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LE ORIGINI DEL COMUNE DI MILANO

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DI

ROMUALDO BONFADINI

Lo studio delle origini – è bene saperlo prima di mettersi in via – rappresenta per lo spirito piuttosto una fatica che un diletto.

La scarsità delle fonti, la cronologia difficile, l'ermeneutica capricciosa obbligano a lunghe indagini, a laboriose induzioni, per istabilire quello che si suole chiamare la verità storica e che, nella maggior parte dei casi, si limita ad essere la congettura più verosimile. E d'altra parte, urtano così fieramente coi nostri i costumi, i sentimenti, le leggi di quell'epoca buia, che il piacere dei paragoni scompare, e la stessa immaginazione si stanca a cogliere e ricomporre la continuità dei contorni in quelle figure, di cui la storia non può dare generalmente che tratti incompleti, interrotti, sfumati nel tipo morale e nelle particolarità dell'azione.

Però, v'è un aspetto del problema che può mitigar la fatica di questo studio. È una soddisfazione di pensiero che non può sembrar vana al filosofo, se anche lascia indifferente l'artista. Poichè nello studio delle origini assai più che nello spettacolo delle decadenze l'orgoglio dell'umanesimo trova ragion di affermarsi.

Le origini non sono altro, storicamente, che i periodi nei quali le istituzioni umane, di qualunque natura, passano dallo stadio anarchico ad una forma organica. Ora, difficilmente questa trasformazione si manifesta, senza l'impulso della virtù. Virtù d'uomo o virtù di popolo; genio di individui o istinto di moltitudini; energia d'iniziative, quand'anche macchiate dalla fatalità del delitto, o devozioni di concordia, quand'anche rese inefficaci da difetto di previdenza.

Il fenomeno può dirsi costante, in quanto si riferisca alle origini dei poteri pubblici, siano monarcati, comuni e repubbliche. Sembra quasi che la Provvidenza abbia voluto imprimere a questi periodi, che rasentano in certo modo lo sforzo della creazione, quel carattere di grandezza che necessariamente segue o circonda i creatori. Così, non si può pensare alle origini della monarchia francese senza risalire a quel Carlo Martello, che rimane nelle fantasie popolari come il tipo del guerriero nazionale invincibile. Ruggero il normanno e Umberto Biancamano dominano della loro fiera e simpatica personalità le origini dei due maggiori principati italiani. Nè la fondazione della monarchia spagnuola può disgiungersi da quel generoso nucleo di patrioti, raccoltisi con Pelagio sui monti baschi a costituire il battaglione sacro della resistenza nazionale. Nè la storia grande della repubblica di Venezia può farci obliare quell'energico esodo di pescatori che giurano di mantenere, sulle palafitte di Rialto, la loro libertà insidiata dalle orde conquistatrici della terra-ferma.

È sopratutto nel secolo undecimo che l'Italia vede sorgere a vita organica parecchie delle sue agglomerazioni politiche. Prima del mille, qualche tentativo di ricostituzione serve quasi unicamente a confermare lo stato di dissoluzione in cui langue tutta la penisola. Non s'è ancora dimenticata l'ultima violenza delle invasioni barbariche ed ecco sopraggiungere a disgregare ogni compagine sociale la preoccupazione del finimondo. Le lotte civili, accanite negli ultimi tempi, vanno perdendo d'intensità, non perchè scemi l'abitudine delle offese, ma perchè tutti sono intenti al pericolo della fine suprema, che le profezie popolari hanno segnalato.

