Читать книгу La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I - Various - Страница 2
LA POESIA DEL GIUSTI
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DI
ISIDORO DEL LUNGO
Signore e Signori,
Chi dice «poesia del Giusti» (della quale, in relazione con la poesia italiana, mi propongo parlarvi) intende comunemente qualche cosa di agevole e svelto, nato senz'ombra di artifizio, un concepimento simultaneo e un'unione così schietta d'idea e di parola, che la parola vela appena l'idea senza punto impacciarla, e letto che si è ci pare che la cosa non potesse proprio esser detta altro che in quel modo lì. Nè fanno ostacolo il verso o la rima: perchè i metri sono quasi sempre i più snelli, i più vivaci, i più carezzevoli; nè il verso chiede mai al metro nulla di più di quello che il metro, secondo il suo naturale congegno e le pose sue ovvie, conceda; e la rima, la rima sembra appostata in fondo al verso a riceverlo a braccia aperte, e che se vi accadesse di ripetere quelle cose conversando, incappereste in quelle rime anche voi. Conversando, sicuro; perchè il Giusti è il poeta più conversevole che vi paia aver mai conosciuto: e quando egli scherza con voi, voi ne sentite la voce, voi lo vedete sorridere, e ammiccare, e comporre il viso, come il discorso richiede; cosicchè non manchi a quel tanto che la parola scritta ha di muto, non manchi (tale è, leggendo, l'illusione) l'avvivamento del tono, dello sguardo, dell'atteggiamento, del gesto.
Qual altro dei nostri poeti ci fa simile impressione? qual altro ci procura sensazioni consimili?
Ma la dimanda è troppo affrettata. Prima di rispondere, bisogna, a voler rispondere con giustizia, bisogna pure riflettere, se alcun altro de' nostri poeti facili e piacevoli ci fa pensar tante cose e tante altre sentirne; e dico, cose alte, nobili, a pensare, profonde o commoventi a sentire; quante si sentono o si pensano leggendo i suoi versi. Tutto quel «piccolo mondo antico» fra il '31 e il '49, che ci sfila gaiamente dinanzi per la lanterna magica di quei componimenti motteggevoli e ironici; co' suoi personaggi grotteschi e contraffatti, o disorpellati delle loro lustre, o messi addirittura al nudo del loro brutto e cattivo, o piantati alla berlina con le loro debolezze, o trascinati al redde rationem delle opere loro: cotesto piccolo mondo, del quale egli v'invita a ridere, ve lo atteggia per modo dinanzi, che nel giudicarne voi dobbiate sempre fare appello ai sentimenti vostri migliori. Al sentimento della rettitudine, nel giudicare i Gingillini e i Girella, i Granchi e i Ventola, i Presidenti di buon governo e i loro Birri a congresso – al sentimento dell'umana dignità, nel far la debita stima di quell'aristocrazia sfiaccolata, di quei parassiti del regio rescritto, di quelle croci di Santo Stefano sul petto dei mal arricchiti, di quelle scritte matrimoniali combinate fra l'albagìa spiantata e l'ambizione plebea: – al sentimento della moralità educatrice, se motteggia sull'imperiale e real giuoco del lotto, o sul reuma d'un cantante, sull'abuso sentimentale del cloroformio, sulle bugie degli epigrafai: – al sentimento sanamente affermato della umana fraternità, se sfata con ironica iperbole le pericolose utopie umanitarie, le ipocrisie degli abolitori della guerra: – al sentimento della pedagogia naturale, o diciamo senz'altro al prezioso senso comune, se fra gl'Immobili e i Semoventi rivendica la libertà del fanciullo che i taumaturghi del metodo vorrebbero plasmare a macchina, e averne fantocci tutti d'un pezzo e d'un getto: – al rispetto delle memorie ispiratrici, se vi descrive il ballo esotico nel vecchio palazzo appigionato dai posteri di Farinata, o scaglia sul viso dei gaudenti, dimentichi in carnevale perpetuo, il brindisi che esalta le gloriose quaresime degli eroi trecentisti: – alla carità santa d'Italia madre, quando per l'incoronazione austriaca sfilano in complice schiera i principotti italiani; o lo Stivale fa, dall'orlo al tallone, la sua storia dolorosa; o il poeta in Sant'Ambrogio di Milano, fra que' poveri Croati e Boemi mandati qua a odiare ed essere odiati, sospira una patria per se e per loro; o inculca e ribadisce a quelle polizie miopi e sordastre il delenda Carthago dell'indipendenza dallo straniero; o protesta al suo Gino Capponi contro l'insulto codardo alla Terra dei morti.
