne dirigerai una, la farai a modo tuo» rispose arrabbiato.

«Perché teniamo queste riunioni se hai già deciso tutto?» esclamai alzando la voce.

«Mi limito a comunicarvi quale sarà il vostro compito. Questa non è una riunione aziendale in cui dobbiamo raggiungere un consenso» rimase in silenzio per un momento mentre raccoglieva i suoi pensieri e poi aggiunse. «Hai ancora molto da imparare.»

«Preferirei andare nella mia cabina piuttosto che continuare a perdere tempo» gli risposi.

Mi alzai e mentre stavo uscendo dalla porta gli dissi:

«Quando arriveremo alla nostra destinazione, mi spiegherai il lavoro che mi compete.»

Sbattei la porta facendo rimbombare la stanza. Dopo quella discussione passammo diversi giorni senza parlare.


Una settimana dopo avvistammo Cartagena de Indias dalla prua della nave.

In lontananza si distingueva una fortezza difensiva che si estendeva per tutto il perimetro della città, sorvegliata da un gran numero di cannoni che un tempo servivano da difesa degli attacchi di nemici e pirati.

La baia era un'enclave naturale con l'acqua più pulita e trasparente che avessi mai visto, con un amalgama di colori blu con tonalità più chiare mentre si allontanavano dalla costa, da un blu intenso in alto mare passando per un verde smeraldo per finire con un azzurro pallido mentre ci avvicinavamo alla riva. Un forte odore di salnitro e pesce proveniente da diverse imbarcazioni impregnava quella calda brezza mattutina.

Scendendo le scale della nave, la prima sensazione che provammo fu un calore soffocante aumentato dalla forte umidità che causava una continua spossatezza.

La folla si raggruppava le scale della nave; si udiva un rumore assordante di domestici, commercianti e braccianti che venivano ogni giorno per guadagnarsi da vivere ogni volta che una nave sbarcava.

Un gran numero di portuali era impegnato nel carico e scarico delle navi che arrivavano al porto, per lo più discendenti di schiavi. In teoria, la schiavitù era stata abolita un secolo fa ma, in pratica, la maggior parte dei loro discendenti continuava a svolgere lo stesso lavoro che i loro antenati avevano sviluppato.

Dalla passerella inferiore venivano scaricate le numerose merci che arrivavano al molo, caricate sulle spalle venivano trasportate ai carri in attesa all'entrata del porto. Successivamente venivano trasportate nei magazzini di proprietà delle grandi compagnie commerciali che si erano state stabilite in quella prosperosa città.

Era uno dei porti più importanti dei Caraibi dove arrivavano i prodotti fabbricati dalla Rivoluzione Industriale Europea, in particolare dall'Inghilterra, che aveva sostituito la Spagna nel monopolio commerciale dell'America Latina da quando avevano ottenuto l'indipendenza dalla metropoli. Nonostante alcuni vani sforzi di industrializzazione, il continente americano era rimasto dipendente dalla produzione in eccesso inviata dall'Europa e, in misura minore, dagli Stati Uniti.

Insieme alla merce sbarcarono tutti i tipi di emigranti delle più diverse nazionalità che cercavano un futuro migliore; principalmente spagnoli, portoghesi e italiani.

«Fate attenzione ai bagagli quando attraversate il porto» ci avvertì James mentre scendevamo le scalette. «Vado a cercare una carrozza.»

Dopo aver aggirato la moltitudine innumerevole, ricevendo qualche gomitata, caricammo i bagagli in cima alla carrozza che ci avrebbe trasportato in albergo.

Il professore si sedette accanto a me, continuando a tenere in mano un fazzoletto per asciugarsi il sudore. Io avevo un ventaglio che la signora Fizzwater mi aveva regalato dopo avermi assicurato che sarebbe stato il mio bene più prezioso da quando avevo messo piede in quel continente; capii subito che aveva ragione.

James, dopo aver dato le istruzioni adeguate al cocchiere, aprì la porta della carrozza e si sedette di fronte a noi; indossava un cappello a tesa larga che non si sarebbe tolto durante l'intero viaggio.

La città non differiva molto dall'ingresso del porto. Era un vivido ritratto del caos che avevamo sperimentato non appena scesi dalla nave, ma aumentato di dieci. I carri passavano a tutta velocità su un terreno non asfaltato dove si sollevavano grandi quantità di polvere, senza rispettare i pedoni, che in più di un'occasione dovettero tornare indietro di diversi passi prima di attraversare la strada se non volevano essere investiti.

Quella città di stradine inondate da portici civettuoli e alte palme con edifici a due piani sembrava ancorata in un passato coloniale dal quale nessuno, nemmeno i suoi capi, intendevano svegliarla.

I borghesi viaggiavano a cavallo abbigliati con vestiti e cappelli enormi che coprivano gran parte dei loro volti, mentre la maggior parte della popolazione umile indossavano abiti bianchi che erano ben lungi dall'essere intonsi; il fango nelle strade li costringeva ad indossare stivali alle ginocchia.

In quel tragitto dal porto all'hotel potei verificare che la nostra spedizione sarebbe stata molto più complicata di quanto potessi inizialmente prevedere, senza nemmeno sospettare le avventure e le disavventure che stavamo per vivere.


Il cocchiere fermò la carrozza di fronte a un edificio in stile plateresco che sembrava aver vissuto tempi migliori. In precedenza, era stato il Palacio de la Audiencia; era ancora pulito e il suo personale efficiente.

Due ragazzi di non più di quindici anni portarono dentro i bagagli e ci accompagnarono alla reception. Mentre aspettavamo che ci fosse assegnata la stanza, il direttore consegnò a James un telegramma da Londra.

Mentre apriva il sigillo della lettera, notai sul suo viso qualche preoccupazione; quell'imprevisto non sembrava rientrare nei suoi piani. Non ci fu bisogno di aspettare a lungo per vedere che i suoi sospetti erano più che giustificati. Mentre leggeva la lettera, il suo volto divenne più cupo.

«Cosa succede?» gli chiesi quando terminò di leggere.