Come il feudo era stato lo strascico della conquista, così il beneficio ecclesiastico diventa lo strascico lasciato dalla paura del finimondo. Le autorità secolari, che non possono garantire la vita eterna, perdono d'influenza; ne acquistano a dismisura le autorità chiesastiche, nelle cui mani stanno le chiavi del perdono e della salvezza. Così il potere politico viene a poco a poco assunto dagli arcivescovi, contro i quali non hanno più forza i conti e i duchi, lasciati dai conquistatori stranieri a rappresentanti dell'impero feudale nelle città. Le donazioni arricchiscono preti e monasteri, che dalla ricchezza traggono facile stimolo alla corruzione. Ed ecco preparate le due questioni che nel secolo undecimo agiteranno l'Italia. La lotta per le investiture e la riforma disciplinare del clero. Nè dal mille è lontano Gregorio VII, che di entrambe le questioni sarà nel tempo stesso il più formidabile campione e la più illustre vittima.

Senonchè il pauroso millenio è superato senza catastrofi e il mondo comincia ad acquetarsi nel pensiero della propria continuazione. Che cosa accade? che i pochi, fatti potenti dalla superstizione, mirano a rassodare e rendere più completo il loro dominio; che i molti, costretti a vivere dopo aver creduto di morire, rimpiangono la cecità loro e le sostanze stremate; che il disagio turba profondamente le classi popolari, le quali escono dalla crisi, sentendosi sul collo il giogo rinnovato di due tirannie. Intanto ricompaiono le discordie intestine, le lotte feudali, che soltanto il timore della distruzione universale aveva frenate. Le ingordigie e le violenze si danno ad eccessi tanto maggiori quanto più lunga è stata l'epoca della loro forzata inazione. In questa ridda di passioni scompare ogni benessere di plebi, ogni generosità di ottimati; la legge è fatta ludibrio nelle mani di ogni forte; e il forte di oggi diventa lo sconfitto del giorno dopo. Tutto questo ha un solo risultato, una sola caratteristica, un solo nome: è l'anarchia.

Di qui nasce, nel secolo undecimo, quella reazione salutare che dà vita ai principati ereditari ed alle repubbliche comunali. Così l'una come l'altra forma organica è accetta alle moltitudini, delle quali ordinariamente soltanto il caso dispone. Poichè non bisogna illudersi che alle costituzioni cittadine del secolo undecimo abbia spinto un prepotente bisogno di libertà. Il bisogno prepotente era l'ordine, era la fine dell'anarchia. Dove il genio o la prepotenza d'un uomo bastasse a dare questa sicurezza di governo organico, le popolazioni accettavano anche la tirannia d'un solo, purchè le liberasse dalla tirannia dei molti. Se l'uomo mancava, o il genio non faceva perdonare la prepotenza, le moltitudini cercavano alla libertà il modo di vincere l'anarchia. Ma ci sono voluti dei secoli – forse ce ne vorranno ancora – perchè la libertà, accettata come il veicolo di un beneficio, diventasse un beneficio per sè. Quelle moltitudini, che nel secolo undecimo avevano saputo disciplinare gli ordigni della libertà, non esitarono a romperli, quando appena un'impressione momentanea portava verso altri orizzonti l'animo loro. La storia può essere interpretata, ma alla storia non può sostituirsi il desiderio. Il vero è che nei nostri grandi Comuni, se della libertà mancò rare volte l'intelligenza, quasi sempre mancò l'amore. Il vero è che nel sagace desiderio dell'ordine, le moltitudini italiane oscillarono spesso e spontaneamente fra i poteri autonomi e i principati sovrani. Poichè non sempre furono i tiranni che strozzarono le libertà; qualche volta le libertà si sono umiliate ai tiranni.

*

Una riprova di queste induzioni la si troverebbe con poco sforzo nella storia di uno dei maggiori municipi d'Italia; di quello che per la sua giacitura ha subìto prima degli altri, e forse più gravemente d'ogni altro, lo storico avvicendamento delle invasioni, delle liberazioni e delle tirannidi.

Intendo parlare di Milano.