E poi, quando lo scherzo ha meno alta intonazione, e ritien più del bonario e del familiare, ma sempre con qualche vena di malinconico; le Memorie di Pisa, il Giovinetto romantico, il Profugo di Rimini, l'Amor pacifico, il San Giovanni canonizzato sugli zecchini d'oro, Momo salmista e predicatore, le virtù della Chiocciola, il re Travicello; nessuna di queste geniali comunicazioni della benevola ironia del Poeta passa pel vostro spirito, senza lasciarvi altresì qualche grano di moralità gentile, fermentatrice di bene.
E abbiate altresì presenti fin d'ora altre poesie del Giusti (pur abbandonando alla bibliografia le generiche e non caratteristiche, o nate morte che vogliate chiamarle) abbiate, dico, presenti, fra le vitali e vive quelle che non appartengono alla sua Satira: nelle quali, sia nelle poesie che chiamerei addirittura sentimentali, sia in quella Canzone reminiscente all'Alighieri maestro, egli è quanto alla forma un altro poeta, ma l'anima del Poeta, anche in codeste liriche, voi la sentite pur sempre la stessa.
Poeta, dunque, di profondo sentimento è, per sua propria missione, questo pur così amabile ed agile verseggiatore; questo umorista è, innanzi tutto, un moralista; questo satirico, nell'atto che ammonisce e sgrida, altresì persuade e commuove. E rilevati espressamente tali suoi caratteri, i quali è facile si accompagnino a difetti di aridità, pesantezza, accigliatura pedantesca; se, tuttavia, ci rinnoviamo la dimanda: Chi altri de' nostri è, alla pari del Giusti, poeta (come mi è venuto detto) conversevole? la risposta, nella quale credo dobbiamo convenire lettori e critici, è che nessun altro.
Di quanti altri, invero, sappiamo a memoria tanto e così svariatamente e a pezzi e bocconi, quanto di lui? E non è un saperne a memoria per averne voluto o dovuto imparare; è l'essersi egli fatto imparare senza che noi ce ne accorgessimo, solo per quel farci tanto pensare e sentire, con immagini e parole e locuzioni e rime trovate così a proposito e tanto di nostro genio:
Dal
Girella, emerito
di molto merito,
al Credo bestemmiato da Gingillino,
Io credo nella Zecca onnipotente
e nel figliuolo suo detto Zecchino;
dalla Ghigliottina a vapore, che
fa la testa a centomila
messi in fila,
alla visione papale del Gioberti, di
prete Pero, buon cristiano
lieto semplice e alla mano,
che
vive e lascia vivere;
dalla
pallida capelluta
parodia d'Assalonne,
alla coppia felice, che
l'amorosa si chiama Veneranda
e l'amoroso si chiama Taddeo;
dal giro pe' chiostri
contando i tumoli
degli avi nostri,
alla partenza da Pisa, lasciando
la baraonda
tanto gioconda;
dal
Viva la Chiocciola,
viva una bestia
che unisce il merito
alla modestia,
all'esopiano re Travicello
piovuto ai ranocchi;
dal più o meno manzoniano
Apollo tonsurato
che dall'Alpi a Palermo
insegna il canto fermo,
alla patriottica baffuta Babele, che succhia
sigari e ponci;
dal «Toscano Morfeo» e dal «Rogantin di Modena», al padre X. conservatore dello statu quo: dal Congresso di Pisa che suscita le escandescenze del solito Rogantino, tirannetto
da quattordici al duetto,
all'idillio pacifico, che si direbbe scritto per l'Europa d'oggi,
Nè mai tanto apparato
d'anni crebbe congiunto
all'umor moderato
di non provarle punto.
Dormi, Europa, sicura:
più armi, e più paura.
Rispostici pertanto a quella dimanda, che nessuno de' nostri poeti c'è come il Giusti affiatato e accostevole, un'altra subito ce ne facciamo: – Donde attinse egli tale sua qualità? Fu natura? fu magistero? Ne trovò egli, studiosamente cercandolo, il segreto? o senz'altro, gli venne fatto così? Com'è che mettendoci in traccia di suoi predecessori, questi non si rinvengono, anche ragguagliando uomini a tempi, arte a vita sociale e civile, nè fra i Satirici propriamente detti, dall'Ariosto pel Menzini all'Alfieri; nè molto meno fra i Satirici urbani, che dai Latini anche più direttamente assumono il Sermone e l'Epistola: e neanco poi, dove più si spererebbe, fra i burleschi, dal Berni pel Fagiuoli e il Pananti al Guadagnoli? —
Infatti, la satira del Cinquecento, della quale l'Ariosto è rappresentante meraviglioso, riflette spiccatamente il Rinascimento, che tutta informa la poderosa letteratura di quel secolo principe, ed è ancor essa, pur con andatura disinvolta e sprezzante, poesia signorile e dotta. La satira dei Secentisti, anche quando col Menzini si atteggia a vivacità fiorentinesca, non cessa di avere per nota sua dominante la declamazione retorica e l'amplificazione curiale. L'Alfieri poi, sfrondando cotesto frascame a buon dritto, però dissangua e stecchisce; e troppo gravemente, all'energia dello stile fa in lui difetto la spontaneità della lingua. Inoltre, il metro consacrato alla Satira è la terzina, la grave e magistrale terzina; come del Sermone è il verso sciolto, che il Gozzi accarezza blandamente, e il Parini magistralmente atteggia e trasforma: metri, l'uno e l'altro, nei quali la virtualità epica prevale sulla lirica, e perciò l'intonato e il governato sull'andante e familiare. Troppo dunque siamo, rispetto a chiunque di quelli scrittori, troppo siamo discosti dalla maniera del Giusti.