Senza dire una parola, ci porse la lettera.

La Geographical Society ci informava che l'Università canadese del Quebec stava preparando una spedizione con lo stesso nostro proposito.

Quando sollevai lo sguardo vidi come stava salendo le scale senza dire una parola. Il professore ed io lo seguimmo nella stanza, un piccolo ambiente piuttosto austero con due letti, un paio di fotografie della città e un grande crocifisso tra di essi.

Lì trovammo James che disfaceva i bagagli a capo chino.

«Stai bene?» dissi mettendogli una mano sulla spalla.

Lui annuì mentre posava una bussola e diverse mappe sul letto vicino alla finestra.

«Faranno i preparativi in Canada» commentai cercando di incoraggiarlo. «Ci concedono un significativo vantaggio.»

«Non è questo che mi preoccupa» rispose senza guardarmi. «Vorrei sapere come hanno ottenuto le informazioni.»

«Gli americani hanno allargato i loro tentacoli in questa zona» aggiunse il professore mentre accendeva la pipa e si sporgeva dalla finestra. «Le nostre società commerciali hanno già avuto diversi incontri con loro.»

«Hanno potuto ricevere le informazioni prima di noi» rispose. «Se hanno il supporto delle istituzioni locali, inizieranno con un grande vantaggio.»

«È vero» risposi mettendomi di fronte a lui e guardandolo dritto negli occhi. «Ma questo non è un motivo per scoraggiarci. Studio la loro cultura da anni e tu parli perfettamente lo spagnolo.»

«Sono d'accordo» affermò il professore. «Non credo che la loro preparazione sia migliore della nostra.»

«Apprezzo la vostra fiducia» ci rassicurò con un sorriso.


La mattina seguente chiedemmo alla reception dell'hotel dove potevamo assumere una guida per portarci sull'Altopiano. Lì ci informarono che molti di loro si incontravano nelle taverne accanto al vivace mercato alimentare.

Quella zona era vicino all'imponente castello di San Felipe de Barajas, il grande bastione difensivo della città. All'arrivo scoprimmo che si trovava in una grande piazza con numerose bancarelle dove vendevano tutti i tipi di attrezzi e cibo. I prodotti agricoli provenivano dai sobborghi vicini alla città. Lì si coltivavano mango, papaia, manioca, caffè e cacao; accanto ad essi c'erano tutti i tipi di piante tropicali e animali esotici come le piccole scimmie Titì, molto richieste dalle élite locali come animali da compagnia.

Facemmo colazione con un paio di arepas di mais ripiene di carne di pollo e pomodoro che erano deliziose. Il negoziante ci disse che due strade sottostanti c'era una taverna dove gli esploratori si incontravano.

Attraversammo il mercato e arrivammo in una piccola piazza con un obelisco e una bella chiesa gotica dove si trovava la taverna.

Una minuscola porta dava accesso a un interno buio dove le pareti sembravano cadere a pezzi per l'umidità e le mosche svolazzavano felici senza che nessuno facesse il minimo per impedirlo. Al bancone ci servì un indio con un'enorme cicatrice sullo zigomo destro.

In fondo c'era un ragazzo che continuava a dare ordini; sembrava essere il proprietario. Da quando entrammo, non mi tolse gli occhi di dosso, sembrava che non molte donne entrassero nel locale o almeno non della mia condizione.

«Benvenuti, amici» disse con un ampio sorriso, «Come posso aiutarvi?»

«Stiamo cercando qualcuno che ci porti a Cuzco.»

«Conosco due ragazzi che potrebbero aiutarvi» rispose mentre puliva dei bicchieri con uno straccio macchiato di vino. «Ma penso che siano stati arrestati dall'esercito il mese scorso.

«Non c'è nessuno che viaggia fino a lì?»

«Esteban conosce a menadito quella zona» ci assicurò un vecchio seduto al bancone, indicando un tipo tarchiato con ampie basette che giocava a una partita a carte in fondo alla taverna.

Il cameriere lo avvertì e costui si sedette accanto a noi per discutere della questione ad un tavolo vicino all'ingresso.

Ci servirono una brocca di vino e quattro bicchieri. Quando James andò a riempire il mio gli dissi che non avrei preso nulla in quell'antro scuro nemmeno per tutto l'oro del mondo.

«Quante persone formano il gruppo?» chiese Esteban con un forte accento indigeno.

«Solo tre» rispose James. «Ma trasportiamo molti bagagli.»

«I bagagli non sono un problema, amico. Rallentano solo un po' la strada» aggiunse mentre si affrettava a bere il bicchiere di vino. «Il più grande inconveniente al momento è il percorso.»

«Il percorso?»

«Il Camino Real è infestato da banditi. Da quando gli spagnoli se ne sono andati, l'esercito combatte contro di loro senza molto successo.»

«E non c'è altra alternativa?»

«C'è un altro percorso nell'interno che attraversa la giungla amazzonica durante un tratto. È più lento e non è privo di pericoli ma è molto più sicuro.»

«Quanti soldi vuoi per portarci?»

Si tolse il cappello e cominciò a farsi aria.

«Il mio compare ed io ci accontentiamo di quattromila pesos. Muli e attrezzature devono essere acquistati separatamente.»

«Abbiamo in programma di viaggiare più volte in questa zona. Se abbassi un po' il prezzo, raggiungeremo un accordo.»

James gli riempì di nuovo il bicchiere di vino ed Esteban lo bevve in un sorso. Accettò senza contrattare, sembrava aver bisogno urgentemente dei soldi.

«Hai qualche cartina del percorso che possiamo vedere?»

La guida annuì.

Si alzò e prese da una bisaccia diverse mappe che aveva conservato.

«Studierò entrambe le opzioni con i miei colleghi e domani ti daremo una risposta.»

«Andate con Dio, amici» si congedò da noi con una stretta di mano.


Quel pomeriggio nella camera d'albergo iniziammo a studiare le mappe che ci erano state fornite. Erano le stesse che gli spagnoli avevano usato per secoli. Alcune ci erano familiari mentre altre erano più complete di quelli della Geographical Society.

