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CAPO I.
La Manumissione.

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Indice

Nell'anno 1160 vivea in Saluzzo un arimanno[1] per nome Berardo della Quercia, il quale godea da lungo tempo tal grazia del suo signore, Marchese Manfredo, che sarebbe quasi potuta dirsi amicizia. Berardo, sfuggendo gli onori della corte e stando ordinariamente nei suoi campi, venia visitato dal Marchese e consultato sopra molti capi del suo governo: tanto era noto il retto animo ed il senno di quel buon suddito, per nobili prove ch'egli spesso ne avea date; e tanto a far pregiare simili doti giovava la sua singolare modestia.

Giunse fino ai principii della vecchiaia senza patire gravi sciagure; ma egli avea partecipato alle altrui, come se fossero sue, e quindi il cuore non gli si era indurato dalla prosperità. Giovanna sua moglie, di nascita egualmente umile, ma di spiriti gentili, avealo fatto padre di più figliuoli. Due soli rimaneano, Eriberto e Rafaella; quello in età di oltre vent'anni e questa di sedici. Gli altri erano stati mietuti dalle guerre di Cuneo; villaggio allora di poco antica fondazione, ma che già prendeva aspetto di città, e tutto composto di ardimentosi, che voleano vivere a popolo, a guisa di Asti e di altre città italiane.

Il favore del Marchese non redimeva Berardo dal poco pregio, in cui il più de' Baroni, in cuor loro, teneanlo; perchè semplice arimanno; ed era anzi cagione che alcuni lo abborrissero.

Fra questi annoveravasi Villigiso, signore di Mozzatorre, uomo prode, ma d'anima abbietta; il quale abborriva Berardo particolarmente, perchè questi l'aveva fatto stare a segno, alcuni anni addietro, quando, trovandosi entrambi ad una festa di nozze campestri, Villigiso s'era arrogata una famigliarità insolente colla sposa. Il marito erasi adirato e Villigiso l'avea percosso. Dove Berardo, non solo difese arditamente que' contadini e costrinse il temerario a ritirarsi; ma accusati quelli da Villigiso, Berardo sostenne la loro innocenza, e fu cagione che Manfredo pubblicasse una legge che tutelava sotto gravi pene, i matrimonii de' villici contro l'audacia de' Baroni. Dopo alcun tempo di lontananza dalla corte di Saluzzo, Villigiso fu rimesso in grazia; e benchè trattando poi con Berardo, mostrasse di non serbar memoria dello smacco ricevuto e desse anzi vista di condannare i proprii torti della gioventù, pure segretamente abborrivalo e meditava vendetta.

Per mala ventura accadde, che il segretario di Villigiso, frugando in carte dimenticate da molti anni, trovò un documento, il quale indicava che Berardo della Quercia avea avuto per avo un servo del barone. Notavasi che questo servo era fuggito nella gioventù, avendo un bambino chiamato Iseppo; il quale, per testimonianza di molti, preso il mestiere dell'armi, era ito a combattere pel sepolcro del Salvatore. Il segretario poi si ricordò d'avere inteso dire che Berardo fosse figliuolo d'un crociato, posatosi già vecchio in Saluzzo. Prese maggiori informazioni, ed accortosi del fatto, il segretario diè di ogni cosa contezza al barone.

Come prima questi vide il documento ed ebbe esaminate le prove, che poteansi avere dell'identità del servo fuggito e dell'avo di Berardo, egli tenne per fermo il suo trionfo di prostrare a' suoi piedi quest'infelice con tutta la sua famiglia. Mosse dunque con questo intento a Saluzzo, e palesati i suoi diritti al Marchese, dimandò giuridicamente il nipote del servo fuggito.

Manfredo era scrupoloso osservatore della giustizia, e non l'avrebbe violata se anche si fosse trattato del proprio figlio. Egli fece venire Berardo in giudizio e mostrogli il documento e le testimonianze, questi confessò d'avere avuto per padre il crociato Iseppo; di che egli fu posto in balìa di Villigiso. Secondo le leggi di quei tempi, chi usurpava la libertà o godea libertà usurpata da' suoi maggiori, era quasi reo d'un furto, e niun potente, senza acquistar fama di tiranno, avrebbe potuto sottrarlo al dominio del padrone che lo richiedesse. La scoperta di tali usurpazioni di libertà non era avvenimento raro e se ne leggono parecchi esempii nella storia di quei tempi. I servi fuggiti ripatriavano talvolta in vecchiaia, attratti dall'amore del luogo natio, o dopo di loro ripatriavano i figliuoli, con fiducia d'impunità che non era sempre irragionevole. Giacchè dove trattasi di cose o persone non illustri, pochi traslocamenti, pochi intervalli, poche vicende oscure, sfuggite all'occhio altrui, bastano spesso a fare smarrire la cognizione dell'origine e a farne attribuire una diversa dalla vera. Tali ragionamenti avevano ispirato fiducia al crociato Iseppo: e la fiducia doveva essere naturalmente ancor maggiore in Berardo.