E questa medesima ragione del metro, già di per se pone distacco assai fra lui e i cosiddetti burleschi, sinchè la forma tradizionale anche di costoro séguita ad essere la terzina, o Capitolo, dal possente Berni e dal Lasca spigliato al corrivo Forteguerri o allo sprolungato Fagiuoli o al Saccenti triviale. Solamente quando il Pananti sostituisce a quelle divenute ormai dicerie la stanza narrativa de' poemi giocosi; la stanza narrativa, in sesta o ottava rima, che altri novellando (innominabili) avevano esercitata più o meno toscanamente, e che il Pananti atteggia specialmente al dialogo con felicità nuova; e quando il Guadagnoli, con maggior toscanità di chicchessia, assume cotesta umile e svelta sestina per le facezie de' suoi lunarii, alternando ad essa i metri della più tenue lirica, l'ottonario, il settenario, il quinario; – soltanto allora la poesia burlesca toscana ci fa presentire il Giusti: ma… Adagio a dare! come dice il popolo: chè chi senz'altro lo aggregasse a quella famiglia di scrittori con la quale pure qualche attacco, massime col Guadagnoli, lo ha, commetterebbe, più che un errore, un'ingiustizia. Perchè bisognerebbe e al Pananti e al Guadagnoli aggiungere una coerenza d'intendimenti sì civili e sì d'arte, che nè l'uno nè l'altro ebbero: bisognerebbe addossare al Giusti un bon po' di quella loro, sia pur simpatica, trasandatezza, dalla quale invece egli anche ne' suoi primi tentativi, anche in quelli un po' birichini e della vecchia maniera, quasi per istinto, si tenne lontano: – e poi, forse, sarebbe lecito dire: «Vedete come la poesia burlesca, nel secolo decimonono, si è svolta di mano in mano, dal Pananti passando al Guadagnoli, e da questo salendo al Giusti.» Il fatto è, che essa in que' due rimase burlesca; e nel Giusti, conservando ma nobilitando l'impronta sua paesana, addivenne lei la Satira nuova, che, messa a riposo l'antica, ne adempì con ben altro vigore di effetti le veci.
E nata satira più specialmente della regione toscana, addivenne popolare in tutta Italia, sì perchè a Italia tutta aveva il cuore il Poeta, e sì per le virtù nazionali della lingua toscana. Nè in altre regioni d'Italia nostra fu potuta la satira del Giusti imitare tollerabilmente, come potè essere quella del Guadagnoli dal Fusinato veneto. L'Italia ebbe dalla Toscana il suo Giusti; e basta. Rimase poi all'idioma meneghino la gloria del Porta artista sovrano; e il Piemonte patriottico ebbe un di mezzo fra il Giusti e il Béranger nelle Canzonette dialettali di Angelo Brofferio; e nel dialetto romanesco, il Belli atteggiò a epigramma popolare quel vecchio peccatore aristocratico del Parnaso italiano, il Sonetto; ve lo atteggiò con arguzia che direi non emulata, se non avessimo, parlati dal popolo pisano, i Sonetti di Renato Fucini.