Il Camino Real era la strada che gli spagnoli avevano usato per secoli per trasportare oro e merci via terra dall'Altopiano all'America Centrale.

«Dovremmo prendere il percorso attraverso la giungla» disse James mentre lasciava la mappa su un piccolo tavolo di legno. «Il Camino Real è più breve ma troppo rischioso. Qual è la sua opinione, professore?»

«Mi va bene a quello che decidete» rispose sbadigliando. Non chiudeva occhio da due giorni.

Prese il tabacco dalla tasca e si arrotolò una sigaretta.

«E tu, Margaret?»

«Attraversare la giungla è molto rischioso» commentai, sorpresa dalla rapidità con cui aveva preso la decisione. «Se ci sono banditi sul Camino Real, nella giungla ci sono tutti i tipi di tribù, animali selvatici e un caldo insopportabile.»

«C'è qualcosa che ti piace?» aggiunse, sarcastico.

«Stai insinuando che creo sempre problemi?» esclamai offesa.

«Da giorni non contribuisci in modo positivo.»

«Vedo che hai già preso la tua decisione. Comandi tu» risposi con ironia.


Ci alzammo presto e incontrammo di nuovo Esteban. Lo informammo del percorso che avevamo scelto e ci accompagnò al mercato per fare rifornimento di cibo e attrezzi. Quindi andò in alcune stalle situate nei sobborghi e comprò i muli necessari per affrontare la traversata. Non ci restava molto da fare e decidemmo di passare il pomeriggio a conoscere quella vivace città.

Al crepuscolo tornammo in hotel. Un gruppo di canadesi stava controllando i bagagli alla reception; vedendo le valigie e i vestiti, ci rendemmo subito conto che era il gruppo inviato dall'Università del Quebec. Erano atterrati quel pomeriggio stesso.

«Stavo pensando di partire tra un paio di giorni» disse James, coprendosi la bocca con il palmo della mano in modo che nessuno potesse sentirlo. «Ma ora cambia tutto. Partiremo domani.»

«Abbiamo tempo per preparare tutto?» chiesi incredula.

«La spedizione sarà una corsa contro il tempo a partire da questo momento.»

Sbuffai mentre annuivo. Se fosse già stata una spedizione complicata in condizioni normali, da quel momento avrei contato ogni minuto.

Salimmo nella stanza pensando che i canadesi non ci avessero riconosciuto. In linea di principio non c'era nulla che ci rivelava, fintanto che non sentivano il nostro accento non avrebbero saputo che eravamo inglesi. Dopo qualche minuto, scendemmo a cena. Avevamo programmato di andare a letto presto e partire di buonora la mattina successiva.

Entrando nella sala da pranzo, trovammo i canadesi che stavano cenando. Quei tizi stavano iniziando a diventare il peggiore dei nostri incubi. Decidemmo di sederci dall'altra parte della sala da pranzo per passare inosservati. Non c'erano troppe persone a cena quella sera; era la stagione delle piogge e c'erano meno stranieri del solito.

Il gruppo era composto da cinque uomini, il più anziano che sembrava essere il capo, aveva circa cinquant'anni e i capelli grigi. Il resto era più giovane, più o meno della nostra età e, come nel mio caso, alcuni facevano di una spedizione per la prima volta.

Ci servirono il primo piatto senza dire una parola.

«Ho un'idea» mi sussurrò James all'orecchio. «Non penso di andarmene da qui senza sapere cosa sanno della spedizione.»

«Che intendi fare? Ti alzi e vai al loro tavolo?» risposi ironicamente James sorrise.

«Scendendo le scale ho visto le loro stanze. Non avremo un momento migliore per registrare i loro bagagli.»

«Ma sei impazzito, James Henson?!»

«Non alzare la voce» rispose, cercando di calmarmi.

«Se ci scoprono, avremo un problema serio.»

«Perché dovrebbero scoprirci?»

«Pensavo fossi molto più ragionevole. Senza di me non sarai in grado di trascrivere alcun documento» aggiunsi facendogli l'occhiolino.

Ci alzammo e lasciammo il professore che stava ancora cenando al tavolo senza dire una sola parola. Gli eventi stavano accadendo così rapidamente che era disorientato.

Quando salimmo le scale le mie gambe iniziarono a tremare e sentii le gocce di sudore cadere sulla mia fronte. Quella era una sensazione nuova per me, notavo come l'adrenalina mi attraversava il corpo e mi faceva sentire viva.

Dopo aver raggiunto il primo piano ci dirigemmo verso le stanze sul retro, cercando di fare il minor rumore possibile.

«Come pensi di aprire la porta?»

«Ho imparato qualche strano trucco per aprire qualsiasi tipo di serratura chiusa da per molti anni.»

Quella tecnica di cui stava parlando si rivelò essere un coltello multiuso che teneva in tasca. Lo infilò nella serratura e in un paio di secondi ci fu un clic e la porta si aprì.

Entrando vedemmo come i canadesi avevano trasportato una grande quantità di bagagli dal Quebec. Ciò poteva significare che ne sapevano più di noi sulla ricerca, ma era un grande inconveniente, dal momento che avrebbero dovuto assumere più portatori e animali da soma per trasportare i bagagli. Il loro viaggio sarebbe stato molto più lento del nostro.

Iniziammo ad aprire tutto. In uno degli zaini trovammo una cartella con le mappe dell'area andina e le planimetrie di due impianti di scavo che la loro Università aveva realizzato nelle città precolombiane negli ultimi anni. Quelle mappe ci sarebbero state utili per confrontarle con le nostre.

Nel frattempo, nella sala da pranzo, il professore osservava allarmato uno dei canadesi che si alzava dalla sedia, andava alla reception e iniziava a chiacchierare con il portiere. Restò lì per diversi minuti e poi iniziò a salire le scale. Il professore dal suo tavolo assisteva alla scena terrorizzato senza sapere cosa fare.