Al principio dell'undecimo secolo Milano era forse una delle più popolose città d'Europa, e, senza forse, la più popolosa d'Italia. Era già stata a quell'epoca due volte nella polvere e due volte sugli altari. Nel secolo quarto, come sede del Vicario d'Italia, era considerata la seconda città dell'impero Romano. Il ferocissimo Uraja, condottiero dei Goti, vi sterminò più di 30 mila abitanti e fece della marmorea città un mucchio di rovine. Per tre secoli Milano sparisce quasi dalla storia e perde quei privilegi, che invece usurpano, come più floride, Pavia e Monza. La sola influenza che vi rimane grande è quella dell'arcivescovo; influenza che, per l'indole sua, subiva poco le fluttuazioni della prosperità materiale, conservando quel principato diocesano che si estendeva sopra 24 vescovati suffraganei e sopra un territorio che andava da Genova a Coira, da Mantova a Torino.

Ed è un arcivescovo, che nel secolo nono ritorna a floridezza e splendore le condizioni di Milano, venute lentamente migliorando sotto il regime dei Longobardi e dei Franchi. Ansperto da Biassono, probabilmente uscito dall'antichissima famiglia dei Gonfalonieri, governò per tredici anni, dall'868 all'881, la sede milanese; vi esercitò potere largo e benefico; mantenne contegno vigoroso contro le pretese di un pessimo Papa, Giovanni VIII; e rialzò, completandola, l'antica cerchia murata, già eretta dall'imperatore Massimiliano e demolita dai Goti. Questo bastò perchè fra gli abitanti della Lombardia, atterriti dalle frequenti scorrerie degli Ungheri e dall'imperversar dei banditi, si determinasse un vasto moto di emigrazione verso la città, dove quelle nuove e solide difese garantivano la vita e gli averi. Rapidamente la popolazione di Milano aumentò; sicchè nel secolo undecimo poteva calcolarsi, secondo il Cibrario, a trecentomila abitanti.

Questa però era prosperità materiale; che non toglieva l'anarchia delle prevalenze politiche, il mutabile avvicendarsi degli ordinamenti, la moltiplicità dei despotismi e delle giurisdizioni, la tradizione ostinata delle civiche turbolenze.

Cominciava l'incertezza nella stessa persona del sovrano legale. Ogni morte di principe dava occasione a più guerre, ed ogni volta si mutava la base elettorale o la forma di consacrazione del nuovo Re.

Dopo Carlo il Grosso, la successione dinastica di Carlo Magno in Italia era finita. Con un po' di concordia, le conseguenze della conquista avrebbero potuto mitigarsi e dar luogo all'instaurazione d'una monarchia nazionale. Invece, due Berengarj, un Guido, un Rodolfo, un Ugo, un Lotario, un'Ermenegarda, riempiono di lotte e di supplizi un secolo intero; dopo il quale, invitati dagli stessi pretendenti, i Re di Germania scendono a rioccupare il feudo italico. Nell'888 Berengario era stato coronato in Pavia, nel 961 Ottone I si fa coronare in Milano.

Questa mutazione di famiglia dinastica non impedisce che rimangano, sotto i nuovi principi, cogli antichi poteri, i rappresentanti degli antichi regimi.

Già i Longobardi avevano destinato un Duca a governare la città; e questo teneva il suo tribunale in un palazzo apposito, che si chiamava la curia del Duca, il cui nome, corrotto, vive ancora in una delle località milanesi più note, il Cordusio. I Franchi vi sostituirono un Conte, o piuttosto dei Conti, poichè sminuzzarono il territorio milanese e divisero dalla città i circondari rurali, di cui ciascuno ebbe il suo Conte, e si chiamarono a poco a poco il contado. Poi venne l'epoca della maggiore preponderanza degli arcivescovi; i quali, assenziente l'imperatore Germanico, si sostituirono ai Conti nel governo temporale delle città murate e degli abitanti immediatamente finitimi, distinti allora, per rispetto a quella sacra dominazione, col nome di Corpi santi.

