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Emilio Rey

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Non parte mai del tutto chi lascia dietro di sè buona memoria.

E. De Marchi.

Dinanzi al frequente succedersi delle disgrazie alpine, l’animo si turba, s’inquieta, e pare che il nostro entusiasmo si sfumi o vada a poco a poco raffreddandosi. Eppure così non è, e non sarà mai. L’alpinismo, per queste tristi calamità che vengono crudelmente a colpire i suoi fidi, non è condannato a morire; e continua imperturbato nella sua via tracciata, alla conquista di vette inesplorate, dove il nostro essere, dimentico della sua veste terrena, si rende migliore e mira ad altissimi ideali.

Le disgrazie alpine, non vanno considerate sui generis ed imputate a temerità, ma nella causa immediata che le generò: esse provano vieppiù la debolezza dell’uomo, per quanto gigante egli sia, dinanzi ai superiori eventi; e, benchè spargano un subitaneo terrore nelle nostre file, fortificano, ritemprano i nostri cuori: poichè non è che dopo aver passato per dure prove che l’anima si sente forte.

Se i più valenti campioni dell’alpinismo soccombono là dove già passarono non curanti più volte, non è perchè abbiano oltrepassato il limite consentito dalla prudenza e dal coraggio, ma così volle il destino, il fato supremo. Dobbiamo ammettere la massima alpinistica che in montagna una lieve, anche involontaria imprudenza può costare la vita ad un uomo: ma quale è l’essere perfetto che non abbia una momentanea debolezza?

Una tremenda prova la diede la guida Emilio Rey, onore e vanto delle guide italiane, compagno gentile e valoroso, zelante fino all’abnegazione, forte ed insuperabile; Lui, guidatore sicuro dei più eletti campioni dell’alpinismo europeo, che nè la furia delle tormente, nè l’aspra verticalità dei picchi bastarono a farlo indietreggiare, Lui perì vittima di una tenue imprevidenza.

Dinanzi ad una tomba di recente aperta non è lecito criticare, chè unanime sorge il plauso a questa vita bruscamente spezzata.

Emilio Rey dorme placidamente nell’umil campo dei morti del suo caro paese natìo e riposa dall’aspre tenzoni della sua vita: il suo nome è stampato a caratteri d’oro nei fasti dell’alpinismo; la sua fiera ed amabile figura resterà impressa perennemente in quanti lo conobbero.

Il mese di agosto è stato terribilmente nefasto per la stazione alpina di Courmayeur. In questo mese, che è il più propizio per le grandi ascensioni, perivano nel 1890, sugli alti ghiacci del Monte Bianco, due guide provette e di fama, assieme a un giovane e baldo alpinista che iniziava brillantemente la sua carriera. Quattro anni dopo, un alpinista temprato ai più ardui cimenti rimase vittima della subitanea ira di quel colosso, mentre veniva di calcare la cervice di uno dei suoi più temuti satelliti.

Le guide di Courmayeur, che da più di mezzo secolo riportano vittorie su quell’eccelsa catena, erano sempre state risparmiate nelle infauste vicende che vi si svolsero; ma nell’anno decorso venne pur troppo il loro turno. In men di una settimana ci rapiva un onesto padre di famiglia che lasciò due orfani in tenera età, ed un giovane che lasciò la sposa diletta nell’inconsolabile solitudine; e quindi, affinchè il colpo si ribadisse più tremendo nei nostri cuori, ci toglieva una persona che non solo ci era cara, ma formava il nostro vanto, una delle nostre maggiori glorie.

Del Rey conosciamo purtroppo i particolari della sua tragica morte; degli altri due, Savoye Michele e Bron Lorenzo, non basteranno le supposizioni a colpirli di biasimo; l’animo ripugna a pensare che non abbiano compiuto i doveri loro incombenti: gli onori resi ai loro corpi giustifichino la loro condotta. Essi sono morti, ma non scomparsi dalla nostra mente; i martiri dell’alpinismo ci sono sacri.

«Il est des catastrophes si complêtes, si foudroyantes qu’on refuse d’y croire dans le premier moment.—On se dit:—Ce n’est pas possible!—et, malgré l’évidence, on doute.»

Tale accento di dubbio, di sorpresa e di profondo dolore, si leggeva in volto a tutte le persone in Courmayeur, verso il mezzogiorno del 25 agosto 1895, quando giungeva dal Colle del Gigante la guida francese apportatrice del triste annunzio della morte di Emilio. In men che non si dice, a tutti fu nota la disgrazia. Fu come un vento gelido di morte scendente dalla montagna ad imprimere su tutti gli animi lo sconforto; come per incanto scomparve quella gaia serenità che si vede dipinta sui volti delle persone in un giorno di festa. Gli occhi s’imperlavano di lagrime furtive, e lo sguardo, nel suo mutismo, lanciava una maledizione a quella montagna che ci rapiva una persona amata da tutti.

Mi par ancora di vedere la moglie del Rey, all’uscir di messa, apprendere, dal suo figlio maggiore, la tremenda sciagura che la colpiva. Povera donna! non volle credervi; ma interrogati, cogli occhi, gli astanti fu purtroppo conscia della verità di quanto le asserivano. Che terribile frecciata al cuore!

L’annunzio di tanta iattura lasciò la maggior parte di noi increduli. Ci pareva impossibile che un Rey fosse caduto e tanto più in un sito relativamente poco pericoloso. Ma a che pro’ illudersi?

Per quel giorno e per molti altri ancora, Emilio Rey divenne il tema di tutti i discorsi; però da tutte le bocche, non una parola di biasimo usciva al suo indirizzo, ma lodi ed ammirazioni.

Poichè Emilio Rey non è più, tramandiamo ai posteri la sua fiera e simpatica immagine, narriamo le gesta della sua vita gagliarda che mai venne meno al dovere del giusto e del prode. Che le generazioni avvenire sappiano chi fu e come fu Emilio Rey!

Il còmpito è arduo e spinoso, ma riconforta l’animo nel ripercorrere questo cammino pieno di vittorie, dove tra le foglie della quercia robusta, sono intrecciati i fiori gentili della cortesia ed i frutti di animo elevato e d’una coscienza candida, immacolata.

Emilio Rey nacque nel 1846 in quel di La Saxe, frazione di Courmayeur, in Valle d’Aosta. Poco o nulla di notevole v’è da dire sulla sua giovinezza, se non che ricevette un’educazione austera, che valse grandemente a formarne un uomo di carattere dai forti proponimenti e dai ponderati giudizii. L’istruzione gli fu pur troppo limitata: abbozzata meschinamente nella scuoletta del villaggio, fu compiuta in famiglia fino oltrepassata la puerizia. Ma se la mente fu lasciata in balìa di sè stessa, il cuore venne ornato di tutte quelle doti che, nella vita, valgono più di qualunque ornamento estetico, e bastano da sè sole per farsi apprezzare e rispettare.

Della sua poca coltura ebbe poi Emilio sempre a dolersene per tutta la vita, adducendo da fine osservatore l’aforisma: «L’instruction sert grandement à former les caractères et à développer les forces latentes du cœur et de l’esprit. Elle constitue, pour ainsi dire, la noblesse de l’ouvrier.»