Dopo aver ispezionato tutto, uscimmo dalla prima stanza e, dopo aver verificato che non ci fosse nessuno nel corridoio, decidemmo di entrare nella stanza successiva. Continuammo a perquisire i bagagli e scoprimmo che la maggior parte erano vestiti e attrezzature. Ma all'interno dell'armadio, sotto una giacca, trovammo uno zaino molto interessante, contenente due manoscritti: il primo era una trascrizione di iscrizioni precolombiane in spagnolo, era una specie di Stele di Rosetta precolombiana. Un grande sorriso si disegnò sul mio viso mentre la esaminavo. Non c'erano informazioni su quel documento all'Università di Oxford e sembrava che il Quebec non avesse la minima intenzione di diffonderlo alla comunità scientifica.

Il secondo manoscritto, tuttavia, non differiva molto dalle ricerche che avevamo fatto in Inghilterra: descriveva in dettaglio il luogo esatto in cui poteva trovarsi la città verso cui ci stavamo dirigendo.

All'improvviso iniziammo a sentire un mormorio nel corridoio.

Il professore decise di alzarsi dal suo tavolo e salì il più velocemente possibile su per le scale fino a quando non raggiunse il canadese poco prima che arrivasse alla sua stanza.

«Mi scusi, amico» lo chiamò. «Ho sentito prima come parlava con i suoi connazionali. Lei è canadese?»

L'americano annuì.

«Posso esserle utile?»

«Ho trascorso diversi anni a insegnare a Montreal. Quando sento il suo accento continuo a ricordare quegli anni meravigliosi.

«Montreal. Una grande città. Cosa la porta in Colombia?»

«Sono venuto in viaggio d'affari con il mio socio e sua moglie. Ci sono grandi opportunità di espansione in questa zona.»

«È vero. Se mi scusa, devo prendere alcuni documenti prima di continuare la cena.»

«Certo. Mi dispiace averla interrotta.»

Il canadese proseguì verso la sua stanza mentre il professore si voltò e decise di tornare al suo tavolo per non destare altri sospetti.

Sentimmo il clic della porta proprio mentre James usciva dalla finestra della stanza; grazie al professore, avevamo potuto ascoltare parte della conversazione in corridoio con abbastanza tempo per scappare. La stanza era al primo piano e l'altezza non era un inconveniente per farci arrivare in strada.

Il pomeriggio era iniziato male ma alla fine si rivelò molto fruttuoso. Avevamo potuto contrastare il vantaggio con cui partivano gli americani, avevamo scoperto che erano molto più avanzati di noi nello studio della zona. Inoltre, saremmo partiti con almeno un giorno di anticipo da quella città.


Prima del sorgere dei primi raggi di sole che annunciavano l’alba, partimmo in direzione delle alte montagne che costeggiavano il litorale della costa colombiana.

Nonostante il terreno ripido, avanzammo con determinazione lungo sentieri stretti. La temperatura iniziò a scendere vertiginosamente mentre salivamo sulla catena montuosa verdeggiante. Una mattina ventosa finalmente raggiungemmo la cima e iniziammo la discesa che ci avrebbe portato alla savana.

Mentre ci addentravamo nel territorio amazzonico, l'intreccio delle piante infestanti divenne molto più fitto mentre passavamo.

Il gruppo si avviò in una lunga fila alla cui testa marciava la guida accompagnata sempre da James, poi i portatori e i muli carichi di bagagli e, infine, il professore ed io che eravamo costantemente indietro.

«Fa un caldo soffocante» commentò il professore mentre scendevamo attraverso un'ampia valle.

Si fermò un momento, si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto e bevve acqua dalla borraccia.

«L'ho ripetuto più volte a Cartagena» commentai seccata. «Avremmo dovuto prendere il Camino Real. Bisogna sempre fare quello che vuole Henson.»

«Stai attenta, potrebbe sentirti.»

«A questa distanza è impossibile che senta qualcosa. Inoltre, gliel'ho già detto in hotel.»

I portatori si facevano sempre strada con i loro machete. In alcune zone le cime degli alberi erano così estese che i loro rami si intersecavano senza far passare la luce del sole. Alcuni giorni riuscivamo a malapena a vedere il cielo. La diversità di fauna e flora era infinita.

«Guardi quei colori, professore» dissi indicando le cime degli alberi.

«Sono tucani tricolori» rispose con un grande sorriso. «In questi momenti saremmo l'invidia di qualsiasi ornitologo.»

«Sono bellissimi. Ma il rumore è insopportabile. È come avere un martello in testa che ti colpisce continuamente. Neanche di notte c'è silenzio in questo posto.»

Il professore annuì con rammarico.

«Ha visto quei primati che saltano attraverso i rami? Ci seguono da quando siamo entrati nella valle.»

«Sono solo curiosi. Ma guardali bene, alla minima disattenzione, ci ruberanno tutti i bagagli.»

Ci fermammo sulla riva di un piccolo ruscello. Quando i portatori tentarono di attraversarlo, l'acqua li sommerse fino al collo. Dovemmo scaricare i bagagli dai muli e portare i fagotti sulla testa per evitare che si bagnassero.

«Fate attenzione, ci sono alligatori in questa zona» avvisò la guida.

Sentendo queste parole, accelerammo il passo. Fortunatamente la corrente non era troppo forte in quel tratto.

«Avete visto?» commentò James, indicando l'altra riva. «Non avevo mai visto piante di simili dimensioni.»

«Sono piante acquatiche» aggiunse Esteban. «Possono arrivare a misurare più di un metro di diametro.»

Raggiunta l'altra sponda attraversammo una zona paludosa e il ritmo rallentò ancora di più. Quel viaggio stava diventando un vero incubo.

James lasciò la guida per un momento e si avvicinò al nostro fianco per sussurrarmi all'orecchio che non dovevamo staccarci dal gruppo. Ci stavano osservando da molto tempo.

«Chi ci segue?» chiesi allarmata, guardando in tutte le direzioni.

«Penso che facciano parte di qualche tribù. Mantieni la calma. Se avessero voluto attaccarci lo avrebbero già fatto.»

In quell'occasione aveva ragione. Ci stavano osservando da un bel po' fino a quando non attraversammo il loro territorio.