Ecco dunque un'onesta famiglia caduta nell'obbrobrio! Ma se Manfredo, per non ledere il diritto del barone suo vassallo, avesse abbandonato l'uomo che egli onorava ed al quale era avvinto da gravi debiti di gratitudine sarebbe stato un mostro; e tale non era. In Saluzzo, nel suo territorio, ne' vicini marchesati, non sussurravasi più d'altro che dell'infelice sorte di Berardo. Il volgo che, durante la sua prosperità, non ristava dall'invidia e lo malignava, ora non ricordavasi più se non delle sue virtù e lo compiangea. Di che ai mercati di Saluzzo affluiva gente dai luoghi vicini e lontani, non tanto per comperare e vendere quanto per udire se le sventure di Berardo non avessero qualche riparo.

Brulicava di popolo, in uno di tai giorni, la piazza di Saluzzo, e si udivano da ogni lato frapporsi al grido del prezzo delle merci e alle altre voci di mercato i nomi di Berardo, di Giovanna, di Rafaella, d'Eriberto. Centinaia d'oratori di eguale facondia e tutti poco informati declamavano senza gran fatto sentirsi a vicenda, trasformavano i desiderii e i presentimenti in realtà, narravano stravaganze, che nulla avevano che fare con quel fatto, fuorchè nutrire l'universale cordoglio. Questi veniva contradetto da quello, contendevano, s'ingiuriavano, ed invocavano per testimonio chi il vicino, che nulla non sapea di meglio, chi l'astrologo che disceso con gravità dal banco, s'offriva di dar lume alle parti altercanti. Gl'interrogati decidevano la questione con nuove congetture e nuove favole, rimanendo ognuno sempre più all'oscuro di quanto tutti bramavano sapere.

— Berardo è di schiatta libera quanto la mia (urlava uno); e lo calunnia atrocemente chi lo vuole d'origine vile. Io conobbi suo padre quando tornò di Terra Santa; il nostro marchese Bonifacio, di gloriosa memoria, ve l'avea mandato fra gli arimanni capitanati da suo fratello.

— Ed io non dissi essere stato lui ciurma di schiavi (gridava un altro); bensì che Berardo non sarebbe stato giudicato servo di Villigiso, se ciò non fosse ben provato.

— Provato un fico! vi dico io. Il Marchese è uomo; e quantunque savio come suo padre potrebb'essere ingannato.

— Sì! ingannato! Eh! che non si può errare, quando non si tratta di niente più in là dell'avo di un cristiano. È vero che il crociato generò qui nella vecchiaia il povero Berardo, e che il crociato era pur nato di padre vecchio; è vero che questi era fuggito nell'infanzia e che lo avevano creduto affogato nel Chiusone o nel Pollice, e che niuno ponea più mente a quella schiatta di servi. Ma quando il diavolo disseppellisce carte, che per disgrazia, serbano memorie in forza delle quali una famiglia onesta dee precipitare nella sventura, e quando l'infallibilità di quelle carte è accertata dai dottori, chi può dubitare del giudizio che ne viene pronunciato?

— Chi può dubitarne? Io! io che so quai brutti giuochi facciano talora, non so s'abbia a dire le apparenze, o il diavolo! I registri delle famiglie de' servi non si possono inventare, lo riconosco; e la pergamena dissotterrata sarà bella e buona per mostrare quali antenati abbia avuti il servo che s'affogò, o fuggì. Ma niuna pergamena palesa se quel servo sia piuttosto fuggito che affogato. Si acquistasse pure certezza della sua fuga, quasi un secolo dopo, allorchè i vermi avrebbero potuto mangiarlo venti volte; come volete che si dimostrino i viaggi da lui fatti, e si sappia che un tale, il quale anco è cenere da gran tempo, era suo figlio?

