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CAPO II.
Il Rapimento.

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Non fu lunga la felicità di Berardo. I Milanesi erano in aspra guerra coll'Imperatore Federico I, detto Barbarossa, il quale avea deliberato di toglier loro le franchigie, che due anni prima egli stesso avea riconosciute per legittime. Alcune città lombarde parteggiarono per Milano; ma altre, per antica rivalità, e la maggior parte dei principi per debito di vassallaggio, tenevano per Federico: il quale, insofferente d'ogni opposizione e feroce per natura, dappertutto recava terrore ed esterminio. Già col ferro e col fuoco avea distrutto dalle fondamenta nobilissimi borghi ed intere città, come Chieri, Asti e Tortona: e vago di compiere in breve l'impresa, non cessava di chiedere forti schiere a tutti i suoi feudatarii di Germania e d'Italia. Di che il marchese Manfredo desideroso di dare all'Imperatore valorosi soldati, e vago di rimunerare il valore che Eriberto avea mostrato contro Cuneo, inviollo in quella circostanza, capitano d'una squadra, al campo cesareo. Ma la partenza d'Eriberto fu cagione d'assai lagrime a' genitori e alla sorella: la quale piangendo per la partenza del fratello tremava pur molto per la vita d'un altro.

Questo era Ottolino, quel trovadore che rappresentò sì bene la parte del Longobardo. Ottolino figlio d'un guerriero oscuro di nascita, ma prode e amico già di Berardo, era amicissimo di Eriberto: ed educato come lui, nel monastero di Staffarda dall'egregio Abate Guglielmo. Da lui egli aveva imparato non solo a leggere e scrivere, due scienze rare in quel secolo, ma ad intendere ancora il latino dei libri sacri, dalla lettura dei quali avea ricavata un'idea elevatissima de' doveri dell'uomo verso Dio e verso il prossimo; il che conciliavagli la stima degli uomini gravi. Avea inoltre imparato a sonare, cantare e poetare con grazia inimitabile, il che lo rendeva amabile a tutti e gratissimo nei ritrovi.

Nelle feste della Regina degli Angioli Ottolino componeva a suo onore inni divoti; a Natale poetava, per la cara scena del presepio, le cantiche pastorali: nella settimana santa cantava le lamentazioni, ed a Pasqua gli alleluia, di che i monaci di Staffarda attribuivano sì bell'ingegno ad un favore particolare di S. Cecilia, protettrice de' bei suoni e de' bei canti. Ai suoni gravi dell'organo Ottolino cominciò poi ad accoppiare le dolci armonie dell'arpa: e spesso nella selva cantava le sciagure de' cavalieri; il che alcuni dei monaci poco approvavano, dubitando forte che S. Cecilia si curasse molto di ispirare tali poesie. Ma non si scandalizzava già l'Abate che ben conosceva il suo discepolo. Severissimo verso se stesso, egli era indulgente ad altrui e specialmente ai giovinetti, purchè non ne scorgesse malvagia la volontà. Permetteva perciò ad Ottolino le canzoni cavalleresche: e sebbene i luoghi della selva, nei quali il giovane più amava d'arpeggiare, fossero i più cupi e quelli che aveano fama d'essere incantati, non gli vietava di frequentarli, e raccomandavagli di guardarsi dai ladri.

Uscito Ottolino, già da due anni, dal monastero, avea combattuto valorosamente contro Cuneo. Suo padre, spirando carico di ferite fra le sue braccia, gli avea consegnato il proprio ferro e dettegli questo parole: «Sii prode ma giusto; affinchè Dio faccia misericordia all'anima mia». Parole che egli ricevette nel profondo del cuore con viva credenza: sì che d'indi innanzi, anelando alle buone e prodi azioni, avea in mente il padre e offerivale in suffragio dell'anima sua.