Le notti erano ugualmente complicate. Riuscivamo a malapena a dormire. Solo un buon fuoco teneva lontani serpenti, scorpioni e, ancora più preoccupante, la vicinanza di qualche puma.

Una sera ci accampammo vicino ad una piccola grotta rocciosa e quella notte iniziai ad ammalarmi. La febbre non smetteva di salire e il chinino che mi iniettarono mi fece effetto a malapena. La mattina seguente notai un piccolo miglioramento e decisi di continuare il viaggio. Ma un paio d'ore dopo iniziai a sentire le vertigini, la fronte mi bruciava proprio come la sera precedente e finii per svenire ai piedi del professore.

È l'ultima cosa che ricordo finché non mi svegliai due giorni dopo in una piccola capanna di giunchi. Quando aprii gli occhi mi girava ancora la testa, mi voltai a destra e vidi come il professore sorrideva.

«Sembra che la febbre sia diminuita. Ti senti meglio?»

«Sono molto stanca. Ma la mia fronte non scotta.»

«È un buon segno» rispose, posando una mano sulla mia fronte. «È proprio quello che ha detto lo sciamano.»

«Sciamano?» ripetei sorpresa.

«Siamo stati in un villaggio indigeno per due giorni. Era l'unico posto dove potevano curarti.»

«Ma di cosa sta parlando?»

«Hai contratto la malaria» rispose solennemente.

«È tutta colpa di Henson. Dovevamo prendere l'altra strada. Non è nemmeno presente quando si ha più bisogno di lui.»

«Questo non è vero, Margaret. Ha passato gli ultimi due giorni senza mai separarsi da te. È riuscito a malapena a dormire.»

Non mi aspettavo di sentire quelle parole e rimasi in silenzio.

«Se non ti avesse portata al villaggio, non saresti sopravvissuta un altro giorno. Dovreste appianare le vostre divergenze.»

«Ma lui non ascolta nessuno. Vuole sempre avere ragione. È insopportabile.»

«Sta solo facendo il suo lavoro. Se ti mettessi al suo posto lo capiresti meglio.»

In quel momento James entrò nella porta sussurrando una canzone …

«Vedo che stai meglio.»

«Sono guarita» assicurai abbozzando un lieve sorriso.

«Ti porto la colazione. Un po' di frutta fresca e del tè. Lo sciamano mi ha assicurato che con questa miscela di erbe e una settimana di riposo ti sentirai come nuova.»

«Non possiamo aspettare una settimana!» esclamai allarmata. «I canadesi saranno in vantaggio su di noi e la spedizione precipiterà.»

«Dimenticali. C'è ancora molta strada da fare.»

«Volevo ringraziarti per esserti preso cura di me in questi giorni.»

«Non devi farlo. È stato un piacere.»

«Potresti portarmi il mio bagaglio? Devo essere orrenda.»

«Come desideri, Maggie» rispose con un ampio sorriso. «Anche se non ne hai bisogno.»

Era la prima volta che pronunciava quelle parole ma lo faceva con tanta tenerezza che non riuscii a rispondergli. Da quella mattina la mia opinione su di lui cominciò a cambiare.


Due giorni dopo riprendemmo la marcia. I primi giorni viaggiavo a dorso di mulo, cercando di non essere un peso per il resto del gruppo. Mi sentivo esausta.

Un pomeriggio finalmente avvistammo le aspre montagne all'orizzonte, ci lasciammo alle spalle le ultime vestigia della foresta amazzonica ed entrammo nell'Altopiano. Dovemmo attraversare alte montagne con profonde vallate dove la vegetazione cresceva con difficoltà.

Il percorso era segnato da piccoli villaggi dove la maggior parte della popolazione era impegnata nelle miniere. L'afa e l'umidità lasciarono il posto ad un caldo secco durante il giorno e un freddo intenso di notte. A poco a poco notai come la mia salute migliorasse a passi da gigante.


Una fredda mattina arrivammo a Potosí, l'epicentro minerario di quella regione. Accanto alla miniera, gli spagnoli avevano costruito una città per sfruttare i giacimenti d'argento. Gli indigeni lavoravano per un salario minimo in condizioni così disumane che molti di loro non riuscivano a sopravvivere. Il servizio nelle miniere durava un anno e gli era stato vietato di tornare a lavorare al loro interno fino a quando non ne erano trascorsi altri sette, ma molti indios si facevamo assumere di nuovo come lavoratori liberi.

Passammo oltre le case precarie dove vivevano i minatori con le loro famiglie e attraversammo il centro della città. Quel posto era diventato un'area ricreativa piena di mense e bordelli notturni dove i minatori avrebbero speso i loro soldi dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro. Ci saremmo fermati il tempo sufficiente per caricare le scorte e passare la notte.

Quel pomeriggio James andò a fare acquisti. Il professore ed io restammo in una locanda di pulci e scarafaggi di cui preferisco non parlare. Dopo aver riposato per un po', il professore uscì a prendere aria mentre guardavo dalla finestra della mia stanza come ciò che chiamavano progresso aveva trafitto le pendici di una montagna lasciandola quasi vuota all'interno. Un forte odore di mercurio e zolfo mi colpì il viso e dovetti chiudere la finestra.

Il professore era appoggiato al lungo ponte che attraversa il fiume e stava fumando la pipa quando, all'improvviso, apparvero alcuni ragazzi che lo afferrarono di colpo e lo trascinarono in fondo alla strada. Provai ad urlare, ma avevo così paura che non ero in grado di articolare una parola. Rimasi in un angolo a piangere fino alla comparsa di James.

«Lo hanno rapito in pieno giorno?»

«Non c'erano quasi nessuno per strada» risposi angosciata.

«Che aspetto avevano?» chiese, lasciando il cappello su una sedia.

«Non sembravano della zona. Uno di loro mi ha ricordato un canadese che cenava a Cartagena.»

«Ma con che razza di gentaglia abbiamo a che fare ?!» esclamò con rabbia.

«Andiamo dalla polizia» suggerii disperata.