II
Ma tornando al Giusti, il quesito sulla originalità della sua poesia, fu, almeno indirettamente, cioè in questi altri termini, – come fosse ella fatta, e in che assomigli o dissomigli a poesia di altri, – fu proposto assai prima che si curiosasse di critica quanto oggi; e dette occasione a uno scritto di Gino Capponi, che è, ad un tempo, e la testimonianza più autorevole anzi l'autentica, e la critica più intima, che della poesia del Giusti si sia avuta, anche dopo le belle pagine del Carducci, del Panzacchi, del Camerini, del Martini, del Masi, del Biagi. Rispondeva il Capponi nel maggio del 1851, appena un anno dopo la morte del caro ospite suo, a un articolo del critico francese Gustavo Planche, il quale era venuto narrando a' suoi compatriotti, essere il Giusti una sorta d'improvvisatore che, impaziente o incurante delle bellezze di stile, accettava senza pensarvi la prima parola che gli scendeva giù per la penna: perciò privo di vivezza, di eleganza, di precisione, di tutte insomma le doti proprie d'uno scrittore che ami e rispetti l'arte sua. Al che il Marchese, con quel suo sorriso benevolo che gli abbiamo conosciuto e quella temperanza che tanto più gravi quanto più miti faceva le sue sentenze, rispondeva, quello essere il ritratto non dell'amico suo ma di altri poeti (i burleschi appunto del penultimo periodo), diversi tanto dal Giusti, quanto «l'età decorsa, in ciò ch'ella ebbe di più sfrontato, discostasi dal sentire della nostra, e dalle norme ch'essa impone ad un'anima e ad una lingua naturalmente gentili.» Di questa lingua avere il Giusti, dai grandi scrittori e dal popolo, anche campagnolo, tratto tutto quanto è di più fino ma insieme di più nascosto, mediante un senso squisito suo proprio, educato sui classici latini e nostri, ed un grande studio ch'egli poneva con ostinata perseveranza nello scegliere le voci e collocarle industriosamente. Da ciò esser venuta alla sua poesia una efficacia piuttosto condensata e ristretta, «intesa com'ella è a penetrare più addentro»; tantochè aveva egli finito col quasi «negare parte di sè alla spedita intelligenza di molti degl'Italiani suoi» (il che è verissimo, e i commenti venuti dopo lo dicono), non che dei Francesi. E a questi più particolarmente volgendosi, e «sfidando la Francia tutta» a cogliere il valore di certi motti giustiani, come quello (negli Eroi da poltrona) sulle sorti future d'Italia «Vattel'a pesca», adduceva il Béranger, «nome» dice il Capponi «che riviene spontaneo a proposito del Giusti»; e dichiarava che non avremmo noi osato, sebbene tanto più familiari e alla lingua e alle cose di Francia che non alla lingua e alle cose d'Italia i Francesi, non oseremmo noi, e saviamente, dare sentenza sul Béranger (come nè su certi altri quasi indigeti di quella letteratura, quali il Lafontaine, il Rabelais), per non risicare di giudicarlo piuttosto facitor di canzonette che poeta. L'onore del qual nome, nel senso di artefice consapevole, e in queste due cose soprattutto insigne, «squisitezza di forma, finezza di espressione», rivendicava egli al Giusti contro la condanna pronunziata dal Planche, che «i versi suoi non vivrebbero».
È passato ormai mezzo secolo; e quei versi vivono, e si ristampano, e (come il Capponi presentiva, nè gliene faceva lode) ce li commentiamo: di che non credo che per quelli del Béranger, ed è pregio suo e della lingua, si sia mai sentito in Francia il bisogno; perchè, cominciando dall'arietta sulla quale, canzon per canzone, sono intonati, è in quelli tutto il di fuori che s'è accolto nell'anima del poeta, e ne rivola fuora trillando; laddove il Giusti (che ammirava il Béranger; ma quando lo chiamavano il Béranger italiano, ci faceva, e non soltanto per modestia, le sue brave eccezioni, cominciando da questa: d'averlo letto dopo essersi «imbarcato da un pezzo») il Giusti aveva lavorato la propria forma con un intendimento del tutto soggettivo e di sua iniziativa, pur mirando a «farsi interprete delle cose che gli stavano d'intorno». Ed invero le forme di que' due Satirici del vecchio mondo, che nel contrasto fra i due secoli «l'un contro l'altro armato» era destinato a frantumarsi, tanto poco, anzi nulla, avevano che fare insieme, che a tentar di adattare (come qualcuno si è provato) alle Chansons la toscanità degli Scherzi, anche quando i soggetti combaciano e si rasentano, si va nel goffo; e qualche imitazione in stile giustesco dal Béranger, per esempio, dal Bon Dieu quella del Creatore e il suo mondo, è, fra le apocrife appioppate al Giusti, delle più intrinsecamente aliene, nonostante le apparenze, dal fare autentico e legittimo di lui.
Il quale, è poi da aggiungere che se avesse potuto ascoltare il giudizio del critico francese, non ne avrebbe fatte grandi meraviglie, perchè già si era trovato, com'egli ci racconta, a sentirsi dimandare da un tale qui in casa sua, se avesse letto altro che romanzi e giornali; e ci racconta altresì, come «prontissimo ad immaginare, e assai lesto ad abbozzare, era poi una tartaruga a dare l'ultima mano, e credeva che la morte sola gli avrebbe portato via il pennello de' ritocchi»: dichiarando espressamente, che quel suo «modo di dir le cose alla casalinga» non provava nulla, e che pur troppo il suo difetto era di non contentarsi mai. E séguita confessando le proprie colpe: la stringatezza cercata; lo studio di apparire; l'aver avuto a combattere con quei metri, «facili in apparenza, difficilissimi in sostanza; i quali se non ti fai sostegno dell'inversione, ti slabbrano da tutte le parti», e la inversione poi va a finire nello «scontorcimento». «Gino Capponi mi aveva ammonito più e più volte d'andar per le piane, d'esser semplice e corrente, di lasciare le lambiccature, le finezze sopraffini, le frasi e le parole vistose; perchè, dice il proverbio, chi troppo s'assottiglia si scavezza…» Insomma, a lasciarlo dire, e a dargli retta senz'altro, cioè senza far la tara all'ipocondria di quel povero organismo malato, si finirebbe… altro che l'«improvvisatore» denunziato dal Planche, o il «poeta conversevole» che io ho cominciato, Signore mie, dal ripresentarvi come una vecchia comune conoscenza… si finirebbe, dico, a concludere che Giuseppe Giusti è uno dei più pedanteschi e impacciati scrittori che abbiano mai esercitata la pazienza delle nove sorelle.