Rafaella ammiravane in cuor suo la bontà e il valore ed affliggeasi di tutti i suoi pericoli; ma quando Ottolino mosse non più ai vicini campi di Cuneo, ma a guerra lontana e più tremenda, fu presa di sommo affanno. Se non che mentre ella piangea questa sciagura, un'altra maggiore le sovrastava. Giacchè il sire di Mozzatorre struggeasi di vendicarsi di Berardo, e pensando che più crudele pena non potea cagionargli che coll'offenderlo nella figliuola, pensò di rapirla; ma rapirla in guisa che si perdesse la sua traccia, e i sospetti non potessero cadere sopra di lui. Meditate parecchie guise, scelse alfine la più malvagia: per le selve e pei monti circostanti viveano sparse fiere bande di ladroni, contro le quali s'erano spesse volte collegati indarno i cavalieri più generosi del vicinato. Vendeano essi l'opera, ogni volta che ne veniano richiesti dai baroni che senza parere voleano eseguire qualche iniquo fatto. La banda poi era composta per lo più di servi fuggiti dai padroni e d'avanzi di Saracini[3]. Villigiso dunque ne assoldò alcuni a lui noti come più audaci e destri, e commise loro che, scesi sulle rive del Po, ai campi di Berardo, ne incendiassero di notte tempo la casa, e ne rapissero la figliuola in mezzo all'agitazione ed al tumulto.

La cosa era pur troppo facile. Giacchè le abitazioni, in quel secolo, ne' contadi e nelle piccole città non solevano essere se non tugurii di legno, consolidati al più da pilastri di mattoni ai quattro angoli dell'edifizio. Le foreste poi si stendevano sì ampiamente, che il legno non costava quasi altro che la fatica di tagliarlo. Non è adunque a maravigliare che si preferisse per le abitazioni il legno ai mattoni ed alle pietre.

Di legno era pure la casa di Berardo, sebbene uomo agiato, amato dal principe, ed influente nel governo del paese. Simile quasi (in un ordine sociale assai diverso) a quegli antichi magistrati romani, che reggeano la repubblica e viveano ignari di lusso in umile tetto, poco diverso da quello dei loro servi.

Stavano una sera raccolti in immenso stanzone Berardo, Giovanna, Rafaella e parecchi famigli maschi e femmine. Una lampada pendeva da nera trave nel mezzo; un'altra illuminava l'uno degli angoli; e là sedeano le donne filando, e favoleggiando di paladini e di fate. Gli uomini passeggiando parlavano dei lavori di quel giorno e di quelli del dimani. In un subito tutti sono scossi da un grido improvviso: una parte della casa avvampava. Tutti volano al soccorso: ma le cure non giovano. Un fiero vento dilata le fiamme: giacchè i ladroni aveano appunto scelta quell'ora per profittare del vento. Porre in salvo il grano e le suppellettili e al più qualche parte dell'edificio, è tutto ciò che Berardo può sperare.

A pochi passi trovasi un molino ed ivi è forza di trasportare Giovanna, la quale mezzo inferma non può reggere a tanta ambascia, Rafaella la segue: e le misere alle finestrelle del molino stanno alcun tempo mirando l'orribile spettacolo, e tremando per Berardo e pe' famigli che vedono qual sul tetto e qual su perigliose scale, qual balzare di trave in trave, qual avventarsi fra globi di fumo e di vampe. Quand'ecco un uomo prorompere nel molino e grida «Giovanna! Giovanna! venite fuori: Berardo vi chiama, soccorriamolo, soccorriamolo!» Giovanna e Rafaella, senza pensare ad altro escono spaventate — Dov'è? che gli accadde? — chieggono smarrite. «È qui, è qui!» dice il masnadiere, traendole in fretta con sè in aere accecato di denso fumo. Dopo pochi passi, egli afferra la giovane, la porta poco oltre ove un uomo a cavallo presala fra le braccia svenuta, sprona e si perde nella selva. Giovanna grida; corre qua e là; nulla scorge; ode il lontano scalpitare del cavallo, senza nemmeno distinguere per qual via esso galoppi. Le persone intente a smorzare l'incendio non odono le urla della desolata madre; la quale s'aggira delirante intorno alla casa che divorano le fiamme. Infine alcuni dal rovinoso tetto scorgono all'orribile riverbero delle fiamme una donna scapigliata, e odono le sue strida. I superstiziosi servi raccapricciarono, riputandola una fata malefica, od una strega attizzatrice del fuoco. Ma Berardo la riconobbe, e balzando tra fumiganti legnami corse a lei. — «Che fai tu qui? (gridò la povera madre) che fai tu qui? perchè non corri a salvare la tua figliuola?» — E narrò piangendo l'avvenuto.