«Non servirà a nulla» rispose, scuotendo la testa. «Li corromperanno facilmente.»

«E allora?»

«Aspetteremo il prossimo passo.»

Dopo tre ore, finalmente ricevemmo notizie dai canadesi. Mandarono la guida che avevano assunto a Cartagena con una proposta.

Ci avrebbero restituito il professore sano e salvo se gli avessimo consegnato il documento che gli avevamo rubato in hotel. Ma c'era qualcosa che non rientrava nei nostri piani: dovevamo abbandonare la spedizione e tornare a Londra.

Quello non fu di nostro gradimento, ma non avevamo altra scelta che accettare la proposta. Facemmo lo scambio quella notte e il professore tornò da noi senza un graffio.

Il mattino seguente raccogliemmo le nostre cose e tornammo per la strada che portava a Cartagena. Due portatori pagati dai canadesi ci scortarono fino alla costa colombiana, dove ci saremmo imbarcati su una nave a vapore per tornare in Europa.

Solo un dettaglio era stato trascurato. A mezzogiorno James parlò con loro e raggiunse un accordo pagando una somma di denaro superiore a quella che avevano ricevuto. L'affare fu concluso, ricevettero denaro da entrambe le parti e se ne andarono senza esitazione.

Ci voltammo e tornammo sullo stesso percorso. Avevano un giorno di vantaggio rispetto a noi ma c'era ancora molta strada da fare.


In una profonda valle racchiusa tra diverse montagne avvistammo finalmente la città di Cuzco, l'antica capitale dell'Impero Inca. L'ingresso alla città era fiancheggiato da una tripla parete a forma di zig-zag formata da grandi blocchi di pietra che la circondavano completamente.

Dopo aver attraversato la sua affollata porta salimmo per la strada principale, lasciandoci alle spalle vecchi edifici coloniali a due piani e numerose chiese. Durante il tragitto potemmo osservare che questa città non aveva quasi alcuna somiglianza con Cartagena de Indias. La maggior parte dei suoi abitanti erano discendenti degli Incas e la loro cultura era profondamente radicata.

Giunti ad una piccola piazza, attraversammo un mercato molto frequentato dove gli indigeni camminavano con diversi fardelli sulla schiena, schiacciati dall'enorme peso che sostenevano. I mercanti trasportavano la merce su carri di fortuna carichi fino in cima e le madri portavano i loro bambini appena nati in fazzoletti legati intorno al collo mentre gli anziani camminavano al loro fianco.

La strada era costellata di bancarelle di legno improvvisate con tende da sole precarie dove vendevano la loro merce: capi di alpaca, pelle conciata che tessevano a mano, tutti i tipi di frutta e verdura e alcuni pezzi di artigianato acquistati principalmente dalle élite locali. Alcuni parlavano in spagnolo mentre altri continuavano a mantenere viva la lingua Inca.

La cosa più sorprendente erano i loro abiti colorati; le donne indossavano ampie gonne dei colori più diversi, adornate con pittoreschi cappelli neri a bombetta, e gli uomini indossavano ampi poncho che li proteggevano dal freddo con enormi cappelli a tesa larga.

Sebbene la maggior parte della popolazione fosse indigena, erano ancora governati come il resto del Paese dalle élite creole, ex discendenti degli spagnoli.

A Cuzco avevamo in programma di incontrare l'archeologo Néstor Domínguez, che aveva informato la Società Geografica della scoperta fatta da alcuni contadini a circa centotrenta miglia dalla capitale. Quando persero i loro lama dovettero attraversare una vasta area montuosa dove trovarono i resti di una città sepolta dalla giungla.

Lavorava nell'archivio comunale accanto alla cattedrale di Cuzco, una delle più antiche di tutto il Sud America, situata nell'immensa Plaza de Anasen, il centro nevralgico della città, circondata da vecchi edifici con splendidi portici.

Appena entrati nell'edificio del Cabildo, si accedeva ad un magnifico chiostro che mi ha affascinò per la sua grande bellezza non appena lo vidi. Era un antico palazzo barocco di origine spagnola acquisito dal Consiglio Comunale a basso prezzo.

Era costruito su un patio rettangolare a due piani che poggiava su archi semicircolari con colonne doriche.

Dopo aver attraversato il patio trovammo diverse sale trasformate in librerie piene di volumi classici in splendidi scaffali gotici. Al piano superiore si accedeva per una scala a chiocciola sormontata da una raffinata balaustra.

Quando arrivammo, non c'era nessuno alla reception e cercammo al piano terra senza fortuna. Finalmente udimmo un rumore all'ultimo piano e decidemmo di salire.

«Lei è il signor Dominguez?»

Il peruviano si voltò e annuì.

«Il Signor Henson, suppongo» rispose con un grande sorriso. «Benvenuti nell'antica capitale del Perù. Spero che abbiate fatto un buon viaggio.»

«Non tanto quanto ci aspettavamo» risposi, con tono sarcastico.

«Non sarete abituati a questo caldo in Inghilterra. Immagino che il viaggio sarà stato duro» aggiunse. E ci strinse la mano.

«Questo è stato il minore degli inconvenienti» puntualizzò James mentre lasciavamo i pesanti zaini sul pavimento. «Margaret si è ammalata di malaria, il professor Cooper è stato rapito e abbiamo una dura concorrenza per la spedizione.»

«Lei mi lascia senza parole» ci assicurò, sorpreso. «Andiamo nel mio ufficio, deposito questi documenti e partiamo.»

Attraversammo la sala della biblioteca, uscimmo per la porta sul retro e percorremmo un corridoio attraverso il quale raggiungemmo l'altra ala dell'edificio.

«Sa se qualcun altro è stato informato della scoperta?»

«I contadini hanno avvisato le autorità locali. Quindi la notizia ha raggiunto la capitale.»

«Allora non siamo gli unici a cercare la città.»

Attraversammo uno stretto corridoio decorato con splendidi arazzi spagnoli che rappresentavano l'evangelizzazione delle Indie.

«Ci sono molti cacciatori di tesori in questa zona. Ma nessuno possiede l'attrezzatura necessaria per dissotterrare una città sepolta nella giungla per secoli.»

