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Spedizione scientifica al Monte Rosa
(1894 e 1895).
Indagini sulle acque e sulle nevi delle alte regioni
II.
Crioconite

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Nordenskiöld nel suo viaggio in Groenlandia nel 1870 aveva trovato disseminata alla superficie del ghiaccio continentale (inlandsis), tanto nella sua porzione marginale, quanto a 150 chilometri dalle coste, una polvere fina, amorfa, che egli battezzò col nome di crioconite. Studiandone la forma e la composizione la credette d’origine cosmica e in parte anche eolica, cioè dovuta al trasporto di particelle per opera dei venti.

Lo scienziato svedese confermava le prime sue osservazioni esaminando varii esemplari di polvisculi caduti durante un uragano di neve nel 1871 a Stoccolma, o raccolti in varie parti della penisola scandinava; nel 1872 ritrovava e ristudiava la crioconite sui ghiacci galleggianti presso le isole Spitzberg25; tornato poi nel 1888 in Groenlandia riprendeva lo studio della crioconite, che egli trovò abbondante, e che anzi fu uno dei maggiori ostacoli al progresso della sua spedizione26.

La crioconite di Groenlandia è una polvere nera, fine, avente l’apparenza di fuliggine; si può trovare sparsa uniformemente alla superficie del ghiaccio in strati di spessore vario da 1 millimetro a 1 decimetro; spesso si raccoglie entro a cavità cilindriche verticali, veri pozzi in miniatura, profondi da pochi millimetri a 1 metro e larghi altrettanto. Il fondo è coperto d’un leggero strato di crioconite, mentre la cavità stessa contiene acqua, e la superficie per lo più è coperta da un velo di neve o di ghiaccio che nasconde il tutto. Nello spazio che è fra parecchi grandi fori si eleva un cono di ghiaccio annerito dal polviscolo. La superficie del ghiacciaio così tormentata è difficilissima a percorrersi; ad ogni passo la gamba affonda entro le trappole celate sotto la neve.

Nella crioconite di Groenlandia e di Spitzberg e nei corpuscoli trascinati e racchiusi nella neve delle bufere e delle nevicate esaminate dal Nordenskiöld si rinvennero costantemente granuli di ferro nativo con traccie di cobalto e di nickel, cristalli di quarzo, di mica, di augite e di altri minerali, sostanze organiche solubili in alcool ed etere, forme di vegetali monocellulari viventi, alcune volte (come per esempio dopo l’eruzione del vulcano Krakatoa) ceneri vulcaniche.

La presenza del ferro magnetico unito al cobalto ed al nickel, la costanza di composizione avente una certa indipendenza da quella delle roccie vicine, la diffusione in zone lontane fra di loro, sono altrettanti argomenti i quali inducono il Nordenskiöld ad attribuire alla crioconite un’origine eolica e cosmica.

Le idee dello scienziato svedese però non sono state accolte da tutti; parecchi vedono nella crioconite il prodotto dell’erosione e dello sgretolamento delle roccie fra cui è incassato il ghiacciaio, le quali anche in Groenlandia talora alzano il capo dal potentissimo mantello di ghiaccio, formando quei picchi isolati che si chiamano col nome di «Nunataks». Di più, un altro esploratore della Groenlandia, il Nansen, che, più fortunato di tutti i suoi predecessori, valicò dalla costa orientale alla occidentale percorrendo sempre l’inlandsis, non rinvenne che in un solo punto del suo tragitto la crioconite, il che dimostra la sua zona di distribuzione non essere così vasta come il Nordenskiöld vorrebbe ammettere.

Una polvere avente tutti i caratteri della crioconite si può trovare qua e là sui nostri ghiacciai; e come essi sono una miniatura dei vasti campi di ghiaccio polari, così la crioconite vi si trova radunata in condizioni che riproducono su piccola scala quelle della Groenlandia.