Rafaella era stata portata semiviva nella rocca di Mozzatorre in Val di Vrusta, dove ne prendevano cura due selvagge ed odiose creature, il castellano Berto e sua moglie, che avevano avuto ordine dal padrone che trovavasi in Saluzzo di custodirla sotto buona guardia.

Rafaella era battuta da perigliosa febbre. I pochi detti che uscianle dalle arse fauci dirigeansi alla madre, or chiedendole aiuto, or promettendole di soffrir tutto con pazienza, or pregandola di non piangere. Lo spettacolo dell'innocenza infelice sarebbe paruto venerando allo stesso Villigiso.

Come la fanciulla ebbe ricuperati i sensi e udì che essa trovavasi nel castello del nemico capitale di sua famiglia, fu presa da spavento. Guardò uno de' finestroni della sua camera, e fu tentata di balzare da quello e precipitarsi; ma ne la rattenne la sua pietà verso i parenti. Una smania irresistibile di rivederli premeala sì forte, che lusingavala, quasi presentimento ispirato dal Cielo. Ma se questo presentimento la tradisse? Oltre che lo stato di debolezza, in cui giacea, la rendeva proclive ad accorre immaginazioni di spaventi, tutto ciò che Rafaella avea veduto di Mozzatorre, ponti, mura, fosse, cortili, scale, camere, tutto avea impresso quel carattere d'antico decadimento e di mal augurio, a cui facilmente si congiungono le idee più lugubri e più tetre! Le circostanze, la rapidità, l'agevolezza, con cui era stata rapita, non le sembravano proprie di vicende puramente umane. Il contrasto fra la nerezza d'animo di Villigiso e la grazia da lei spesso ammirata nella sua persona avea pure un certo che di mostruosamente dissonante. Un contrasto del pari singolare essa notava fra quella grazia di persona ed il lasciare il castello in sì lurida bruttezza, e porvi a custodia facce così ignobili. Nel mondo delle cose naturali, Rafaella non avea mai veduto tali disarmonie, e solo aveale udite accennare come opera d'inferno in racconti spaventosi.

Le si affacciava dunque continuamente il pensiero d'uccidersi, e quasi temeva che il non obbedire a quel pensiero fosse codardia. Ella ricordava quel Sansone acciecato che deriso da nemici e tratto nel Dagone s'inchinò a Dio e non all'infame idolo, e scossa l'una e l'altra colonna fra cui stava, procacciò la morte a sè ed a molte persone. Ricordava Eleazaro che non temè di farsi schiacciare dall'elefante d'Antioco per trafiggere la belva, pensando così dar gloria a Dio, colla rovina dell'empio. Ricordava quel seniore di Gerusalemme, il quale piuttosto che esser soggetto a peccatori si lacerò largamente col ferro, e salito sopra una pietra afferrò con ambe le mani le proprie viscere e le gettò sulla turba invocando il Dio dominatore della vita, perchè a lui la rendesse nel regno de' giusti. Ignara del criterio onde vogliono essere giudicati que' biblici fatti, ignara della necessità di stare guardinghi nel trarre dagli esempii straordinarii le norme della nostra condotta, Rafaella s'accendeva la fantasia, giustificando in sè l'idea di terminare la vita per fuggire da incerti e perciò più temuti pericoli. Intanto Manfredo, sollecitato dall'imperatore di recarsi al campo; era partito di Saluzzo ed avea per buona ventura, imposto a Villigiso di seguitarlo.