Però il continuo contatto e la vita quasi intima che trasse con persone di vasto sapere lo dirozzarono non solo della scorza che conservava di montanaro, ma gli suscitarono un’ardente brama di sviluppare le facoltà intellettive per quanto gli permettevano e l’età matura e le occupazioni domestiche. In prova di quanto dico, sta il fatto che fin dal 1878, allorquando il suo nome si era già fatto una breccia nella fama, sentì la necessità di possedere, almeno superficialmente, l’idioma delle guide bernesi, colle quali aveva frequenti relazioni ed era amico e emulo. Si ridusse perciò a passare quell’inverno a Meiringen colla guida Zumberg, che da tempo conosceva. Più tardi, verso il 1887, teneva presso di sè, per tutta la stagione invernale, un certo Fischer, giovane dell’Oberland Bernese (perì nell’88 accompagnando i signori Donkin e W. Fox al Dichtau, nel Caucaso), onde vieppiù impratichirsi della lingua tedesca.

Emilio Rey parlava e scriveva correttamente il francese, conosceva l’italiano e il tedesco ed interpretava anche la lingua di Byron. Tuttavia, se la sua parola era calda, forbita, schiettamente entusiastica, e quasi direi spiritosa, il suo scritto era stentato, sebbene conciso; preferiva sempre la piccozza alla penna!

A lord Wentworth che lo richiese di ragguagli sulla loro prima ascensione dell’Aiguille Noire di Petéret, rispondeva questa frase tipica: «La description de cette course neuve ne me satisfait pas du tout, et je trouve que j’ai bien plus de peine et de soucis de décrire mes courses que de les faire!»

Il padre di Emilio, Giuliano Rey, era un uomo tipico per eccellenza. Il procedere franco della sua persona, l’espressione leale, ma ferma del suo sguardo indagatore, la sua parola, il suo gesto, tutto contribuiva a cattivargli di primo acchito ossequio e venerazione. Fu per molti anni capo-guida e per più di due lustri giudice conciliatore. Fu nel disimpegno giudizioso delle funzioni che importavano questa carica, che si conquistò amore e rispetto nel suo paesello. Tale fu il genitore di Emilio Rey; non potevo tralasciare un accenno al padre parlando di tanto figlio.

Rey, giovinetto, apprese ed esercitò il mestiere di falegname, nel quale divenne abilissimo. Fu lui, che più tardi, costruì i rifugi alpini delle Aiguilles Grises, del Colle del Gigante, delle Grandes-Jorasses, del Triolet e del Gran Paradiso. Chi abbia pernottato in quelle capanne non potrà a meno che tributargli riconoscenza per la loro ammirabile costruzione e solidità.

Prima di intraprendere la narrazione della sua vita avventurosa, visitiamolo nelle pareti domestiche. È là che il cuore di Emilio rifulge di vivida luce e come figlio, e come sposo, e come padre. Professò sempre profonda venerazione per gli autori dei suoi giorni. Come mi riuscirono strazianti le lagrime della sua vecchia madre, quando rivide, per l’ultima volta, l’idolo della sua vita.... cadavere!

Primo pensiero di Emilio fu sempre la famiglia. Quando trovavasi assente da casa, per cause inerenti alla sua professione, vi era però presente in ispirito. Ed era principalmente nei passi difficili che tale pensiero lo tormentava. Quale reazione esercitasse nel suo animo l’idea della morte, ne sia prova la calma impassibile del suo sguardo e la lucidità di mente che in quegli istanti possedeva in sommo grado. Non era lo spettro nero, no, che lo turbava, che gli ridonava forza e coraggio; ma bensì il pensare essere Egli il cardine della prosperità della famiglia, l’avere i figli giovani, epperciò abbisognanti di un sostegno, di una guida onde incamminarsi nella vita. Egli era padre premuroso e previdente: mercè la sua instancabile attività, procurò alla famiglia una prosperosa agiatezza. Diede ai figli una buona educazione, ma più di tutto suscitò in loro l’amore al lavoro.

Emilio Rey non era un uomo da godersi beatamente il meritato riposo colle mani alla cintola. Lui riposava lavorando. Terminata la stagione delle corse, appendeva ad un chiodo la corda e la piccozza, e correva pei campi ad invigilare gli ultimi lavori. Caduta la neve a ricoprir le campagne del suo candido velo, gli rimaneva la pialla per fargli parere meno lunghi i mesi invernali. Secondo Lui l’alternarsi di varii lavori costituiva un riposo. Che ne dite, lettori, di questa saggia filosofia?

Emilio Rey abbracciò la professione che lo rese celebre per spontanea vocazione. Egli non apprese ad essere guida cacciando il camoscio o sotto l’altrui scorta, ma di propria e volontaria iniziativa.

Fin da giovinotto, ci raccontava in questi anni, nel giungere su una prominenza, su una vetta qualunque, egli si sentiva invaso da un «bien aise» insolito e come purificato da ogni sozzura terrestre in quell’ambiente aereo e vivificante; e rimaneva lunghe ore estatico ad ammirare le bianche guglie delle montagne circostanti, sulle quali avrebbe bramato volare onde abbracciare un più vasto orizzonte.

All’età di 22 anni, nel 1868, cominciò il suo tirocinio di guida. Poco notevoli furono le corse compite nei primi tempi della sua carriera, limitandosi a poche vette del suo paese e della valle, ascensioni e passaggi riputati al giorno d’oggi come volgari, ma in quei tempi ritenuti scabrosi. Denotava, fin d’allora, di diventare un’eccellente guida.

Nel 1875 accompagnava l’ing. Angelo Genolini in un tentativo al Dente del Gigante, ripetuto poi due anni dopo con lord Wentworth e l’avv. De Filippi. A proposito di questa bizzarra vetta, insensibile alla assidua corte che le faceva un numeroso stuolo di ammiratori, a quanto mi riferiscono altre guide militanti allora, Emilio fiutava la possibilità di domarla, però non escludendo mezzi meccanici.

Fu solamente nel 1876 che il Rey cominciò a distinguersi fra i colleghi per quello che era. Venne impegnato per parecchio tempo da lord Wentworth, col quale salì le Grandes-Jorasses, il Castor, lo Strahlhorn, il Riffelhorn dal ghiacciaio di Gorner, più un tentativo sull’Aiguille Verte dai châlets di L’Ognan. Se non era per l’indisposizione di due guide, che si ammalarono quando già trovavansi vicino alla meta, quella sarebbe stata una vittoria del Rey. Egli tenne la testa della carovana per tutto il tempo e si distinse talmente che il Wentworth lo classificò tra gli arrampicatori di prim’ordine.

L’anno successivo guidò lo stesso alpinista in una serie d’importanti imprese, fra cui ascensioni di picchi vergini, quali l’Aiguille Noire de Pétéret e la Punta Giordano dei Jumeaux. Per vie nuove salì il Gran Paradiso dal ghiacciaio della Tribolazione, e la Grìvola, con una variante, da Valsavaranche. Fu pure all’Aiguille de Rochefort (seconda ascensione), ai Jumeaux, ed al Cervino, da Zermatt al Breuil, col quale faceva la prima volta conoscenza.