III
Il vero è, ch'egli aveva, come nessuno de' contemporanei suoi, anche de' maggiori, riassunta alle lettere la toscanità della lingua, tornando alle fonti genuine del parlar popolare, ma questo poi atteggiando con vigoria d'artista in quelle forme di satira che gli eran balzate alle mani, nemmen lui sapeva come, e esperimentatele dapprima in gingilli di poco sugo, e alcuni anche sguaiatelli e volgarucci, con molta diffidenza di sè medesimo, le aveva poi deliberatamente elette siccome acconcie al suo disegno, quale gli si era venuto maturando nella mente. E questo era di far servire la Satira a qualche cosa di ben alto; ossia al fine nazionale, verso cui tutte convergevano, serrandosi sempre in più stretto fascio, le volontà e le intelligenze italiane; e di questo ufficio della Satira vera e propria privilegiare la così detta Poesia giocosa, «ripulendola» son sue parole «dalla vana chiacchiera, dalla disonestà, dalla inutilità, che l'hanno «deturpata anco nelle mani dei maestri». Su qualche tentativo da lui fatto di poesia politica nelle forme tradizionali di tanti canzoneggiatori mediocri, egli scrisse di sua mano senz'esitare: «prosa rimata».
La poesia d'intendimenti politici era in Italia rampollata naturalmente da quella d'intendimenti civili del Parini e dell'Alfieri; e più particolarmente il nome di questo, con gli ideali suoi di antiche virtù repubblicane e col disdegno di tutto quanto non fosse sinceramente italiano, era rimasto simbolo di quella italianità, le cui tradizioni, conservate e alimentate dalla letteratura lungo i secoli di servitù e decadenza, aspettavano, per fiorire e allignare in novello ordine di cose, occasioni propizie dalle esteriori vicende. Fra queste vicende si trabalzò, nei burrascosi anni di Rivoluzione e d'Impero, la musa banderuola del Monti, fantasia mirabile di poeta senz'anima di cittadino, canto di Virgilio senza cuore di Dante: – di mezzo a quelle vicende, mescolandovisi oratore e soldato, cattedratico e pubblicista, il Foscolo, ben altro intelletto, sentì che non era Italia in quelle «reggie adulate dove il ricco e il dotto e il patrizio vulgo si seppellivano»; e al risorgere di un «futuro popolo italiano», che l'Alfieri aveva vaticinato, preconizzò auspicii degni dai Sepolcri di Santa Croce: – e a questi sepolcri pure si volgeva, pallido della breve esistenza morbosa, il Leopardi, e vi salutava come altare di civil religione il cenotafio di Dante; e al valore italiano, prodigato in terra straniera per gli stranieri derubatori della nostra, evocava la trenodia di Simonide sui Trecento morti con Leonida per la patria. Erano le voci della grande arte antica, erano le virtù della civiltà grecolatina, che nella latina penisola si risvegliavano spontanee, prenunciatrici legittime della rivendicazione nazionale. Ma dalle memorie dei tempi venuti dopo la caduta di Roma pagana; dalle rovine dell'evo barbaro, di su le quali, all'ombra conserta del Papato e dell'Impero, il Comune era sorto e passato per dar luogo agli Stati; un'altra voce si levava, che inneggiato prima a Cristo liberatore dell'umanità, affigurava poi sotto più aspetti, e con le forme oggettive del dramma e del romanzo, nelle intrusioni sovrapposte di Longobardi e di Franchi, nelle guerre fratricide degli Stati indipendenti, nelle vergogne lacrimevoli dell'oppressione spagnuola, tutta la storia luttuosa delle servitù italiche; e in nome della cristiana civiltà affermava, nel cospetto delle altre nazioni, la esistenza d'una nazione italiana. Era la voce di Alessandro Manzoni, ed era la prigionia del Pellico, erano dall'esilio i canti del Berchet e del Rossetti, erano sulla scena classica o medievale le figurazioni storiche del Niccolini, e nel romanzo quelle del Guerrazzi e dell'Azeglio; che accompagnavano i moti del '21 e del '31, e mantenevano, invitto a tutte le repressioni violente, non mai sodisfatto sin che avesse trionfato, il sentimento della patria.