«Penso che adesso ci sia qualcuno» aggiunse James con rassegnazione. «La concorrenza di cui parlo è l'Università del Quebec.»

Udimmo varie persone parlare a voce alta in fondo ad un patio. Nestor ci spiegò che era una sala in cui i cittadini presentavano le loro lamentele al Cabildo.

«Sono già stati qui in occasioni precedenti. Spazzano via tutto ciò che trovano e non contano affatto sugli archeologi locali.» Nestor proseguì imperterrito, aprì la porta del suo ufficio, lasciò i documenti su un tavolo e chiuse a chiave.

«Ha preparato tutto?» volle sapere James, angosciato dal vantaggio che i canadesi avevano su di noi.

Il peruviano annuì soddisfatto.

«Andiamo a casa mia» disse indicando il fondo della piazza quando lasciammo l'edificio. «Non è lontana da qui.»

Nestor era un creolo di origine spagnola, moro e di media statura che aveva sempre un sorriso sul volto. Appassionato della cultura Inca, aveva studiato nella città di Lima e aveva imparato abbastanza bene la nostra lingua. Mi piacque fin dall'inizio.

Era uno dei primi archeologi della zona sudamericana abituato a gestire spedizioni straniere. Nel suo Paese non c'era molto interesse a recuperare il patrimonio locale e c'erano poche ricerche che potevano essere finanziate.

Non ebbe altra scelta che far parte delle diverse spedizioni che altri Paesi sviluppavano nella zona.

Attraversammo la piazza e scendemmo per una strada così acciottolata che sentii lo scatto delle mie ginocchia in un paio di occasioni. Svoltando in fondo c'era la sua casa, un'abitazione uniforme attaccata ad uno dei vecchi muri di pietra.

«Accomodatevi nella mia umile casa» disse con un piccolo cenno del capo dopo aver aperto la porta.

La casa disponeva di due stanze piuttosto austere. Una piccola stanza che fungeva da camera da letto e da ufficio e un ampio soggiorno decorato con dipinti dei suoi antenati, che mettevano in risalto un vecchio arredamento del periodo coloniale e un divano sfilacciato. In fondo c'era un cortile interno pieno di piante con due enormi cactus.

«Accomodatevi nel soggiorno. Ho qualcosa di importante da mostrarvi.»

In quel momento apparve con un piccolo oggetto avvolto in un fazzoletto di seta che appoggiò sul tavolo.

«Questa forziere è stato trovato dai contadini in uno dei templi della città» spiegò mentre ci avvicinavamo per vederlo.

Il forziere di piccole dimensioni era lavorato in una pietra vulcanica molto comune in Sud America chiamata ossidiana e aveva scolpiti rilievi su ciascun lato: il bassorilievo della parte superiore rappresentava una costellazione di stelle dove spiccava la figura di una divinità al centro, mentre il bassorilievo dell'area inferiore aveva cinque piccoli simboli incorniciati in legno e disposti orizzontalmente.

«Cosa c'è dentro?» chiese James.

«Il forziere è sigillato» rispose con un'alzata di spalle. «Non sono riuscito ad aprirlo.»

Prese una lente d'ingrandimento da un cassetto e ce la porse.

«Questa è una rappresentazione di Hanan Pacha, il mondo celeste» disse, indicando il primo bassorilievo. «Solo le persone giuste possono accedervi, attraversando un ponte fatto di capelli umani. Lì vive il dio Viracocha.»

«È magnifico» risposi con entusiasmo.

Nestor mi rivolse un grande sorriso. L'interesse che gli stavo dimostrando era importante per lui.

«Tuttavia, i simboli del bassorilievo inferiore sono sconosciuti per me.»

«Non ho mai visto niente del genere» intervenne il professore. E si avvicinò la lente d'ingrandimento il più possibile per vedere più chiaramente.

«Lavoro con le iscrizioni Inca da più di dieci anni e siamo riusciti a decifrare solo il trenta percento.»

«Forse Margaret può aiutarci» aggiunse James. Prese l'oggetto dalle mani del professore e me lo diede «Conosci qualche simbolo del bassorilievo?»

«Riconosco gli stessi che Nestor ha descritto. Ma forse con il dono dei canadesi scopriremo qualcos'altro» annunciai estraendo un taccuino dalla mia borsa.

«Ma ho visto come l'hai restituito» esclamò sorpreso.

«Ho avuto abbastanza tempo per copiarlo prima di ammalarmi.»

«Brava, Margaret» rispose. Penso che fosse la prima volta che si congratulava con me per qualcosa.

Mi avvicinai al patio dove c'era più luce e potei vederlo più chiaramente. Tenendolo tra le mani provai un forte brivido che percorse il mio corpo. Quel materiale era scivoloso e freddo come una pietra levigata.

«Dove avete trovato questo documento?» chiese Nestor.

Lo guardava con gli occhi così spalancati che sembrava aver scoperto il tesoro di Montezuma.

«È la trascrizione più completa che abbia mai visto dalla lingua Inca allo spagnolo.»

«È stato nelle nostre mani per un breve periodo» commentò James. «Ti racconterò la storia più tardi.»

Poi lasciai il documento sul tavolo e confrontammo i suoi simboli con quelli del forziere per più di un'ora.

«Penso che questo sia il primo» dissi, indicando il bassorilievo del forziere e il suo omonimo nel documento. Questo è il simbolo dell'acqua.»

«Acqua? Potrebbe riferirsi a qualche tipo di alluvione.»

«È una zona montuosa» spiegò Nestor. «Lì le piogge sono abbondanti.»

«Cosa ne pensa, professore?»

Era rimasto in silenzio per un po' senza dire nulla.

«Il clima attuale è molto diverso da quello di mille anni fa. In Europa, le temperature cambiarono intorno all'undicesimo secolo. Il clima freddo e umido lasciò il posto ad un'epoca più calda grazie alla quale le colture sono migliorate e le carestie si sono ridotte.»