Il valente alpinista inglese scrisse belle pagine sul libretto di Emilio, gentile preludio di altre non meno piene di ammirazione per le sue eccezionali qualità. Lord Wentworth lo dichiarò abilissimo e forte alpinista, possessore di un tatto speciale per orientarsi in mezzo ai frangenti i più difficili.

A proposito di questo intuito delle guide, che istintivamente sanno afferrar subito il lato debole della montagna, propendo che esso consista non già nell’istinto naturale del montanaro, ma bensì nell’acquisita esperienza e profonda osservazione. Allorchè nel 1886, assieme alla guida François Simond, Emilio accompagnava il sig. H. Dunod alla Meije, non la conoscevano nè gli uni nè gli altri, «mais, sans hésitation, il devina si facilement l’issue des passages délicats, qu’ils détinrent pendant longtemps le récord de la vitesse». Partiti dal Châtelleret, compivano l’ascensione con passaggio della «Brêche» e scendevano a La Grave in sole 16 ore!3

Nel 1878 Emilio veniva a stringere relazione col Monte Rosa guidando alla Punta Dufour il dott. Theodor Petersen, allora presidente del Club Alpino Tedesco-Austriaco.

Dal 18 agosto a metà settembre del 1879, il Rey fu ritenuto da J. Baumann, che assieme al sig. J. O. Maund gli crearono una aureola di notorietà. A partire da questo tempo, tutti i più festeggiati alpinisti andarono a gara per averlo compagno e guida nelle loro escursioni. In quell’anno compiva, coi signori J. Baumann, G. Fitz Gerald e F. J. Cullinan, la prima ascensione dell’Aiguille di Talêfre, e della Dent d’Hérens per la cresta che dal Tiefenmattenjoch conduce alla sommità. Faceva pure le seconde ascensioni del Grand Dru, e del Cervino per la cresta di Zmutt, pochi giorni dopo il sig. Mummery colla guida Alexander Burgener. Per questa via, doveva pure accompagnare ultimamente a quel colosso S. A. R. il Duca degli Abruzzi, se il tempo non fosse venuto, quand’egli era ancor libero, a «gâter le jeu».

Sempre con J. Baumann, nel 1880 tentò l’Aiguille du Plan dal ghiacciaio di Blaitière. Questa vetta fu poi soggiogata poco dopo, dalla parte opposta compiendovi la seconda ascensione. Nella gita suddetta il Rey aveva compagno Andreas Maurer, col quale era amicissimo e doveva in seguito misurarsi sui picchi più ardui delle Alpi.

Nell’anno medesimo, con Georg Gruber esplorava il fianco meridionale del Monte Bianco, scoprendo il Colle du Fresnay (una sella nevosa che unisce l’Innominata alla parete rocciosa sostenente l’immane cupola del colosso alpino) e riuscendo sulla suprema vetta, direttamente dal ghiacciaio di Fresnay, variando nel percorso la strada tenuta nel 1877 da J. Eccles con Alphonse Payot. Questa ardita esplorazione gli fu di valido aiuto, come vedremo in seguito, nelle due ascensioni alla terribile Aiguille Bianche de Pétéret. Con lo stesso alpinista, nell’anno successivo, perveniva sul Monte Bianco dal ghiacciaio della Brenva e pel Corridor (14 luglio) e scopriva un nuovo passaggio nel gruppo del Triolet, il Col du Piolet, così denominato perchè dovettero abbandonare una piccozza alla quale avevano assicurato una corda onde scendere sul versante di Chamonix. La prima di queste escursioni non fu mai più ripetuta, sia perchè è pericolosissima per la caduta di blocchi di ghiaccio, sia anche perchè la cresta per la quale salirono al Colle della Brenva, non è sempre praticabile per il vetrato ricoprente le roccie.

Nel 1881 con J. Baumann, il Rey fece un tentativo arditissimo sull’Eiger, per la cresta di Mitteleggi. Chi non conosce quella montagna, non può farsi un’idea di questo «tour de force» eccezionale, per la quasi assoluta verticalità della parete. A proposito di questa azzardatissima impresa, l’alpinista isolano scrisse le seguenti testuali parole sul libretto di Emilio per compensarlo, in certo qual modo, dell’insuccesso, non dovuto già all’imperizia della guida, ma all’impraticabilità del sito. «Rey solo e senza essere legato, contornando un masso difficile e sporgente, proseguendo lungo la cresta, riuscì ad arrivare a un punto sino allora inesplorato.» Pochi giorni dopo però, l’Eiger veniva salito dalla stessa comitiva per la solita via. In quell’anno, con Andreas Maurer, Emilio guidò il Baumann ed il Maund, alla prima ascensione del Grosser Lauteraarhorn dal versante occidentale; e più tardi guidò il sig. Moritz von Déchy all’Aiguille Verte.—«L’ascension de l’Aiguille Verte était accomplie aprés une sévère chûte de neige, sous des circostances très difficiles et défavorables. J’avais eu l’occasion de voir Rey au travail et depuis j’ai souvent pensé de faire avec lui un voyage lointain, dans une des chaînes de montagnes hors de l’Europe».—Così si esprime il signor Déchy in una gentilissima epistola direttami a proposito di Rey. E più oltre, pensando sulla misera fine dei suoi due compagni di viaggio, esclama: «Hélas! tous les deux sont maintenant morts, tous les deux tombés sur leur champ de gloire!»—Che fatale sorte fu serbata a questi due valorosi militi dell’alpinismo! Ha qualche cosa di fatidico, questo destino delle guide, che non vale però a diminuire il loro entusiasmo per la montagna e l’intrepidezza con la quale affrontano i pericoli maggiori.

Nella primavera del 1895 parlando con Emilio Rey, gli domandavo perchè oramai non si concedesse riposo, dacchè si era acquistato, con la sua attività, un’avviata agiatezza. Con la solita franchezza, Egli mi rispose: «Ce n’est pas le gain qui me pousse sur les sommets, c’est la grande passion que j’ai pour la montagne. J’ai toujours considéré la récompense comme chose secondaire à ma vie de guide.» Poi soggiunse inspirato da chi sa quali presentimenti: «Je sens, je prévois qu’un jour ou l’autre, on me recueillera dans une crevasse: ce ne sera point le danger qui m’aura tué, mais un caprice de la montagne. Je l’ai trop aimée et vaincue pour qu’elle ne se venge pas sur moi!»—Chi allora prevedeva che questi pronostici su sè stesso, si avverassero in pochi mesi? Povero Emilio!