Sebbene questi e simili discorsi mostrassero la libertà del popolo nel discorrere del suo principe; non v'era però germe d'odio contro di lui, nè la minima diffidenza della sua equità: giacchè il marchesato (all'eccezione di Cuneo) riposava fedelmente nell'abitudine dell'obbedienza. Per quanto i mercati fossero romorosi e vi s'agitassero diversi contrarii pareri, niuna ombra ne prendeva il governante, niun notevole scandalo ne sorgeva nei governati. Pochi birri moveano su e giù per la piazza, non solleciti di far badare alla loro presenza, se non quando avvenissero gare di bastoni e di coltelli o si gridasse: al ladro!

Infatti, mentre fervea la multiplice conversazione accennata, ecco un suono di tromba sotto il portico doppio, e tutti volgersi rispettosi a quella parte. Un banditore facea sventolare la bandiera marchionale per intimare silenzio; e già niuno più zittiva. Tornò a sonare la tromba prolungamente, e tutti giubilarono, perocchè quel segno annunziava la discesa del Sire dal castello e qualche provvedimento che egli venisse a dare al cospetto del popolo.

Il portico doppio era un palazzo presentante due ordini d'arcate l'una sull'altra. Giunti dal castello il Marchese, la Marchesa, il loro figlio e numerosa comitiva, salirono sull'arcata superiore, e s'assisero nei proprii seggi, a vista di tutto il popolo. Qual fu la generale maraviglia quando, dopo aver fissato gli occhi sui personaggi seduti, si potè discernere, in un folto gruppo d'uomini e donne del seguito che stavano in piedi l'infelice Berardo, la moglie ed i figli.

— Come lassù? che vuolsi far di loro? Guardatelo là quel valentuomo! non umile più di prima, perchè era già tanto! non vergognoso, perchè e qual colpa ha egli commessa? non corrucciato, perchè chi mai amò al pari di lui il prossimo, compresi i nemici? E la buona Giovanna! E quell'angelica creatura di Rafaella? Ed Eriberto?

Queste ed altre esclamazioni, levatesi a un tratto da tanti petti, suonarono per l'aria, con quella specie di vibrazione che, agli orecchi degli uomini esperti di tali scene, indica animi commossi da affetti penosi, ma benevoli. Perocchè i bisbigli della moltitudine, sebbene composti di sillabe indistinte, hanno come la voce d'una persona individua, diversi caratteri, secondo la diversa passione che li suscita. Berardo capì; e levò gli occhi al Cielo. Le due donne capirono parimente, e nulla espressero all'altrui guardo, ma sotto i loro veli una segreta lagrima accompagnò l'atto di grazie che offrivano a Dio.

Il banditore ripigliò la tromba, e fe' di nuovo il cenno del silenzio. Allora Guglielmo di Manta, notaio del palazzo, s'accostò alla ringhiera con ampia carta in mano e lesse in quel grossissimo latino, che allora tutti intendevano, quanto segue:

«Nell'anno dell'incarnazione del Signore mille cento sessanta, terzo delle calende di Giugno, indizione eccetera. Io Manfredo, figlio del fu Marchese Bonifacio di buona memoria, dissi, presente ai presenti; Berardo della Quercia essendo stato generato da Iseppo, il quale fu generato da Antonio il quale era servo de' signori di Mozzatorre, come consta dal documento prodotto, ecc. ed esaminato, ecc. ecc. e dalla confessione di Berardo medesimo......

— Dalla confessione di Berardo medesimo! mormorò il popolo, con istupore e pietà.

Il notaio, udendo quel romore agitò in aria la carta; il banditore ripetè il cenno, e la piazza tornò ad ammutolire.

Ma troppo molesto sarebbe al lettore l'udire tutto intero il capolavoro di Guglielmo di Manta. Que' che l'udirono dalla sua bocca erano più pazienti di noi; e nondimeno lo interruppero tratto tratto con sbadigli, per isfogare così l'ingenito bisogno di varietà che è nell'uomo. In quel documento diceasi dunque che Berardo e tutta la sua famiglia, essendo servi del Sire Villigiso di Mozzatorre, questi era stato richiesto dal Marchese di venderglieli, e che l'accordo era seguito, mediante la cessione che Manfredo facea a Villigiso d'alcuni campi e di parecchi diritti colla giunta della somma di trecento genuine.