Questi come tutti gli scellerati, mentre cercava di nascondere agli onesti le sue iniquità, pur s'affratellava in ogni luogo con qualche scellerato suo pari. Tal era un Barone pavese, il quale avea un castello sulla riva del Ticino, entro cui commetteva e lasciava commettere dai suoi compagni ogni sorta di tirannie. In quel castello pensò Villigiso di far condurre, per maggior sicurezza, la sua prigioniera. Era già a Rafaella motivo di stupore, che passasse l'un mese dopo l'altro senza che le fosse incolto altro danno, che la cattività e la lontananza dai genitori. Ella ne traeva buon augurio. Quando un mattino il rozzo castellano Berto, zelante ed accorto esecutore di quanti delitti imponeagli il suo signore, venne ad annunciarle che facea d'uopo partire subito con lui, e con Tommasona sua moglie. Stupì Rafaella, e chiese dove fosse per esser condotta. Berto, che per aver minori impicci, amava di averla docile per via, prese a dirle che Villigiso, pentito del suo misfatto, lo incaricava di ricondurla ai genitori. Del che ella sarebbesi abbandonata al più vivo giubilo, se avesse potuto reprimere ogni sospetto d'inganno. Mostrò nondimeno di credere; e ad ogni modo non le spiacque di uscire dal castello, parendole che il fuggire per via non le sarebbe stato poi impossibile. Tommasona apparecchiò dunque in fretta le valigie; Berto con altri tre sgherri posero all'ordine i cavalli, e la comitiva fu in viaggio lo stesso giorno.

Cavalcarono quattro giorni schivando sempre i luoghi abitati; e Rafaella udiva spesso ripetersi che la distanza era grande, e che bisognava fare diversi giri; perchè la strada diretta era corsa dai ribelli Cuneesi e da malandrini. Ella dicea spesso a Tommasona: — Tuo marito non mi disse il vero: se tu lo sai, palesami, te ne scongiuro, ove si vada. — Perchè questa, ammaestrata da Berto, mostrò alfine di lasciarsi strappare il segreto, e le disse che essa era difatto ricondotta ai suoi genitori: ma che questi erano stati costretti di mutar paese, perocchè Manfredo, pentito d'aver liberato Berardo, avea voluto rimetterlo in servitù; di che egli era fuggito oltre il Ticino. Soggiungea che il Barone di Mozzatorre, commosso dalla sventura di Berardo non avea resistito al desiderio di consolarlo col restituirgli la figliuola. Poteva Rafaella credere a questo racconto? Tornava i seguenti giorni ad interrogare quando la donna, quando Berto, quando gli altri. Tutti erano d'accordo fra loro e rispondeano la medesima cosa. Ma i loro volti annunciavano tal perfidia, che la misera tradita non quietavasi, ma dissimulava.

Dopo lungo e penoso viaggio furono al bosco del Ticino; donde il castello malvagio non era lontano più d'un miglio. Rafaella che aveva mostrato di credere tutto ciò che le si dicea, e che non aveva mai dato il minimo indizio di voler fuggire, veniva custodita con poco rigorosa vigilanza, principalmente allora che il viaggio era compiuto. Non l'avrebbero lasciata indietro due passi, ma non si sgomentavano se talvolta il suo cavallo precedeva d'alcun poco. Volle la Provvidenza che in uno di questi istanti, mentre il cavallo di Rafaella, era di qualche passo innanzi, il bosco fosse assai folto. Gli sgherri spronarono tosto ed erano per raggiungerla; ma la donzella era già balzata a terra e inselvavasi rapidamente. I suoi custodi scendono di cavallo, corrono da tutte parti, cercano, chiamano, minacciano, pregano. Tutto è vano. La snella fuggitiva udendo le voci ed i passi degl'inseguenti, correva senza strepito per viottoli oscuri: e tanto si scostò, che in breve non li udì più. Il che accadde perchè gli sgherri supposero falsamente che Rafaella fossesi volta indietro per ritornare verso il Piemonte; e smarrirono così più presto le sue tracce. Ella, ignara del luogo e altro scopo non avendo che di cercare gente dabbene che l'aiutasse, movea, sempre innanzi. Uscita finalmente del bosco e traversato un campo, chiese ospizio alla prima casa che incontrò. Villeggiava in essa una famiglia popolana milanese; la quale l'accolse benignamente con tutta la pietà e la riverenza che essa agevolmente seppele ispirare col patetico racconto dei suoi tristi casi. Felice Rafaella se tosto avesse potuto informare i parenti ch'ella era sotto tetto sicuro! Ma le comunicazioni a que' tempi non erano facili, considerata specialmente la guerra che fervea. Inoltre pochi giorni dopo l'arrivo di Rafaella, Milano toccò una sconfitta dagl'imperiali; sì che le famiglie milanesi, ch'erano in contado, dovettero fuggire entro le mura della città.