Rey aveva una facoltà tutta sua propria per cattivarsi, a prima vista, delle simpatie. Anche fra i profani in alpinismo contava degli ammiratori e degli amici. In montagna non solo riusciva utile e gradito compagno, ma sapeva prevenire e soddisfare tutti i minimi desideri del viaggiatore, rassicurarlo nei momenti incerti, suscitargli il coraggio e la forza per vincere e l’entusiasmo per la vittoria. È per questo infatti che tutti gli alpinisti da lui guidati lo veneravano come un maestro e lo amavano come un amico, è per questo che lo volevano sempre con loro e lo richiedevano di accompagnarli, come d’un favore, nelle loro più arrischiate escursioni. Non stupisca dunque se un alpinista come il sig. Déchy, riconoscesse nel Rey, in una sola ascensione fatta con lui, una guida valente ed un gradito compagno per un lunghissimo viaggio quale vagheggiava di fare nel Caucaso.

Emilio Rey compì poi con Carus D. Cunningham un lavoro considerevolissimo. A cominciare dal 1882 sino al 1884 fu ritenuto da quell’alpinista quattro mesi all’anno. Sono tutte salite di primo ordine, e meritano un’accenno.

Nel 1882 si principiò in giugno nella catena del M. Bianco salendo parecchie vette, fra le quali l’Aiguille de Talèfre (prima ascensione dal versante italiano per la cresta Est), la Calotte de Rochefort (prima ed unica ascensione). Nel distretto di Zermatt Emilio guidò il Cunningham al Cervino, al Rothhorn, al Grabelhorn, ecc.

La campagna susseguente fu non meno trionfale per il Rey. Oltre il Cunningham accompagnò i signori H. Walker, J. W. Hartley e W. E. Davidson, i quali scrissero due nobilissime pagine sul libretto di Emilio che per l’autorità di chi le dettò gli fanno molto onore.

Col primo di questi due ultimi valentissimi «grimpeurs», faceva nell’agosto la seconda ascensione delle Aiguilles du Dru. Quella del Petit Dru fu compiuta senza l’aiuto dei mezzi meccanici adoperati nella prima salita (C. T. Dent e J. W. Hartley con A. Burgerner e K. Maurer: 12 settembre 1878); venne definita da questi due sperimentati alpinisti come la più dura scalata che abbiano fatta. In quattro giorni consecutivi Emilio fece la terza, la quarta, la quinta ascensione del Grand Dru. Questo si chiama possedere una forza di resistenza e un «entraînement» non comuni.

Una di esse, con W. E. Davidson, fu la prima salita compiuta direttamente dal Montanvert, senza che pernottassero al ghiacciaio della Charpoua, come abitualmente si fa. Partiti dall’Hôtel alle 3,35 del 28 agosto, alle 11 arrivavano sulla vetta e già verso le 17,45 dello stesso giorno erano di ritorno all’albergo. Impiegarono dunque in tutto solamente 14 ore e 10 min., delle quali, diffalcando le fermate, risultano ore 10,55 di assoluta marcia. Si consideri poi anche che non fecero uso di scale, nè di corde fisse, e variarono la solita via. Il sig. Dent raccontando questo «tour de force» unico nel genere, scrisse: «Il sig. W. E. Davidson in una recente ascensione su questa montagna, potè trovare la strada senza l’aiuto di scale e di corde. In uno spazio di tempo prodigiosamente breve, salì e discese la vetta, sulla quale si fermò delle ore senza fine.»

Sempre nel 1883, Emilio guidò il Cunningham alla prima ascensione della punta più alta dell’Aiguille du Midi per il versante Nord-Ovest, alla seconda ascensione delle Périades (prima per il versante Est); pure alla seconda del Mont Blanc du Tacul, ma con una variante; infine nell’Oberland a buon numero di vette. Mi limito ad enumerare solamente le principali, perchè lo spazio tiranno e la minor importanza delle altre mi vietano di troppo dilungarmi in cose di poco interesse.

Il signor Cunningham nutriva una vera affezione per Emilio Rey. Nel gennaio del 1884 lo invitò a passar seco alcune settimane in Inghilterra dove lo fece viaggiare nelle principali città e lo presentò ai soci dell’Alpine Club. Ovunque fu festeggiatissimo, e ricevette numerosi segni di viva simpatia e grande ammirazione. Dai servitori del Cunningham, all’editore del Nineteenth Century, col quale passò un «aprés-midi» intellettuale, a Madame Tussaud, tutti avevano per lui una parola di lode. Ed Egli si trovava «à l’aise partout» e «on remarqua qu’il se conduisait avec un tact parfait, conservant toujours sa naïve aîsance.»

In quel frattempo Emilio fu col sig. Cunningham al Ben Nevis, la vetta più alta della Grande Brettagna, e sull’Arthur Seat. Era la prima volta che queste ascensioni venivano compiute da una guida delle Alpi. La stampa scozzese ne tessè, a proposito, una particolareggiata relazione, nella quale vediamo con piacere il nome del Rey far vanto alle guide italiane4.


EMILIO REY


Sempre nel 1884, Emilio in giugno trovasi già, in compagnia del Cunningham, a Grindelwald ad iniziare la campagna alpina che fu fecondissima d’importanti imprese. In quello splendido distretto si ascesero il Mittelhorn, il Mönch, lo Schrekhorn, il Mettenberg, la Jungfrau, ecc… Nella catena del Monte Bianco si compì la prima ascensione della Tour Ronde per la cresta Nord-Est, con discesa al Colle dello stesso nome. La stagione terminavasi con la seconda ascensione del Grosser Lauteraarhorn, per la cresta scendente verso lo Schreckhorn.

Dal 1884 in poi il sig. Cunningham, per motivi di salute, non potè più viaggiare sulle montagne, ma con ciò non venne meno in lui la riconoscenza ch’egli pubblicamente professava al nostro Emilio per gli ingenti servigi resigli.

«In tutte le relazioni ch’ebbe con me—scrisse il Cunningham nel suo aureo libro The Pioneers of the Alps—negli impegni d’ogni anno, nessuna azione venne mai a diminuire, in minimo grado, l’alta stima che ho per lui, o a danneggiare la grande amicizia che esiste tra di noi due».—E più oltre: «Ricordandomi delle circostanze sopraggiunte, quando i nostri giorni d’alpinismo parevano terminare, mi ricordo quanto l’idea del pericolo, che mi sembrava inevitabile, scomparisse alla vista delle braccia robuste, della testa calma e del coraggio inflessibile della mia guida».

Verso la fine di luglio del 1885 il Rey fu impegnato dal sig. H. Seymour King, onde accompagnarlo alla prima salita dell’arditissima Aiguille Blanche de Pétéret, alla quale era legato il triste ricordo della catastrofe del prof. E. M. Balfour con la guida Petrus. Partiti da Courmayeur il 30 di quel mese, dopo sforzi inauditi (specialmente nell’ultimo tratto del ghiacciaio di Fresnay), poterono arrivare verso sera a poco più di 3600 metri, sospesi sull’arditissima parete Ovest dell’Aiguille Blanche, dove pernottarono. Dio sa come passarono la notte a quella straordinaria altezza, quasi librati nel vuoto, legati alle roccie e con 20° sotto zero! La «verve» inesauribile di Emilio aveva sempre lo stesso grado di spiritosità, benchè i denti battessero sonoramente le ventiquattro, ed il vento, colle sue folate da intirizzire le pietre, continuamente li molestasse. Solo l’alpinista che ha dormito alla bella stella a 3000 metri sul livello del mare, può considerare quale sforzo morale deve l’uomo operare su sè stesso, affinchè il fisico non soggiaccia alla forza dell’ambiente.