Senonchè l'appetito veniva anche allora col cibo. L'arcivescovo di Milano, vistosi divenuto quasi un monarca, lottò coi monarchi, e pretese aver egli facoltà di consacrare quei principi da cui veniva poi investito dell'autorità sua. Indi la ragione di nuove lotte e di nuove incertezze nella sovranità. Si cominciò a distinguere, nella stessa persona, la qualità d'Imperatore Romano da quella di Re d'Italia. A Roma si otteneva la corona imperiale dal Papa; la corona reale doveva ottenersi a Milano dal successore di Ambrogio. Naturalmente, se questi Imperatori erano forti, combattevano le pretese dell'arcivescovo; se erano deboli, le subivano. E vediamo infatti che nell'876 Ansperto da Biassono presiede in Pavia una Dieta di vescovi e di conti, che elegge a re d'Italia Carlo il Calvo, già incoronato a Roma. E nel 1027, Corrado il Salico riconosce esplicitamente questo nuovo diritto, dicendo in Roma ai prelati che assistevano all'incoronazione: «sicut privilegium et Apostolicae Sedis consecratio imperialis, item Ambrosianae Sedis privilegium est electio et consecratio regalis2

A Milano poi – come, del resto, in ogni altra città considerata sotto l'alto dominio feudale – la giurisdizione del principe si esercitava a periodi intermittenti, mediante magistrati speciali, eletti in ogni occasione dal principe stesso, e che passavano sotto la comune denominazione di missi dominici. Era specialmente affar loro amministrar la giustizia, sedere arbitri fra le contese private dei cittadini, reprimere i violenti, difendere, dicevasi, i deboli. In ciò la loro autorità s'intralciava con quella dei duchi, dei conti, dei vescovi, e le decisioni contradditorie aumentavano le amarezze e gli sdegni. Nè questi missi dominici scendevano sempre dalle Alpi a portare la parola imperiale. Più volte quest'autorità si delegava dall'Imperatore a un conte, all'arcivescovo, a questo o quell'altro patrizio importante della città.

Che poi questi giudici avessero, indipendente da ogni altra, la forza necessaria per far eseguire i loro giudicati, non appar chiaro dai documenti dell'epoca. Se le parti s'acquietavano, il giudice imperiale poteva dirsi fortunato; se non s'acquietavano, chi aveva più forza si sottraeva agli obblighi imposti, e la sentenza non eseguita diventava un disordine, qualche volta un tumulto di più. A buon conto, per le uccisioni, che erano pur troppo allora i delitti più frequenti e più comuni, durò lungamente in vigore una legge di Carlo Magno, conservata dai successori, mediante la quale l'uccisore poteva liberarsi da ogni noia, col tribunale, pagando il vidrigildo (wehrgeld), ossia l'ammontare del valore, a cui era stimata la persona uccisa. È facile vedere a che conseguenze poteva tirare una disposizione di così ingenua barbarie. Non erano i ricchi quelli che valevano meno, e non erano i popolani quelli che potessero permettersi il lusso di simili pagamenti.

Si aggiunga a queste cause di profondo turbamento materiale e morale l'organismo interno delle classi nobili, dei discendenti dall'antica razza conquistatrice.

Passato il primo ed aspro periodo dei duchi, di fattura longobarda, e a potere interamente dispotico, i Franchi, ai quali era toccato in sorte regno più vasto e dominazione quasi europea, dovettero moltiplicare i loro conti, e tollerare necessariamente quella maggiore suddivisione di territori e di attribuzioni che corrispondeva alla minore intensità del dominio.