Di questo sentimento volle il Giusti essere l'interprete in quella forma di poesia, dove la servitù non pure aveva impedito le manifestazioni della verità nuda e cruda, ma aveva anzi favorito la sostituzione della burla, dell'equivoco, della dissimulazione, della bugia. Ed era complemento oggimai necessario, massime dopo i casi del '31 e l'avvento regio della borghesia in quella Francia ormai da più di quarant'anni teatro di tutto il mondo politico europeo, era, dico, necessario che la poesia nostra non solo derivasse dal passato le grandi ispirazioni e gli ammaestramenti, gli ammonimenti e i rimproveri, ma per entro al presente valesse e sapesse rimuginare il bene e il male della vita quotidiana, e in vive figure atteggiarlo: nè ciò poteva fare con efficacia, se non adattando a tale figurazione la veste dell'ironia, dello scherzo, dello scherno; nè questa veste poteva contessersi che di forme per eccellenza idiomatiche, cioè a dire toscane. Con tale concetto aveva il Leopardi data forma alla sua Batracomiomachia allegorica, ringiovanendo con felicità di grande artista il poemetto eroicomico; non però aspirando certamente con quello, in pieno secolo decimonono, a popolarità di lettori, di recitatori, d'imitatori. Con tale concetto Cesare Correnti, salutando anonimo l'anonimo Poeta toscano «delle vispe e mordenti caricature», dopo ricordato che «dalle sublimi imprecazioni dell'Alighieri alle calme e solenni proteste del Manzoni, la poesia non disertò mai la causa della patria e della sventura, non disperò mai della giustizia di Dio e dell'avvenire del Popolo», diceva che ben da Milano, quartier generale degli oppressori, eran venute le «melodie rossiniane» del Berchet, «ma dall'arguta Toscana, dalla patria del Berni e della commedia italiana, doveva venire il poeta popolare della satira e dello scherno».
IV
Di quale satira e di quale scherno, e in quanto simile e in quanto no a quelli dei predecessori, il Giusti lo ha raccontato in quell'aneddotino tra carnevale e quaresima, che intitolò I brindisi. Dove egli, raccolti in brigata i tipi appunto della sua satira, fa prima brindisare l'abate volterriano nelle solite sestine da colascione, lardellate di equivoci tra il grasso e il magro, il sacro e il profano; e poi s'alza lui, e in strofette saffiche dove il quinario è come l'aculeo dell'ape che sfiora e della vespa che punge, dà l'aíre al «Brindisi per un desinare alla buona»:
A noi qui non annuvola il cervello
la bottiglia di Francia e la cucina,
lo stomaco ci appaga ogni cantina
ogni fornello.
…
Chi del natio terreno i doni sprezza
e il mento in forestieri unti s'imbroda,
la cara patria a non curar per moda
talor s'avvezza.
…
O nonni, del nipote alla memoria
fate che torni, quando mangia e beve,
che alle vostre quaresime si deve
l'itala gloria.
…
Tutto cangiò: ripreso hanno gli arrosti
ciò che le rape un dì fruttaro a voi;
in casa vostra, o trecentisti eroi,
comandan gli osti.
E strugger poi, crocifero babbeo…
Al qual punto il malcapitato padron di casa interrompe, col pretesto del caffè; e il poeta ci regala la parte rimastagli in tal modo fra il bicchierino e la chicchera:
E strugger puoi, crocifero babbeo,
l'asse paterno sul paterno foco,
per poi, briaco, preferire il cuoco
a Galileo;
e bestemmiar sull'arti, e di Mercato
maledicendo il Porco, e chi lo fece,
desiderar che ve ne fosse invece
uno salato?
…
Oh beato colui che si ricrea
col fiasco paesano e col galletto!
senza debiti andrà nel cataletto,
senza livrea.
Programma, com'oggi dicesi, del suo poetare; in contrapposto, annotava egli stesso, alle «brutte facezie, che hanno avuto voga per tanto tempo, lusingando l'ozio e la scempiataggine».
E nella «Origine degli scherzi», altra saffica che ben a ragione è stata chiamata la sua «Arte poetica», dice come, dopo avere da giovine «sbagliato se stesso» e «pagato al Petrarca il noviziato», la coscienza aveva rettificata la sua vocazione, e di mezzo alle due scuole d'allora de' Classici e de' Romantici aveva fatto balzar fuori la satira sua paesana, «nel suo volgare, col suo vestito», satira nutrita d'amarezza e di sdegno, «riso che non passa alla midolla», come quello del saltimbanco,
che muor di fame, e in vista ilare e franco
trattien la folla.
E «a uno scrittor di satire in gala»
Vedi piuttosto
diceva
di chiamare al banco
i vizi del tuo popolo in toscano,
di chiamar nero il nero e bianco il bianco,
e di pigliare arditamente in mano
il dizionario che ti suona in bocca,
che, se non altro, è schietto e paesano.