Al mattino del 31 luglio attaccarono dapprima le roccie che sorpiombano sul ghiacciaio di Fresnay, quindi, lavorando di piccozza su corazze di ghiaccio ed infine per una cresta nevosa che diventa esilissima e vertiginosa, riuscirono sulla vetta. Questa salita, che durò tre giorni con due notti all’aperto, non venne poi mai ripetuta, sia perchè è pericolosissima per le roccie disgregate e per le cornici di ghiaccio, sia anche perchè il ghiacciaio di Fresnay, superiormente, alla base della parete Ovest dell’Aiguille Blanche, si spacca enormemente e forma una bergsrunde insormontabile.

In principio dell’estate 1886 il Rey fu con Miss Katharine Richardson, che accompagnò in seguito quasi tutti gli anni. Di questa intrepida alpinista, coraggiosa quanto mai, che mentiva formalmente il suo sesso (in quanto si riferisce alla resistenza, alla vigoria, alla tempra) soleva Emilio parlarne di sovente; e concludeva che nel mondo muliebre, di uno stampo simile se ne incontrano di rado.

Non notiamo nuove imprese compiute dal Rey in quella campagna, se non che guida il sig. H. Dunod all’Aiguille Verte e alla seconda ascensione dell’Aiguille des Charmoz, oltre alla già menzionata salita alla Meije, in Delfinato.

Nell’agosto del 1887 Emilio ascese moltissime vette della catena del M. Bianco che per brevità non le enumeriamo. Era con J. H. Wicks e W. Muir. All’Aiguille des Charmoz scoprì una variante e riuscì pel primo sul Mont Mummery, una delle tante punte di cui è formata l’Aiguille. Di questa vetta, allora moltissimo in voga, eseguì col sig. Dunod la prima traversata delle sue cinque punte, che divenne poi di prammatica per un abile turista che dimorasse «tant soit peu» al Montanvert. Sempre col Dunod, e nell’anno medesimo, dal Grand Dru scese pel primo al Petit Dru. Questo passaggio, se non esige delle qualità tecniche eccezionali, è sempre difficile ed emozionante, specialmente nel tratto pel quale si deve discendere, quasi perpendicolarmente, lungo una corda di 30 metri. In senso inverso, questa traversata venne effettuata da Miss K. Richardson con E. Rey e G. B. Bich. Il Dunod scrisse a proposito di questo passaggio sul libretto del Rey: «…c’est certainement en grande partie au courage et à l’adresse d’Émile Rey que je dois la réussite de ce passage».

In settembre di quell’anno, 1887, troviamo Emilio ad accompagnare il dott. Paul Güssfeldt al Gabelhorn ed al Cervino, per la nuova via scoperta poco tempo prima, da Zermatt a Breuil. Lasciate quindi le Alpi Pennine, si ridussero nel Gruppo del Bernina a compiere una nuova ascensione del Monte Scerscen pel versante italiano. Nel rendere conto di questa salita non posso fare a meno che lasciar la penna al valente alpinista tedesco che ne scrisse una succinta relazione sul libretto della sua guida.

«En partant de la cabane Mannelli (Italie) nous atteignîmes le Roseg-Fuorcla (Güssfeldt-Sattel) d’ou nous exécutâmes une nouvelle ascension du M. Scerscen, en suivant plus ou moins la grande arête jusqu’à la «Schreckhaube» et de là, sans plus nous éloigner de l’arête, jusqu’au sommet du Scerscen. La descente devait s’effectuer par le versant suisse. Pendant 4 heures consécutives E. Rey a dû couper des grandes marches pour frayer un chemin dans ce mur de glace, qui sépare les parties supérieures de la montagne de l’arête inférieure; celle-ci était toute couverte de neige et nous devions la descendre pendant les premières trois heures de la nuit. La descente entière a duré depuis 1 heure p.m. (22 sept.) jusqu’à 4 heures a.m. (23 sept.), et seulement 24 heures après avoir quitté la cabane italienne, nous arrivions au Restaurant Roseg. C’est a l’exceptionelle adresse de Rey et à son courage à toute épreuve que nous devons la réussite complète de notre tentative un peu hasardée. Il est de mon devoir de professer tout haut l’admiration que j’ai pour les qualités extraordinaires d’Émile Rey».

Tale è il primo attestato rilasciato dal Güssfeldt al Rey, che divenne, d’allora in poi, la sua guida prediletta, accompagnandolo, come vedremo, ad azzardatissime esplorazioni. Fu il Güssfeldt che fece conoscere il nome di Emilio a S. M. l’Imperatore di Germania, il quale da lui sarebbe stato guidato sulle montagne scandinave se la politica, quella gran brutta megera, non fosse venuta a sventare il progetto.

Al primo accostarsi ad una guida conosciuta e di fama, restiamo titubanti, affascinati da un’ingenua soggezione che ci fa sembrare quasi ragazzi. Questa sensazione di rimpicciolimento, che svapora il nostro giustificato orgoglio di parer superiori a quegli uomini rozzi, ma pur grandi, non la provarono soltanto gli alpinisti «à l’eau de rose», ma i più valenti e provetti. Spigolando l’epistolario di Emilio Rey, trovo alcuni brani di lettere che meriterebbero di essere trascritti testualmente, perchè farebbero vieppiù risaltare la considerazione che di Emilio si aveva nel mondo alpino.

Così il dott. Güssfeldt nel sollecitargli il favore di accompagnarlo, ebbe cura di aggiungere: «J’ai assez d’expérience dans les hautes montagnes, pour pouvoir apprécier vos qualités extraordinaires, et vous pouvez être sûr que je vous causerai peu d’embarras, même dans des situation difficiles».

Tutti poi badavano di notificargli il loro stato di servizio e a che punto giungeva la loro forza di resistenza, perchè sapevano che il Rey ripugnava di accompagnarsi, in salite difficili, con neofiti in alpinismo. Ma torniamo in carreggiata.

Verso la fine di dicembre del 1887 i signori Corradino, Gaudenzio, Erminio e Vittorio Sella, accompagnati dai tre Maquignaz, padre e figli, e da Serafino Henry di Courmayeur, tentavano il M. Bianco, partendo dalla Capanna Q. Sella al Rocher du Mont Blanc. Furono ricacciati in basso dallo scatenarsi improvviso di una tormenta. Non iscoraggiti da questo tiro birbone del tempo, al mattino del 4 gennaio 1888 ritentavano la prova, nella speranza che il Monte li volesse benignamente ricevere per augurargli il buon capo d’anno. Invece di Henry, questa volta colla comitiva Sella, partiva Emilio Rey.