Elettivi dapprima, per sola e mutevole volontà del principe, come furono generalmente tutti i titolari feudali, fino alle leggi di Corrado il Salico, i più potenti cominciarono a poco a poco a rendere la carica ereditaria nella loro famiglia. Così a Milano s'era insediata la famiglia d'Este, i cui antichi progenitori rendevano giustizia, di padre in figlio, nel palazzo ducale longobardo, la Curia ducis. E questi, o mossi da precoce sentimento d'italianità, o, più verosimilmente, dal desiderio di aumentare, a spese di un sovrano più debole, la loro autonomia, s'erano fatti sostenitori, dopo la morte di Ottone III, di quel valente e infelice Ardoino d'Ivrea, che fu, prima di Vittorio Emanuele II, l'ultimo personaggio italiano, sulla cui fronte si sia posata una corona di re d'Italia.

Così la famiglia dei conti di Milano provocò le ire di Enrico II, re di Germania, debellatore di Ardoino. Parecchi membri di essa furono arrestati e trasportati in Germania, dove seminavano germi di nuove dinastie; ed essendosi contemporaneamente innalzato il potere degli arcivescovi, questi trasmisero ad altra famiglia di loro fiducia la gerenza degli affari spettanti alla contea. Indi, l'istituzione e l'aumento di dignità dei vice-conti o Visconti, che pure a quell'epoca appaiono nella corte arcivescovile e che, succedendosi ereditariamente essi pure nell'alta intimità coi sommi prelati milanesi, mettono le basi a quella potenza che, trecent'anni dopo, manderà così estesi e così tetri bagliori.

Senonchè nè il re, nè l'arcivescovo, nè il conte avrebbero potuto reggersi frammezzo a tante incertezze di eventi e di plebi, se ai loro privilegi non avessero cercato appoggio – oseremo quasi dire complicità – nei privilegi di quella classe nobiliare, che ripeteva l'origine sua dall'aristocrazia barbarica e dal primo spartimento delle terre, fatto in odio degli antichi elementi romani.

Di lì un primo strato di altissima nobiltà cittadina, che nelle storie è chiamata dei Capitani. Non molti e potentissimi, possedevano nella città vasti palazzi e torri merlate, munite a difesa e ad offesa. Avevano clientele assai numerose, vassalli dentro e fuori le mura, tenevano squadre di armigeri, s'erano addossata la custodia delle varie porte della città. Anche in essi il feudo era divenuto ereditario, o per concessione di principe o per lunga tolleranza di usurpazione.

Ma col rapido movimento della popolazione, specialmente dopo la riforma edilizia di Ansperto, quel primo strato di aristocrazia apparve insufficiente alla sicurezza dei privilegiati. Trecentomila popolani, ormai fattisi agiati colle arti e coi commerci, non subiscono impunemente la dominazione di trecento ottimati. Questi sentirono dunque il bisogno di allargare ad altre famiglie discendenti dagli antichi conquistatori una parte dei vantaggi fino allora esclusivamente goduti dai Capitani. Il feudo aumentò di estensione, perdendo d'intensità. E così vennero costituendosi i Valvassori; nobiltà intermedia fra la plebe e i feudatari maggiori; che stavano coi Capitani, quando il popolo romoreggiava contro questo eccesso di privilegiati, ma che ai Capitani tennero più volte il broncio, perchè non potevano ottenerne quella concessione che i Capitani stessi avevano per sè carpita al supremo signore feudale, cioè la trasmessione ereditaria del beneficio. Nè qui si fermava lo sminuzzamento della classe nobiliare; poichè tra i Valvassori e la plebe sorsero i Militi; un altro stato di popolazione che s'imbrancava fra i minori privilegiati; tratti dall'amor dell'ozio che genera la prepotenza verso le classi inferiori e che di solito s'allea mirabilmente colla servilità verso le superiori.

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Qual fosse, in tanto viluppo di arbitrii e di diritti, la confusione delle cose in allora, potrete agevolmente desumerla dalla confusione d'idee ch'io cortamente ho provocato nelle vostre menti con questa faticosa esposizione di poteri, di vincoli e di magistrature. Nessun altro nome infatti adopera un biografo contemporaneo, Vippone, per dipingere in pochi tratti quella situazione: «eodem tempore magna et modernis temporibus inaudita confusio facta est Italiæ…»

Pure, è proprio da quella confusione che venne una reazione di bene, od almeno di quel bene che nel più cupo medio evo era possibile sognare per popolazioni laboriose e tranquille.