Sul qual proposito, però, è bene intendersi; e mi parrebbe ormai l'ora, prima che s'esca dal secolo che fra poco a chiamar nostro rimarremo soli noi vecchi. È stata una superba malinconia de' signori ottocentisti (consegnamoci senz'altro alla storia), una malinconia superba o piuttosto una iattanza vana, questa: che solamente a' dì nostri la letteratura italiana si sia giovata della lingua viva o, come è di moda dire, parlata; e ciò specialmente a rovescio e in onta di quel gran signore che fu il Cinquecento, il quale, a sentir cotesti scriventi loro soli la lingua parlata, non fu che uno sfarzoso accozzatore di locuzioni boccaccevoli, di emistichii petrarcheschi, di periodi ciceroniani. La verità vera è invece, che ciascun secolo ha scritto la lingua che parlava, finchè e nello scrivere e nel parlare non è entrata, con la servitù politica e, peggio con la intellettuale e morale, la corruzione anche dell'idioma; il che fu solamente dopo passato il Secento: e che se a' nostri giorni, col rivendicare il diritto e lo stato politico di nazione, ce ne siamo altresì venuto rifacendo, il meglio che si poteva, il carattere; se per la restaurazione di questo nella lingua, si è voluto e saputo, dopo la regressione al nazionale antico operata artificialmente ma non senza utilità dai puristi, volgerci al nazionale vivente interrogando il popolo, e cioè il popolo di quella fra le regioni nostre che sola non abbia dialetto; tutto cotesto non vuol dire, come per certuni parrebbe, che la letteratura italiana incominci da quando si è racquistato il sentimento italico della toscanità; da quando l'unità della lingua in Firenze, non più astrazione litigiosa fra uomini di lettere dal Bembo al Monti, è divenuta una cosa dimostrata col fatto, meglio che con le teorie, dall'Autore dei Promessi Sposi; nè che il Giusti (per tornare al nostro argomento) sia quello fra i poeti che abbia, lui per primo, dato l'esempio del «pigliare arditamente in mano il dizionario che ci suona in bocca»: lui che, del resto, in una delle sue prefazioni, definì la propria «un genere di poesia che può avvantaggiarsi di tutta la lingua scritta e di tutta la lingua parlata».
Sarebbe non breve discorso, e trattazione d'un argomento a sè, il mostrarvi come cotesto dizionario si è saputo maneggiar sempre e da tutti, grandi e piccini, anche nel prevalere di questo o quello stile (perchè altro è lingua, altro è stile) fatti invalere fra gli scrittori dall'autorità preponderante di questo o quello fra i nostri solenni maestri, e specialmente nel Cinquecento dal Boccaccio e dal Petrarca. Mi contenterò (e non voglio entrare nella prosa, solamente perchè vi parlo di poesia) mi contenterò di due soli esempi: e uno sia nientemeno che Dante. Non per la Commedia: la quale pure sappiamo oramai quanto grande portato ella sia, propriamente del volgar fiorentino del Due e Trecento (e le postille del Giusti al divino Poema mostrano com'egli ne sentisse tutta l'attualità, di contenuto e di forma); non pel Poema, dico, ma invece per certi Sonetti che Dante scrisse poco dopo il 1290, e che da quanto erano, diciamolo pure, piazzaioli, non si volevano nemmeno riconoscere per suoi; ma che pur troppo sono e suoi e del suo parente Forese Donati (colui che poi mandò, al Purgatorio fra i ghiotti), col quale fanno a dirsele a botta e risposta con quello zelo che in simili casi la parentela suole ispirare. Or bene, chi raffronti i documenti poetici di cotesta Tenzone di giovinastri con un certo Saggio di lingua parlata del Trecento cavato dai Libri criminali di Lucca da un ingegnoso erudito vivente, vedrà che il dizionario «schietto e paesano» del Giusti il divino Poeta lo sfoglia, pe' suoi tempi, con abbastanza modernità. L'altro esempio è di messer Angelo Poliziano, il poeta dell'Orfeo e della Giostra, il principe degli umanisti nel Rinascimento, che però fu anche il gaio rimatore delle Canzoni a ballo e dei Rispetti. Ora io vorrei potervi leggere un paio solamente di quelle vispe e succinte e ogni tanto sboccate poesiole, e ne sceglierei due che si potrebbero intitolare, l'una Il segreto d'amore e la confessione, e l'altra Il galletto, la chiocciola e la nave in porto; e poi vorrei dimandarvi, se il Giusti, che nella sua piuttosto scarsa erudizione è presumibile non le abbia mai lette, avrebbe potuto ricusare all'eruditissimo fra i poeti la lode, che esso il Giusti, in quella sua Arte poetica degli Scherzi, si arrogava a buon diritto, di non avere «svisato i propri concetti» per l'ambizione di «tradurre sè stesso». Vi assicuro che le gentildonne fiorentine, leggendo a diletto in questo palazzo mediceo le strofette incantevoli del Poliziano, non avranno avuto alcun bisogno di ritradurre.