È superfluo ripetere qui tutte le peripezie della faticosissima marcia del 5 gennaio, nella quale, partiti dal rifugio Q. Sella, raggiungevano la vetta e discendevamo a pernottare ai Grands-Mulets. Il sovrano dei monti li accolse con un sorriso mefistofelico, ed appena partiti prese il broncio e li avvolse di una fitta nebbia. Però aveva fatto i conti senza la valentia delle guide, chè queste non se la presero, e trassero la comitiva a salvamento malgrado l’oscurità della notte e la molestia del freddo e della pesante nuvolaglia.—«Sotto l’ultima delle Bosses du Dromadaire il Rey, con Daniele Maquignaz e Vittorio Sella, intraprese rapidamente la discesa ai Grands-Mulets, onde tracciare la via verso essi, al resto della comitiva. La notte buia e la nebbia sorpresero tosto il Rey ed i suoi due compagni. Egli tuttavia seppe dirigere la discesa con coraggio ed abilità sorprendenti, superando senza gravi ritardi le numerose difficoltà che presentarono i larghi crepacci del ghiacciaio e raggiungendo i Grands-Mulets verso le 10 della sera5».

Questa ascensione invernale al M. Bianco fu giudicata dal Cunningham come uno dei più rimarchevoli «tour de force» compiti in inverno nell’alta montagna.

Così fu brillantemente inaugurato l’anno 1888, che l’avrebbe coronato dei più fulgidi allori, se circostanze imprevedibili non fossero sopraggiunte ad annientare gli accarezzati ideali. Forse doveva riuscirgli fatale. Che a qualche cosa «malheur est bon?»

Rey desiderava ardentemente misurarsi su montagne sconosciute, fuori delle Alpi; e quando il sig. Maurice de Déchy lo richiese per accompagnarlo nel Caucaso, accolse la proposta con entusiasmo. A questo proposito, mi scrisse lo stesso Déchy: «Il n’y avait là dedans peu d’intérets materiels; c’était le désir ardent d’Émile de voir et d’essayer ses forces dans une des montagnes hors de l’Europe».

Siccome il sig. Déchy aveva, in quell’epoca, una missione da compiere pel suo governo nella Bosnia e nella Erzegòvina, decise d’intraprendere quel viaggio in principio della stagione, restarvi qualche settimana e partire quindi pel Caucaso. Egli invitò il Rey ad essergli compagno anche nelle Alpi Dinariche. Emilio anticipava perciò la partenza e verso la fine del maggio del 1888 giungeva a Budapest in casa Déchy. Terminati i preparativi pel viaggio nel Caucaso, partirono per Sarajevo nella Bosnia. Per quasi due mesi percorsero quelle montagne poco conosciute, compiendovi diverse ascensioni, fra le quali, quelle del Vlasulja e del Maglich che è punto culminante delle Alpi di Bosnia ed Erzegovina. «Rey era guida, compagno, assistente. Non vi erano grandi difficoltà da vincere in quelle ascensioni, ma se non era «le grand guide» che allora si faceva valere, era però il viaggiatore perfetto che sapeva prestarsi a delle posizioni insolite, rendersi utile nei lavori scientifici e sopratutto di essere il più gradevole compagno di viaggio».

«Eh bien! Monsieur—esclamava allora al Déchy—si nous serons au Caucase, sur ces grands sommets, parmi les roches et la glace, vous verrez ce que je peux, s’il le faut!»

Ma ohimè! Così non doveva essere. La missione del Déchy terminavasi troppo tardi per poter intraprendere nello stesso anno il viaggio nel Caucaso. D’altronde Rey era impegnato per la fine di luglio con Miss Richardson e non voleva mancare alla parola data. In seguito il sig. Déchy non trovò mai il tempo per compiere il suo progettato viaggio; ma se l’avesse intrapreso, avrebbe certamente scelto Rey come compagno, e questi sarebbe accorso premurosamente.

Era disegno del Déchy, appena fossero giunti nel Caucaso, di tentare la salita del Dychtau (il Cervino di quella colossale catena—oggi Koshtantau). Chi sa, se la sorte toccata ai signori Donkin e W. Fox, non li aspettasse anche loro?

«Non, c’est dans ses montagnes, à lui, qu’Émile Rey devait mourir. Mais s’il a accompli le mieux dans les Alpes, le voyage qu’il avait fait avec moi hors de son domaine, le montrait voyageur accompli, l’homme qui savait partout gagner les sympathies». Così termina l’epistola del sig. Déchy, colma di effusione di tenera riconoscenza e di ammirazione per la diletta sua guida Emilio Rey. Verso quest’uomo, unico nella modesta sua professione, in tali sensi si esprimono anche i Cunningham, i Güssfeldt, le Richardson e la numerosa falange degli amici che con lui ebbero relazioni o conoscenza! Solo ora che non è più, notiamo il grande vuoto che lascia dietro di sè.

Ritornato nel suo Monte Bianco a raggiungere Miss Richardson, compiva con la medesima, fra l’altre, la prima ascensione dell’Aiguille de Bionnassay, per la cresta Sud. Nella discesa, che effettuarono per la cresta Est, dovettero procedere per più di un’ora, a cavalcioni sulla stessa, foggiata a lama di coltello e sorpiombante sui sottostanti ghiacciai. Qual deliziosa passeggiata abbiano fatta, su quell’esilissima ed affilata cornice di ghiaccio, lasciamo immaginare al lettore! Peccato che giunti al Dôme du Goûter non abbiano rivolti i loro passi verso il Monte Bianco; così creavano una novella strada per quella somma vetta.

Con la stessa valente alpinista nel 1889 saliva l’Aiguille de la Za per la faccia Ovest, la Pigne d’Arolla pel versante Nord-Est, e la traversata dal Petit al Grand Dru, già menzionata. In settembre faceva la prima ascensione del Dôme de Rochefort col sig. W. Muir.

In principio dell’estate 1890 Emilio era a Grindelvald con la Richardson che guidò al Mettenberg, alla Jungfrau, al Beichgrat. Venuti a Zermatt traversavano il Castor variando la solita via sì nella salita che nella discesa. Eletto quindi il quartier generale al Montanvert, effettuavano l’ascensione dell’Aiguille di Chardonnet, discendendo per la faccia Sud-Est. Questa strada già tentata, altre volte, veniva poco dopo seguita nell’ascesa dal sig. C. J. Arkle.

Continuiamo a spigolare il libretto di Emilio Rey; d’altronde sono salite di data così recente che sono nella memoria di tutti.

Nel gennaio del 1891 il dott. Güssfeldt, che il Rey aveva accompagnato nella precedente estate, venne a Courmayeur coll’intento di compiere alcune ascensioni invernali. I suoi occhi si volsero sulle Grandes-Jorasses, che per maestosa imponenza ed elevazione rivaleggiano col Monte Bianco. La salita venne fatta il 14 gennaio, senza incontrare gravi ostacoli, se non la molestia della nebbia che li avvolse nella discesa. Il 25 dello stesso mese, anche il Gran Paradiso veniva soggiogato, ma dette del filo da torcere. Per ben tre volte dovette la comitiva salire da Valsavaranche al Rifugio V. E. prima di riuscire. Il tempo avverso sempre li ricacciava in basso. E se vollero che il loro tentativo avesse un felice epilogo dovettero intraprendere l’ascensione di notte.—«La persévérance de Rey s’est jointe à la mienne—scrisse il Güssfeldt—et c’est par cela que nous avons triomphé à la fin. Tout ce que un homme peut faire pour un’autre, Rey l’a fait pour moi. Honneur et reconnaissance à lui!»