Una serie di eventi, succedutisi in un periodo di dieci anni, valse a togliere Milano dalla lunga inerzia di servitù e prepararle quel regime di comunale indipendenza che un secolo dopo doveva mostrarsi, colla Lega Lombarda, così maturo e robusto.

L'uomo che a siffatto movimento diede l'impulso primo e che seppe per alcun tempo vigorosamente capitanarlo – forse inconscio delle sue ultime conseguenze – fu il celebre arcivescovo Ariberto d'Intimiano, probabilmente rampollo della illustre famiglia De' Capitani d'Arsago.

Piccolo di statura e grande di animo, coltissimo pe' tempi suoi, d'un intelletto audace, d'una volontà ferrea e di smisurata ambizione, Ariberto d'Intimiano fu eletto a governare la diocesi milanese, dopo la morte di Arnolfo, nel 1018. E subito apparve quello che era, un uomo determinato a tenere un gran posto nella storia del suo paese; avido di lotte e pronto a sostenerle energicamente contro tutti; atto al comando e desideroso di esercitarlo senza colleghi; innovatore audace e profondo, che a sostegno della propria tirannia non esitava ad impugnare le armi della libertà, ma che di questa tirannia propria aveva così alto concetto da non permettergli di sopportarne alcun'altra, venisse da Imperatori o da Papi.

I Papi, egli li accetta, purchè non si mescolino agli affari della sua Diocesi. Quanto agli Imperatori, vuol farli lui. E però, quando si estingue, colla morte di Enrico II, la famiglia imperiale di Sassonia, e fra i principi italiani ricomincia una gara di ambizioni e di candidature dinastiche, egli si reca difilato in Germania, dove quegli elettori avevano acclamato a loro sovrano Corrado di Salico, duca di Franconia; e, ricevuto a Costanza cogli onori dovuti alla sua dignità, senz'altro riconosce il nuovo principe e lo incorona colle sue proprie mani come re d'Italia3.

Con sì altera disinvoltura non si era usato mai fino allora nominare dei re. Pure, quando Ariberto ritornò, ed in un'assemblea di notabili italiani, convocata nei prati di Roncaglia, diede notizia della nomina così fatta da lui, nessuna voce si alzò a mettere in dubbio il diritto dell'arcivescovo o quello del re. I popolani milanesi riconobbero in Ariberto un padrone, e lo accettarono con gioia, pensando ch'egli avrebbe saputo liberarli dall'unica tirannia lontana e dalle molte vicine. Gli ottimati videro con qualche amarezza che un uomo della loro schiatta e da essi sollevato al principato ecclesiastico facesse così buon mercato delle tradizioni e dei privilegi loro. Suum considerans, non aliorum animum, scrive indispettito il cronista Arnolfo, che ai nobili apparteneva.

Nondimeno, quando Corrado scese nel 1026 in Italia, Milano lo accolse splendidamente, malgrado o forse anzi perchè Pavia gli aveva chiuso le porte in faccia. Ariberto rinnovò in favor suo la cerimonia dell'incoronazione, nella basilica di Sant'Ambrogio; lo accompagnò a Ravenna ed a Roma, dove il Papa gli pose in capo una terza corona, quella dell'Impero; e, sopravvenuta un'estate di straordinario e micidiale calore, lo ospitò largamente per due mesi, con tutta la sua corte, nelle fresche villeggiature episcopali dell'alta Lombardia.