Due eserciti ognora struggentisi a vicenda, e ognor rinascenti, devastavano da parecchi anni le contrade lombarde. L'uno era composto di Milanesi, e d'oltre la metà degli altri abitanti di Lombardia, facendone parte popolani e nobili, liberi e servi, giovani e vecchi, moltitudine immensa. L'esercito, unito e ben raccolto nella prosperità, era facile a dissiparsi, ogni volta che la vittoria favoriva il nimico; ma facilmente si rannodava anche dopo che pareva pienamente disperso ed annientato. Il disgregarsi dell'esercito nell'avversa fortuna proveniva dalla premura che ciascuna schiera aveva di scampare la propria vita, senza badar molto in tali frangenti alla causa comune.

L'esercito imperiale era pure formidabile. L'Imperatore ed i Conti palatini, Ottone e Corrado, davano l'esempio agli altri principi tedeschi, traendo dalla Svevia quanti più armati poteano. Il Langravio cognato di Barbarossa, Arrigo detto il Leone, duca di Baviera, Arrigo d'Austria, Guelfo il giovane figlio di Guelfo duca di Toscana, Vladislao di Boemia, l'Arcivescovo di Bologna, Rinaldo arcicancelliere, l'Arcivescovo di Magonza Cristiano, e altri valentissimi cavalieri gareggiavano nel numero de' combattenti che traeano da' loro feudi. Onore ed avidità di preda teneali uniti quando fortuna loro sorridea; ma anch'essi ne' giorni infelici, si sbandavano spesso, per le soverchie rivalità de' capi, i quali davansi l'uno all'altro la colpa delle sconfitte, e venivano a frequenti duelli, per puntigli cavallereschi. I feudatarii per lo più voleano tornare a casa colle loro schiere al chiudersi d'ogni autunno; e così, dopo essere talvolta ripatriati colla fiducia che il nemico non potesse più ergere la testa, lo trovavano ben in armi al ritorno, essendo bastato l'inverno a ristorare l'audacia dei vinti. Uniti colle schiere imperiali pugnavano molti feudatarii italiani, ed i popoli di Pavia, di Cremona, di Parma e d'altre città nemiche di Milano: ragioni simili a quelle accennate per gli avversarii produceano i medesimi effetti.

Ma le vicendevoli offese, accanitamente ripetute per tanti anni, aveano alfine spinto il furore ad eccessi inauditi. L'esacerbazione della parte imperiale era proporzionata a quella de' Milanesi. Non più saggio di speranza al pacifici; non più misericordia a feriti, a spogliati, a donne, a vegliardi, a fanciulli. Se alcuno invocava i nomi santi di pietà e di religione, s'udia rispondere da ambi i lati:

— «Noi non fummo i primi a dimenticarli». Qua rampognavasi a' Milanesi il soggiogamento di Como, la distruzione di Lodi e molte altre violenze contro i minori, e il dileggio de' più sacri diritti ovunque speravasi impunità. Là giuravasi che il primo a non curare i diritti era stato Barbarossa. E questi infatti, sin dal 1155, primo anno della guerra, facea legare i prigionieri alle code dei cavalli: incendiava Rosate, Galliate, Trecate e Mommo, e celebrava con invereconda allegria le feste di Natale sulle rovine di quegli infelici paesi; indi invaghitosi della distruzione, riduceva in cenere popolose città come Asti, Chieri e Tortona. Mosso poi contro Spoleto decretava parimenti che vi s'appiccassero le fiamme; nè per rattenerlo vi volle meno dello straordinario potere che sant'Ubaldo, Vescovo d'Agubbio, esercitò sopra di lui ispirandogli, non si sa se compassione, di cui nè prima nè dopo si vide capace, ovvero terrore di divino castigo. Dopo la pace conceduta nel 1158 ai Milanesi, con l'accordo che conservassero il Seprio e la Martesana, Federico rioccupò quelle terre, vietando loro inoltre che tenessero più consoli, e volendo loro imporre un podestà; il che fu cagione di nuova guerra. Nell'assedio di Crema egli fece poi atroce pompa di crudeltà, legando gli ostaggi Cremaschi ad un castello di legno, su cui gli assediati per difesa scagliavano con mangani tempeste di pietre; cosicchè i padri dovettero, per salvare la città, schiacciare i loro figliuoli. Queste ed altre crudeltà quinci e quindi esercitate cresceano gli odii e inasprivano la guerra.

Commise allora Federico un errore che assai contribuì a crescere il coraggio nel campo nemico, e fu poscia cagione per lui di rovesci e di sventure. Fittasi nella mente l'idea dell'impero universale del mondo, egli avea trovato nel Pontefice Adriano IV una insuperabile opposizione all'adempimento di un disegno sì strano e sì ingiurioso ai diritti degli altri principi cristiani. Ond'egli era venuto in pensiero di collocare nella sede di Pietro un Pontefice che fosse ligio ai suoi voleri o almeno non resistente. Morto pertanto a quei dì Papa Adriano, Federico mise gli occhi sopra il Cardinale Ottaviano, uomo ambizioso, e che se gli era mostrato oltremodo devoto fin dalla sua prima venuta in Italia. Spediti dunque a Roma suoi Commissarii brigò col Clero e col popolo, acciocchè venisse eletto il suo favorito. Ma Dio irrise le sacrileghe arti; ed il Cardinale Rolando, uomo venerando per virtù e per senno venne assunto, benchè renitente, al supremo pontificato, e prese il nome di Alessandro III. Due soli fra gli elettori si piegarono al volere di Cesare e separatisi dal suffragio di tutti gli altri nominarono Papa Ottaviano; il quale ebbe l'impudenza, allorchè vide eletto Alessandro; di volergli strappar di dosso il manto Pontificale per cingerlo a sè; ed essendone impedito dal Senatore che glielo tolse di mano, divenuto quasi frenetico si fe' portare un'altra cappa che tenea preparata, ed indossandola in caccia e in furia, e non trovando l'uscita del cappuccio, se la vestì ponendo il davanti all'indietro; il che mosse a riso gli astanti e fe' dire ai Cattolici che egli era Papa a rovescio.

Ora Federico s'incaponì a sostenere le parti dell'antipapa; il quale, assunto il nome di Vittore IV, era stato, in un conciliabolo tenuto a Pavia sotto gli auspicii dell'Imperatore, riconosciuto da molti Vescovi, e sperava, colla medesima protezione imperiale, ridurre tutta la cristianità alla sua obbedienza. Senonchè la più parte dei prelati italiani, saputa la verace elezione d'Alessandro stettero per lui, e tra questi primeggiava l'Arcivescovo di Milano. Il che accresceva animo ed ardire ne' petti de' Milanesi, i quali vedevano in Federico il nemico della patria e della Chiesa; e d'altra parte aizzava vie peggio nel cuore del furibondo Principe gli sdegni, credendo egli di combattere contro sudditi doppiamente ribelli.

Tal era lo stato delle cose, quando essendo stati i Milanesi vinti in campo aperto, la famiglia che ospitò Rafaella dovette con tutto il popolo del contado chiudersi dentro le mura della città contro cui avanzavasi l'Imperatore.

Rafaella

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