L’estate seguente Emilio fu col dottor Ludwig Darmstädter nel gruppo del Gran Paradiso e nella catena del M. Bianco; accompagnò Miss Richardson all’Aiguille meridionale d’Arves in Delfinato, ed in settembre era nuovamente con Paul Güssfeldt.

Con questo ultimo alpinista e coadiuvato dal compianto Savoye, fu nel 1892 al Monte Bianco pel ghiacciaio della Brenva, creando un’altra variante. Posso asserire, senza tema di essere smentito, che nessuna guida salì questa montagna tante volte e per tanti lati come fece Emilio Rey. Con quel colosso era in intima confidenza, ne conosceva tutti i segreti, tutte le debolezze; era, si può dire, quasi proprietà sua.

Nello stesso anno, in principio della stagione, Emilio guidò Walther Schultze alle principali vette del Monte Rosa; e più tardi, aveva l’insigne onore di accompagnare S. A. R. il Duca degli Abruzzi, coll’avv. F. Gonella, al Dente del Gigante e nella traversata del Colle di Talèfre.

In giugno del 1893, il Rey trovasi nelle Alpi Retiche a guidare il sig. A. von Rydzewsky alle prime ascensioni del Pizzo Torrone Occidentale e della Cima di Rosso, entrambi per la parete Nord, del Dente di Sciora, del Colle e della Cima di Castello e del Piz Badile. Dall’Engadina Emilio riducesi al paese natìo, dove l’attendono i signori Wicks, Wilson e George Morse per accompagnarli all’Aiguille Noire de Pétéret.

In agosto è già in Delfinato con la sua inseparabile alpinista inglese. Là, per il persistente cattivo tempo, devonsi accontentare del Pic Oriental della Meije.

Siamo ora giunti alla più fulgida delle sue vittorie, ad una di quelle imprese che di rado si ripetono e lasciano lungo ricordo dietro di sè. Voglio accennare alla conquista dell’Aiguille Blanche de Pétéret per la parete Est del M. Bianco direttamente dalla stessa. Questa veramente fu l’ultima vittoria che il Rey abbia riportato sulle montagne e specialmente sul M. Bianco.

Ma se fu l’ultima, segnò anche l’apogeo della gloria che egli si era acquistata come guida alpina.

Fu il dott. Paul Güssfeldt di Berlino, più volte nominato, che ebbe il vanto di compiere tanta impresa. Oltre che dal Rey, era accompagnato dalla guida svizzera Chr. Klucker e da Cesare Ollier di Courmayeur, allora portatore e che promette di venire all’altezza dei suoi compagni di spedizione. La corsa durò 82 ore, dal 14 al 17 agosto. Partiti alle 4 del giorno 14 da Courmayeur, raggiungevano verso le 18 ½ un sito adatto per passarvi la notte a 3200 m. sulla parete Est dell’Aiguille Bianche de Pétéret. L’indomani, licenziati i portatori venuti a recar coperte, ricominciarono l’arrampicata che fu pericolosissima nel primo tratto, quindi solo vertiginosa, sebben non facile. Alle 11 ½ erano sulla vetta dell’Aiguille ad inalberare il vessillo della vittoria. Ridiscesi al Passo di Pétéret, per creste, talancie ghiacciate e roccie friabili, alle 16 trovavansi ancora 700 metri al di sotto della vetta del Monte Bianco. Non avendo la possibilità di salirlo, stante l’ora tarda e le probabili difficoltà da incontrare, sbarcarono la nottata ai piedi di una ripida parete rocciosa a 4250 metri. Rey, per tutta la notte, tenne desta la comitiva colle sue canzoni francesi e coi suoi spruzzi di motti spiritosi.

Il 16, partiti per tempo, raggiungevano il M. Bianco e scendevano a pernottare alla capanna dei Rochers Rouges (4500 m.), da dove il giorno dopo, pel Grand Corridor, il Grand Plateau, il Dôme ed il ghiacciaio del Dôme, erano di ritorno a Courmayeur verso le ore 21.

Ho voluto tracciare l’itinerario, non per dare importanza alla impresa, ma per dimostrare di quale forza di resistenza, di qual straordinaria vigoria d’animo e di corpo la comitiva era dotata. E dire che in tutto il tempo che durò, non successe un minimo episodio rattristante.

Güssfeldt scrisse per tutta lode sul libretto di Emilio: «Il fallait un compagne aussi tenace, vigoureux et brave que Rey pour mener cette entreprise a bonne fin.»

Nel settembre del 1893 Emilio Rey fu di nuovo con W. E. Davidson che assieme ai signori M. Holzmann e G. FitzGerald, ascese i Jumeaux, compiendo la seconda ascensione della punta Giordano; traversò le cinque punte dell’Aiguille des Charmoz dal Nord al Sud, e salì le due vette dell’Aiguille du Dru.

Nel 1894, Emilio Rey veniva scelto da S. A. R. il Duca degli Abruzzi e dall’avv. F. Gonella, quale loro prima guida. A tutti è noto lo splendido risultato di quella campagna. S. A. dimostrò di possedere una fibra robusta ed animo forte, incrollabile. Del Rey, il Principe sentenziò che con lui si può essere sicuri di compiere qualunque ascensione: parole che prendono un rilevante significato dalla Augusta penna che le dettò. Nel settembre dello stesso anno, Emilio eseguiva col Güssfeldt la quarta (credo) ascensione del Cervino per la Cresta di Zmutt.

Meritevole di essere segnalata, è la corsa che il Rey fece nel passato agosto con George H. Morse. Saliti al Monte Bianco dai Grands-Mulets per le Bosses, discendevano pel Corridor al M. Maudit, dal quale al Mont Blanc du Tacul e quivi a Montanvert. Il 23 di quel mese salutava per l’ultima volta l’Aiguille du Dru che tante volte soggiogò, e la dimane veniva al Dente del Gigante..... dove trovò la morte.

Qui la penna, che febbrilmente scorreva sulla carta, quando narrava le gesta gloriose del Rey, cade involontariamente di mano. Una stretta al cuore, uno stringimento alla gola, mi strappano le lagrime, che solcando silenziosamente le gote cadono ad inumidire il foglio. È angoscia, strazio, sgomento, sconforto che provo? Non so; certo una fusione di tutti questi sentimenti.