Manfredo inoltre dichiarava che l'acquistato servo Berardo gli s'era in molte occasioni mostrato zelante della sua gloria e pieno di sapienza; e che perciò esso Manfredo non volea, coll'opprimere sì degno uomo, meritarsi la dannazione eterna. Quindi proseguiva: «Io vostro signore, o Berardo, o Giovanna moglie sua, ed Eriberto e Rafaella figli loro, e tutta la futura discendenza di Berardo, mosso da benevolenza e da debito, statuisco essere voi liberos et absolutos iuxta legem ab omni vinculo servitutis; e statuisco esservi conceduto, in grazia della vostra libertà, ogni acquisto vostro, tanto per quel che avete, quanto per quel che potrete avere, ecc., e che sicut cives romani abbiate le porte aperte, ecc., et licentiam eundi et abitandi ea parte mundi qua volueritis. Infine, o mio Berardo e voi famiglia di questo giusto, ad recordationem huius libertatis et amoris mei, concedimus vobis tres petias terrae iuris nostri...... Vi concediamo tre pezzi di terra di nostro diritto, confinante coi campi che già possedete lungo il Po, ecc. Prima petia habet sex iornatas optimas ad celoyram[2]. La prima pezza contiene sei giornate ottime per l'aratro, e va dal fiume fino all'antico Olmo detto di Carlomagno, seguendo ivi il ruscello, ecc. la seconda contiene sei giornate di bosco, ecc., e la terza due di vigna.»

Non occorre narrare che alle parole: Statuisco esser voi liberi, il popolo fece tanto schiamazzo, che bisognò ricorrere alla tromba ed alla bandiera. Ma l'efficacia della tromba e della bandiera mal poteano reprimere i Viva Manfredo! Viva il nostro buon signore! Convenne al notaio rassegnarsi, e leggere quindi innanzi a brani ed a saltelli, ne' piccioli intervalli, in cui il popolo avea la compiacenza di ascoltare.

Finita la lettura, il Marchese discese dal seggio per firmare l'istromento, Berardo poi, con tutta la sua famiglia, essendosi avanzato per onorarlo, quegli non permise la genuflessione e li condusse verso la Marchesa, la quale alzatasi abbracciò amorevolmente le due donne.

Sottoscrisse pure, nascondendo i suoi fremiti, Villigiso, e firmaronsi come testimonii i seguenti fratelli di Manfredo: Guglielmo di Busca, Anselmo di Ceva, Bonifacio di Cortemiglia, Enrico di Savona, Oddone Boverio di Loreto. Ultimo firmossi il notaio Willelmus de Manta.

I viva allora non ebbero più freno. Dalle botteghe, da' poggiuoli, dalle finestre, tutti coloro che aveano qualche tromba, o flauto, o piffero, o piva, o liuto, o tamburo, o campanella, si diedero spietatamente a suonare. Per alcuni minuti fu una musica infernale; finchè tutto quell'orribile caos si mutò, a poco a poco, in un certo ordine non ingrato; perocchè ogni sonatore s'accordò al generale prorompere della volgarissima canzone, con cui soleasi dalla moltitudine far plauso ai suoi signori.

Laus et honor Manfrido de Vasto,

Filio quondam

Bonifacii;

Che vuol leve sul popolo il basto.

Onde portans

Domnum carum

Trotti e ragghi di gioia e d'amor.

Quoniam, quando il bastone ed il basto

Cruciant pellem,

Cruciant ossa,

L'infelice dall'omero guasto

Male ragghiat,

Malo trottat,

E il bussante rovescia talor.

Intanto che il rozzo inno dilettava o assordava gli orecchi, il drappello signorile con tutto il seguito calò al basso, e con istento avviossi alla chiesa di S. Chiaffredo, fendendo a mala pena la calca. Entrati tutti in chiesa, e locatisi nei banchi, uscì un Sacerdote a celebrar Messa. Il Vangelo dicea la guarigione dell'infermo che non potea gettarsi nell'acqua salutare di Betsaida, quando l'Angelo del Signore scendea ad agitarla. Voltosi allora il Sacerdote agli astanti predicò: «Era forse l'infermo di Betsaida così bruttato d'iniquità, che non meritasse di venire aiutato da alcuno? Anzi è da credere che fosse giusto; giacchè Dio vedendolo abbandonato da tutti gli uomini, mosse egli stesso per consolarlo e guarirlo. Miseri i potenti che non ascoltano la voce di Dio, la quale grida in tutte le umane coscienze: abbi rispetto alla sventura! perchè è il patrimonio di Adamo e de' suoi figli! Ma a noi, o Saluzzesi, toccò un potente che dobbiamo benedire. Il suo maggiore desiderio è d'adoperarsi a vantaggio degli oppressi. Il fulmine caduto sulla onesta casa di Berardo, non gli fe' crollare il capo e dire: È giudizio di Dio! Egli abbassò il capo con dolore e disse: Qual è il giudizio di Dio su di me? Ed intese che il giudizio di Dio era: Soccorri all'afflitto! E gli soccorse; e quelli che erano precipitati senza colpa nella servitù, vennero redenti: i meritevoli d'onore, vennero onorati...» eccetera, eccetera.