«Qualcosa di simile potrebbe essere accaduto in questa zona» sottolineò James. «Ma è impossibile sapere se il bassorilievo parla di un'inondazione. Ci sono ancora quattro simboli da decifrare.»

«È vero» assicurai. «Non possiamo saltare a conclusioni affrettate.»

«La cosa migliore sarà aspettare. Non sappiamo cosa ci aspetterà nella città andina» disse il professore.

Nestor annuì.

James sembrava inquieto quella sera. Durante il tragitto aveva commentato che le sue precedenti spedizioni consistevano in un precedente studio della zona e in un successivo scavo del luogo. Non aveva mai fatto una spedizione con una dura concorrenza fin dal primo giorno, accompagnato da malattie e scrigni enigmatici. Quel giorno feci ciò che il professore mi suggerì, mi misi nella sua pelle e capii che non era facile dirigere una spedizione del genere.


Dopo esserci rinfrescati, Néstor ci invitò a cena quella sera in un ristorante nel centro della città in modo da poter assaggiare il gustoso cibo andino. Dopo diversi giorni nella giungla lo ringraziammo profondamente.

La locanda si trovava nel cortile interno di un antico palazzetto rinascimentale. Gli archi semicircolari erano decorati con motivi floreali di vari colori accanto a due rampicanti che salivano fino al soffitto.

Un intenso profumo di gelsomino accompagnava una leggera brezza in quella splendida notte.

Ci sedemmo in fondo al patio ad un tavolo di noce con tovaglie di pizzo bianco. Il cameriere ci servì immediatamente due grandi brocche di vino e alcuni pomodori conditi con mais.

«Cosa desiderate per cena?» chiese un cameriere magro con grandi guance rosa.

«La specialità della zona è l'alpaca al forno con yucca fritta» commentò Nestor, come se fosse il piatto più squisito della gastronomia mondiale.

«Apprezzo il tuo suggerimento» risposi dopo alcuni istanti di riflessione. «Proverò l'alpaca. «E lei, professore?»

«Mi va un po' di pesce.»

«Penso che il ceviche le piacerà» aggiunse Nestor.

«Io prenderò fagioli con patate» disse James.

«Solo dei fagioli?» rispose Nestor un po' offeso. «Dopo il tempo che avete trascorso nella giungla, ho pensato che avreste avuto fame.»

«Non ho molto appetito. Ma per il disturbo che ti sei preso stasera, farò uno sforzo. Proverò qualche piatto tipico.»

Il cameriere, che aveva già preso nota dei fagioli e stava andando in cucina, tornò su insistenza di James.

«Mi scusi, cambierò il piatto. Mi porti la vigogna saltata con purè di patate e mais.»

Il cameriere annuì senza prendere nota.

Continuammo la cena commentando vari aneddoti della nostra spedizione. Quando guardai i commensali che si erano seduti al resto dei tavoli, vidi l'enorme miscela razziale di quella zona: creoli, mulatti, meticci, indios e neri.

«Sapete se la Geographical Society sta pianificando di aprire una filiale in Sud America?» chiese Nestor. «Ci avvisa solo per lavori sporadici.»

«Ciò dipenderà in gran parte dal successo della nostra spedizione.»

«Spero che questi anni di collaborazione servano a trovare un buon incarico» suggerì Nestor mentre gustava il suo bicchiere di vino.

«Sono molto contenti del tuo lavoro. Se decidono di fondare una filiale avrai un incarico importante.»

Nestor abbozzò un dolce sorriso.

James aveva ragione. Le spedizioni in Sud America non erano state molto importanti fino a quel momento. La nostra spedizione poteva significare un prima e un dopo nell'interesse degli europei per le spedizioni archeologiche nel territorio americano. Il problema più grande era la distanza.

Andai al bagno al piano di sopra. Quando passai tra i tavoli sentii come mi guardavano, anche se non sfacciatamente come a Cartagena de Indias. Mi faceva sentire a disagio, non sapevo se fossero i miei vestiti o i miei capelli, ma non avevo altra scelta che iniziare ad abituarmi.

Il cameriere finalmente arrivò con i piatti che avevamo ordinato. Eravamo affamati.

«Ecco qui i fagioli, l'alpaca, il pesce e un piatto di arachidi, uova strapazzate, mais e manioca.»

«Mi scusi, ma le ho detto di cambiare i fagioli con un piatto di vigogna» sottolineò James. «E non abbiamo ordinato manioca e mais.

«Scusi, signore. Deve esserci stato un malinteso con l'ordine.»

Dall'altro tavolo un ragazzo che stava ascoltando la conversazione si rivolse a noi.

«Ehi, amici! Anch'io ho ordinato fagioli. Se non lo mangiate, terrò io quel piatto. Non mangio da ore.»

«Ed io prenderò l'uovo strapazzato e la yucca» aggiunse James. «Continuo a non avere appetito. In questo modo non dovrà restituire nessun piatto in cucina.»

«Grazie, signore. Mi scuso di nuovo per la confusione.»

Continuammo con una cena molto piacevole. Nestor ci raccontò diverse storie che aveva vissuto in spedizioni precedenti.

«Avevi ragione tu. È delizioso» commentai a Nestor quando mi mise in bocca un boccone di alpaca «Sai come lo condiscono?»

«Non saprei. Mi piace il buon cibo, ma non sono un esperto. Chiederemo al cameriere quando tornerà.

«Sai scegliere molto bene ciò che mangi» risposi sorridendo.

«Grazie. È un complimento.»

Continuammo a chiacchierare tra le risate fino a quando, all'arrivo dei dessert, il ragazzo al tavolo accanto sentì un forte dolore addominale e cadde a terra fulminato. Tutti noi commensali ci alzammo dalle sedie allarmati. Il direttore chiamò un medico che si trovava in una sala attigua alla nostra, ma quando arrivò era già tardi e non poté fare nulla per salvargli la vita.

«Non era quello il tipo che ha mangiato i fagioli?» chiese Nestor.

«Esatto» ribadì il professore. «Quelli che James aveva ordinato.»

«Non mi piace per niente» risposi spaventata.

L'Eredità Perduta

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