Che il Rey sia perito ai piedi del Dente del Gigante e nel modo tragico che tutti sappiamo, è un pensiero che la ragione non ammette e all’animo ripugna. Lungi da noi l’idea di polemicare sulla sua condotta; altri più autorevoli di noi, non gli diedero torto. Perchè viaggiare in due soli e perchè slegarsi quando l’apparente pericolo esisteva? Egli non è più per risponderci; ma se ci fosse, son certo che i suoi ragionamenti ci indurrebbero ad approvarlo. Se errore vi è stato in quest’ultima pagina della sua vita, esso non menoma in verun modo la squisita bellezza del suo libro d’oro. Non è una macchia che alteri la candidezza del foglio, ma un’inezia che passa inavvertita. Come si può prevenire i pericoli minimi, quando continuamente si lotta coi grandi?

Emilio Rey ebbe il vanto di accompagnare i più celebrati alpinisti dei Clubs Alpini europei, e questo torna ad onore del Club Italiano e delle sue guide di cui egli rialzò il prestigio. E la nostra Società, memore dei servigi direttamente o indirettamente resile, porrà un perenne ricordo a quello che fu il principe delle sue guide, principe di sangue democraticissimo se si vuole, ma nobile e puro, disinfettato da ogni microbo malefico nell’aereo ambiente dove traeva vita.

Egli teneva ad occupare il posto che si era conquistato fra i suoi colleghi; era conscio del proprio valore, ma dal suo animo non trapelava un’ombra di vanagloria. Era altero sì, ma non presuntuoso; non si diede mai il caso che s’impermalisse del successo di altre guide. Il sentimento che egli provava di sè stesso era alterezza, non alterigia, come alcuni invidiosi gli rimproveravano. D’altronde «noblesse oblige»; e «on n’est pas un grand homme à bon marché» direbbe l’Houssaye.

Egli metteva sempre una distinta separazione tra quelli che tengono il più alto ed il più basso rango nella sua professione.

«Un giorno al Montanvert—narra il Cunningham—assistevamo all’arrivo dei «poliglotti», come un’ingegnosa persona battezzò quella turba composta di quasi tutte le nazioni, che può essere vista ogni giorno compiendo il penoso pellegrinaggio da Chamonix al Montanvert. In essa trovavasi un inglese che si era già provvisto di occhiali verdi, di un velo e di scarpe per la montagna, e che non gli mancava più che una guida per terminare i suoi preparativi. Volgendosi al Rey e indicando dapprima la Mer de Glace e quindi il Chapeau, gli chiese: «Combiang?»—«Voilà, Monsieur,»—replicò Rey, scoprendosi e indicando con la mano sinistra un gruppo di piuttosto poveri campioni della Société des Guides,—«voilà les guides pour la Mer de Glace; moi, je suis pour la Grande Montagne».

Emilio Rey possedeva in sommo grado tutte le qualità che fanno le grandi guide: audacia, sangue freddo, prudenza, robustezza, abnegazione, gentilezza di maniere, tali erano le supreme doti dell’uomo, del quale intessiamo brevemente la vita. La prima di queste qualità fu certamente il grande amore per l’ammaliante sirena dei monti, un amore come pochi professano e che egli portava sino all’idolatria. Era, si può dire, «l’enfant gâté» della montagna: non visse che per essa e… morì per la medesima. L’ideale della sua vita fu l’alpinismo, nel quale navigò in tutti gli orizzonti, in tutte le sue manifestazioni. Ma fu un pilota abile che seppe evitare lo scoglio anche nel più forte della tempesta.

Il mare, quell’infinita distesa di liquido glauco che v’invita voluttuosamente a tuffarvici e vi procura sensazioni indescrivibili, il mare infido, ad un tratto, quando meno ve l’aspettate, vi inghiotte e sparite nel caos. Tale è la montagna. Quale è la sorte dei marinai, dei marinai che si sono affacciati impassibili cento volte sulla porta degli abissi? Così quella delle guide; così fu di Emilio Rey, benchè fosse attento e coraggioso timoniere.

Sebbene il suo temperamento e la sua indole avida di novità lo spingessero sempre avanti, sapeva fermarsi quando e dove al coraggio sostituivasi la temerità. Egli non oltrepassò mai i limiti concessi dalla prudenza, e non si potrebbe trovare un accidente toccato ad un suo viaggiatore.

«Avec cela, chercheur toujours en éveil, sans routine dans le choix des routes et des moyens d’accés. En s’occupant de vaincre l’obstacle immediat du terrain, son œil fouillait dejà au loin et sa pensée concevait l’assaut prochain. Sobre, ennemi du tabac, d’une propreté méticuleuse qui ne se fiait jamais aux porteurs dans les soins de la cuisine et l’entretien des refuges, complaisant pour ses camarades, il n’avait aucune des prétentions ridicules de certains grands guides, dont les épaules se croyent déshonorées par la présence d’un sac».—Così Miss Richardson, che del Rey poteva darci un adeguato giudizio, lei che l’ebbe, per molto tempo, a condividere e l’amaro e il dolce della rude vita alpina. Gli inglesi, così parchi nelle lodi, per Emilio Rey calpestano la loro naturale ritrosia e freddezza e ce lo dipingono quale era realmente, con un colorito caldo… veramente alpino.

Terminando, non posso a meno di riportare uno stralcio di lettera del dott. Paul Güssfeldt, che per l’autorevole persona che l’ha scritta, torna al massimo vanto del nostro Emilio: «… Vous savez que j’ai tenu Rey dans la plus haute estime, qu’il m’a rendu les plus grands services, qu’il était d’un courage, d’une adresse, d’une connaissance des montagnes sans pareil et qu’il restait fidèle a son devoir sans crainte de mort».

Al monumento, che auspice la Sezione Torinese del C. A. I. gli alpinisti erigeranno prossimamente a Courmayeur, paese nativo di Emilio Rey, si raccolgano le giovani reclute ad infiammarsi di quell’entusiasmo e di quell’ardimento mai venuti meno alla grande guida, e cerchino di seguirne le orme, sia nell’assennata audacia, che nella piacevol arte di aggradire. Esso costituirà un pegno, un mutuo contratto tra le guide e l’alpinismo.

Courmayeur, marzo 1896.

Giulio Brocherel (Sezione d’Aosta).

Debbo qui pubblicamente ringraziare distinte persone che col Rey avendo viaggiato erano in grado di pronunziare giudizii e fornire ragguagli sulle loro salite. Al Cunningham per il prezioso dono del suo «The Pioneers of the Alps;» a M. von Déchy, al dott. P. Güssfeldt, a Miss K. Richardson, ecc., l’attestazione della mia sentita riconoscenza.

Va pure ricordata l’opera prestatami dalla gentilissima signorina Mary Ruffier di Courmayeur, nella ricerca e nell’interpretazione di articoli comparsi su riviste anglo-sassoni. Ch’essa riceva un grazie di cuore. G. B.

Prime ascensioni compiute da Emilio Rey

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3

Vedi “Rev. Alp. de la Sect. Lyonn. du C. A. F.„ (N. 9 del 1895); Emile Rey par M. Paillon et K. Richardson.

4

Vedi: Evening Express di Edimburg del 12 febbraio 1884.

5

Vedi le annotazioni del sig. Sella sul libretto di E. Rey.

Bollettino del Club Alpino Italiano 1895-96

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