Terminata la Messa, Manfredo confermò dinanzi all'altare le manumissioni de' servi, in questo modo. Li fece passare dalla mano di Villigiso a quella d'altr'uomo libero e dalla mano di questo a quella d'un terzo, poi dalla mano d'un terzo alla propria. Egli condusse allora la graziata famiglia alla porta della chiesa, e disse, accennando le diverse vie della piazza: «Berardo, Giovanna, Eriberto, Rafaella, io vi ho statuiti liberi: ecco le vie che conducono ai quattro venti; avete potestà di andare ovunque v'aggradi». Berardo tornò all'altare dicendo: «La nostra prima via sarà quella che conduce al Padre delle misericordie». Ivi il Marchese, e la Marchesa e il loro figlio parteciparono coi servi liberati al mistico pane, che affratella tutti i credenti.

Non occorre che descriviamo la rabbia di Villigiso. Straniero ad ogni generosità, non previde che il marchese gli avrebbe chiesto in grazia la vendita de' servi, affine di manometterli. Ora questa richiesta gli era stata fatta in presenza di dame e di cavalieri, al cui parere, egli ricusandola, sarebbe stato villano, inoltre, come vassallo ch'egli era bisognoso di protezione, niuna onorevole proposta del suo signore avrebbe avuto ardire di respingere.

Splendido convito fu dato nel castello per sì lieto avvenimento: le sale erano addobbate di magnifici arazzi e di serti di fiori. Ma la sala delle mense era decorata specialmente di un fregio carissimo in que' secoli guerrieri, cioè di copiosa collezione d'armi parte acquistate in antiche o recenti vittorie, parte comperate per lusso. Ad ogni desco due sole persone sedeano, e ciascuna di queste coppie era servita da un siniscalco e da un paggetto riccamente vestiti. Il primo desco era quello del principe e della signora; il secondo era quello del loro figlio con una zia, seguivano i rimanenti zii, e zie, poi altri maggiori personaggi, infine Berardo e Giovanna, Eriberto e Rafaella. In altra desinavano parecchi ufficiali del castello; ed ivi traevano a reficiarsi i trovadori e i giocolieri negl'intervalli, in che alternamente ristavano dal trastullare il festino signorile con suoni e canti e mirabili destrezze d'ogni sorta.

Ai deschi illustri regnava quella spontanea famigliarità che facilmente si genera fra pari, e fra i nobili e signori era allora condita d'eleganza più poetica che non fra i volgari. I poco esperti, come Eriberto e Rafaella, stupivano il bello di tali maniere, e s'abbandonavano, con silenzioso compiacimento, a considerarlo e gustarlo. Anche si maravigliavano di certa indefinibile dissonanza, che appariva ogni volta che i cavalieri e le dame volgeano la cortese parola agli ultimi due deschi. La parola era cortese; parea la medesima cortesia che usavano dame e cavalieri fra loro; eppure non era. Ma Berardo non istupiva gran fatto nè al poetico, nè al dissonante delle due cortesie; le quali egli conoscea da lungo tempo. Mentre con disinvolta riverenza rispondea alle graziose proposte de' maggiori, o con affetto coniugale e paterno rallegrava i tre volti a lui più cari, nascondea il cruccio che prova ogni uomo irreprensibile e veggente ne' cuori umani, che sa di essere odiato e sprezzato ne' giudizi secreti di più d'uno che gli sorride. Nè ignorava come i cosiffatti avessero approffittato de' suoi giorni d'umiliazione per deprimerlo proditoriamente con vili calunnie.