Nelle mie ricerche trovai i depositi caratteristici di crioconite limitati a quella parte del ghiacciaio del Garstelet che scende a lambire la cresta rocciosa che spiccandosi dall’Hohes Licht sale fino a formare il mucchio di pietrame su cui posa la Capanna Gnifetti. Verso il Garstelet questo sprone di roccie non ha quasi alcuna sporgenza, sì che il ghiacciaio scende lievemente a morirvi sopra; verso il ghiacciaio inferiore del Lys, invece, è un precipizio vertiginoso. L’orlo inferiore del ghiacciaio è quasi pianeggiante, e per un tratto, che si avanza di forse un centinaio di metri verso la parte superiore del ghiacciaio stesso, si mostra tutto cribroso per innumerevoli fori. Sono queste le aperture di piccoli pozzetti verticali, cilindrici, della profondità di 10 a 15 o 20 centimetri, del diametro che varia da pochi millimetri ad 8-10 centimetri. Chiusi talora da un dischetto di ghiaccio sottile, sono ripieni d’acqua limpidissima, e al fondo hanno uno straterello d’una polvere nera, fioccosa, che pare fuliggine.

Non è difficile il comprendere la formazione di queste cavità: gli ammassi di questo materiale scuro, che assorbe intensamente il calore, provocano la fusione del ghiaccio circostante e si vanno seppellendo nella fossa che scavano da sè, finchè, giunti a tale profondità che il calore diurno non li tocca più, si fermano. Ho potuto constatare che dopo una nevicata che abbia seppellito tutto uno strato di pozzetti di crioconite, al disotto dello strato superficiale permane la superficie cribrosa; in una sezione verticale praticata in queste condizioni si scorge sotto l’ultima neve recente la traccia dei pozzetti e della crioconite primitiva.

Nel 1895 percorsi in vario senso il Garstelet per istudiarvi l’origine della crioconite; e potei farmi una idea più esatta della sua formazione, sebbene non abbia per varie circostanze avuto mezzo di farne raccolta sì da ripetere e completare le analisi che riporto qui sotto.

Il Garstelet è una superficie unita di ghiaccio che non presenta traccia di crepacci se non nella porzione superiore, dove si confonde coll’Indren per fasciare i fianchi della Piramide Vincent. Per questa sua continuità e per la sua disposizione a ventaglio le acque di fondita vi scorrono sopra in un velo continuo e si raccolgono in rivoletti tutt’intorno all’estremità del ghiacciaio. Sono queste acque superficiali che raccolgono e trascinano il polviscolo nero detto crioconite, il quale s’arresta qua e là e si affonda nei pozzetti la cui acqua fa parte del velo scorrente sul ghiacciaio stesso. La neve recente porosa ricopre alla sua volta di uno strato più o meno sottile la massa glaciale, i pozzetti superficiali di crioconite e lo strato acqueo continuamente fluente. In qualunque punto colla piccozza si rompa la prima crosta tenue di neve e ghiaccio friabile, sgorga subito l’acqua irrompendo da ogni lato, riempie e inonda i pozzetti esportandone il fine detrito nero. Il ghiaccio sottoposto è compatto, duro, purissimo; le analisi gli assegnano il residuo fisso più tenue, e l’ammoniaca in certi punti è scomparsa, lavata essa pure dalle acque.

Dove i ghiacciai sono molto inclinati, e fessurati dai crepacci, e solcati da quei ruscelli che nascono, crescono impetuosi col sole e muoiono con lui, la crioconite è trascinata nelle cascate e scende a mescolarsi col profondo limo glaciale. Alla superficie calma, riposata, unita del Garstelet invece rimane a lungo depositata sotto l’acqua dei pozzetti, spesso congelantesi durante la notte, e lentamente scende a seppellirsi sotto le morene e le roccie che incassano il ghiaccio. Più in alto, al Colle del Lys (4200 m.) la mancanza di fusione, anche diurna, spiega l’assenza di crioconite, che potrebbe benissimo formarsi per la poca inclinazione e la scarsità di crepacci.

Con questo meccanismo continuo, agevolato dalla pressione e dal movimento dei ghiacciai, la crioconite della superficie scende al profondo, dove si mescola colle sabbie moreniche, coi limi glaciali e passa nelle correnti inter- e sottoglaciali, dove non è più possibile isolarla.

25

Om kosmiskt stoft, som med nederbörden faller till jordytan. “Ofversigt a Kongl. Vetenshaps-Academiens Förhandlingar„ 1874, nº 1. Stockholm.

26

A. E. Nordenskiöld: La seconde expédition suédoise au Grönland (Paris, Hachette) pag. 194 e segg.

Bollettino del Club Alpino Italiano 1895-96

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