Partito Corrado, e rimasto Ariberto più che mai potente e popolarissimo nel paese, incominciò a svolgere quello che ora si direbbe il suo programma politico; vale a dire un'azione personale piena di scatti, di audacie, di prepotenze; diretta ad abbassare le influenze limitrofe per estollere gigante la propria; oscillante fra Cesare e la democrazia; ma coll'evidente promessa che le due potestà non dovessero avere altro rappresentante, altro programma, altri interessi che i suoi.

Perciò assume contegno di provocazione contro le città vicine, Pavia, Lodi, Cremona; usurpando loro diritti e terre; battendone le forze e umiliandone l'indipendenza. Per ciò largheggia di conforti e di grani, durante una terribile carestia; e visita, con amore e con affettazione, i tuguri popolari, dove lascia elemosine e semina gratitudine. Per ciò offre aiuti militari a Cesare, ingolfatosi in una guerra di successione per la Borgogna; e si unisce a Bonifacio, marchese di Toscana, per ispingere attraverso le Alpi un contingente italiano, che Umberto Biancamano guida su per la valle d'Aosta, e che, sceso nella valle del Rodano, decide efficacemente la contesa in favor di Corrado. Per ciò si bilica fra le parti cittadine, sostenendo i Capitani contro i Valvassori, e Cesare contro i Capitani, e i plebei contro Cesare. Per ciò protegge l'autonomia del clero ambrosiano contro le velleità unificatrici del pontefice romano; e, scomunicato per le sue resistenze, egli, arcivescovo, si ride della scomunica, in un tempo in cui a quest'arma, di mistica onnipotenza, non osavano resistere i maggiori principi della cristianità.

In ogni questione dell'epoca, Ariberto d'Intimiano porta l'elemento delle sue passioni, del suo spirito battagliero, del suo intelletto sovrano; ogni evento pubblico sente le traccie di quella personalità romorosa, inquieta, assorbente; che ha inspirazioni spesso alte e virili, ma che non esita a mutare alleati, principii e combinazioni, secondo le necessità di quella preponderanza individuale, che è la base della sua azione politica, la meta a cui tutto subordina.

Di questo sistema si svolgono intere le fasi nel decennio corso fra il 1035 e il 1045, chiudendosi con un risultato che nè a Cesare, nè ai Capitani, nè ad Ariberto era balenato nell'animo.

Era infatti nel 1035 che i discordi interessi dei Valvassori e dei Capitani scoppiavano ad aperta ostilità. Reduci dalla guerra di Borgogna con maggior sentimento delle proprie forze e dei proprii diritti, i Valvassori accentuarono più vivaci contro i Capitani le loro pretese alla trasmissione ereditaria dei loro feudi. Alle ripulse altere opposero altera resistenza e insorsero armati per le vie. La plebe stette cheta od aiutò mollemente. Sicchè i Capitani ebbero per loro le formidabili influenze dell'arcivescovo e riuscirono a cacciare i Valvassori fuori delle mura. Ma lì il pericolo, invece di cessare, divenne più grave. Afforzati cogli aiuti del contado, pronto sempre a reagire contro la tirannide cittadina, i Valvassori ottennero anche il concorso dei Lodigiani, indispettiti contro Ariberto per le usurpazioni dei loro diritti. Bisognò dunque combattere in aperta campagna, e in soccorso di Ariberto venne con forte schiera il vescovo di Asti, Olderico, zio della famosa contessa Adelaide, che al figlio di Umberto Biancamano avrebbe poi data la gloriosa discendenza della dinastia di Savoia. La battaglia ebbe luogo a Campo Malo, fra Milano e Lodi; la strage fu grande d'ambo le parti e il successo indeciso; ma, essendo rimasto trafitto il vescovo Olderico, la confusione fu tale che i combattenti ritornarono tutti nella città, rioccupando Valvassori e Capitani le loro case, e rimanendo coll'armi al braccio, senza che l'antico dissidio fosse placato o risolto.

2

Arnolfo, libro II, c. III.

3

Vedi Arnolfo, libro II, c. II.

Gli albori della vita Italiana

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