Finito il pranzo, le mense furono tolte e nella medesima sala, che era la più grande del castello, uno stuolo di gente travestita rappresentò con gesto e cantò un'istoria non meno commovente che amena, nella quale si voleva alludere da lontano alla superata sventura di Berardo; ma volendo meglio salvare ogni decenza, il personaggio che ritraevalo significava un giovane longobardo, fatto prigione da' soldati del glorioso re Carlomagno. Supponevasi che molte menzogne fossero state scagliate da' maligni contro l'infelice; il quale non essendogli dato rintuzzarle, dal fondo del suo carcere cantava, in altre parole, questo lamento.

Cadde sopra il mio capo una sventura.

E il suo nome era: Fulmin di Regnante

E anni di ferro in atra sepoltura.

Ed io non dissi il flagel tuo pesante

Più che non merto; e il verme lacerato

Baciò l'impronta di tue sacre piante.

Ma un altro ne scagliasti; e fu chiamato

Stral di calunnia, e allor, gran Dio, perdona,

Se di te querelossi il dementato.

Ed esclamai: — Non è Dio che tuona

Su dalle sfere? E come va, gridai,

Ch'Ei vede il giusto oppresso, e l'abbandona! —

Empio era il grido; ma crudele assai

Più di carcere e morte è la ferita

Ch'ultima venne, e se mertata, il sai.

Dato preda a carnefici, ogni aita

Volsi dell'intelletto, onde immolata

Non fosse con la mia d'altri la vita:

E fra tutte una! E a questa era legata

L'anima mia con quanti dolci nodi

Amistà far potesse inviölata.

Se mai speranze, se promesse o frodi

Corruppero il mio cuore, al porto eterno

Ch'io mai della salute non approdi!

Or qual fu quello spirito d'inferno

Che, a miei dì più incolpati invidiando,

Sacri all'odio li volle ed allo scherno?

E per quale incantesimo esecrando

Color, che già m'amaro, all'empia voce

Gentilezza e pudor misero in bando,

E sitibondi alla calunnia atroce

Posero il labbro, e poichè furono empiuti,

La riversar con ebbrezza feroce?

Spietati! e non doveano incerti e muti

Almeno starsi, o chiedere ove indici

Fossersi in me di codardia veduti?

E i giorni miei più lieti e più infelici

Risposto avriano: — Ei non fu mai codardo! —

Nè smentirli poteano i miei nemici.

Or chi lo stigma raderà bugiardo,

Onde al mondo segnato è il nome mio?

Chi mi svelle dal cor l'infame dardo?

Ah! dalle nubi odo risponder: — Io! —

Ma quando, o sommo giudice? Deh, affretta,

Sì che a me più non maledica il pio;

E l'amico fuggito alla vendetta

Dell'aspro fato, e i figli a lui rapiti

Sappian qual di me son parte diletta;

E il padre mio e la madre, incanutiti

Per me nel pianto, alzin la fronte ancora;

Chè i lor capei non fur da me avviliti

Nè il saran mai, per quanto oppresso io mora.

I versi erano in qualche armonia co' pensieri di Berardo; sebbene diverse dalle calunnie, che corrucciavano il giovane Longobardo, fossero quelle che egli sentia pesare sopra di sè. Villigiso se n'accorse; perocchè vide gli occhi di Berardo ardere di magnanimo sdegno, mirando parecchi de' circostanti, e più se medesimo; e quelle occhiate lo conturbavano e gli crescevano l'odio.

La rappresentazione mostrò poscia il giovane, uscito di carcere e ritornato fra' suoi cari, ove, dimenticate le offese de' maledici, cantò un inno di consolazione.

Tutta la favola piacque assaissimo, particolarmente alle donne, delle quali la più intenerita era Rafaella. Ma la sua commozione nasceva dalle tristi peripezie del finto Longobardo, o dal fascino che spargeasi dall'arpa, dalla voce e dal ciglio del trovadore, che vestia quella parte? Sua madre la mirò e impallidì. Anche il padre ed il fratello la mirarono, ma nulla scorsero: chè solo a pupille di madre non isfuggono i segreti delle dilette figliuole.

La brigata finalmente si sciolse. Tutte le balze e le valli saluzzesi si rallegrarono per due giorni della buona sorte di Berardo, per ricominciare al terzo ad eccheggiare di nuovo delle inevitabili mormorazioni dell'invidia, che non perdona ad alcun felice.

Rafaella

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