Più altri esempi ci offrirebbero e la poesia burlesca e la comica del Cinquecento, e nell'età di decadenza que' tali poeti con cui vedemmo che il Giusti per le qualità sue esteriori si ricongiunge. Il Fagiuoli, in quel suo interminabile profluvio di Capitoli slombati, ha qua e là, a sprazzi, dei quadretti di genere, dove la lingua fiorentinissima (e ben poco ci corre da quella d'oggi) colorisce graziosamente que' suoi fantoccini dal vero. E il Saccenti, dipingendo, pur dal vero, la vita di provincia degli ultimi tempi medicei; e il Pananti, la girovaga del Poeta di Teatro ne' primi decennii del secolo; e il Guadagnoli, la Toscanina patriarcale dell'ultimo Lorenese, e il tran tran di quel mondo che, secondo la comoda teoria del ministro Fossombroni, andava da sè; non vengon meno, nè il Saccenti nè il Pananti nè il Guadagnoli, – mentre il buon marchese Angiolo d'Elci seguitava tranquillamente a scrivere le sue Satire in classico stile – non vengon meno davvero al dizionario che sonava in bocca dei loro valdarnesi e mugellani, e dei fedeli abbonati d'anno in anno al prezioso lunario di Sesto Caio Baccelli. Diciamo altresì che certi dialoghetti del Sesto Caio (il Baccelli infreddato, per esempio, o il Baccelli zoppo, o dello stesso Guadagnoli il bozzetto villereccio di Gosto e Mea), certe scenette pur dialogate del Pananti (quelle con lo zio prete, i battibecchi dei commedianti fra loro e col poeta), se non raggiungono l'efficacia drammatica che il Giusti infonde in quei bozzetti mirabili delle Istruzioni a un emissario, della Spia dopo le riforme, dei dopopranzo di Taddeo e Veneranda, delle disperazioni della moglie di Maso nel Sortilegio, son tuttavia derivazioni dalla medesima fonte che il Giusti è poi parso aver egli disuggellata.
Se non che il Giusti fu, e doveva essere, messo sopra a quelli altri, perchè nessuno di essi seppe o volle adoperare e temperare la lingua del popolo toscano alle alte cose alle quali lui la indirizzava; e nessun d'essi altresì aveva nell'anima ciò che il Giusti ci aveva, e che espresse nelle poesie che ho chiamate sentimentali; All'amica lontana, Affetti d'una madre, La fiducia in Dio, Il sospiro dell'anima, A Roberto nel 1841, A una giovinetta nel '43, e in quella stupenda, nona rima fra il '46 e il '47 a Gino Capponi, dov'egli, in cospetto del rinnovamento italiano e delle speranze magnanime, pronuncia il non sum dignus d'essere il censore del suo popolo risorto e ringiovanito. È il Giusti, che gareggiando con lo scalpello del Bartolini, scolpisce in un verso
quasi obliando la corporea salma
l'abbandono in Dio di chi non ha più altra speranza quaggiù. È del Giusti quella sublime espressione de' suoi ardimenti e sgomenti d'artista:
Sdegnoso dell'error, d'error macchiato,
or mi sento co' pochi alto levato,
ora giù caddi e vaneggiai col volgo!
…
E anch'io quell'ardua imagine dell'arte,
che al genio è donna, e figlia è di natura,
e in parte ha forma della madre, e in parte
di più alto esemplar rende figura;
come l'amante che non si diparte
da quella che d'amor più l'assicura,
vagheggio, inteso a migliorar me stesso,
e d'innovarmi nel pudico amplesso
la trepida speranza ancor mi dura.
Sono del Giusti, o Signore, di questo poeta degli Scherzi, i versi più belli forse ne' quali abbia mai parlato la madre al figliuolo:
Goder d'ogni mio bene
d'ogni mia contentezza il ciel ti dia;
io della vita nella dubbia via
il peso porterò delle tue pene.
Oh se per nuovo obietto
un dì t'affanna giovenil desìo,
ti risovvenga del materno affetto!
nessun mai t'amerà dell'amor mio.
E tu nel tuo dolor solo e pensoso
ricercherai la madre, e in quelle braccia
nasconderai la faccia;
nel sen che mai non cangia avrai riposo.
Di cotesta vena, che in quelli ed in altri suoi versi si effonde, talvolta, se volete, con un certo languore lamartiniano, ma altresì con una delicatezza d'imagini e soavità di concetti e nitidezza di frase, che li sollevano di gran tratto dalla comune maniera di certo romanticismo morboso; di cotesta, che è poi soprattutto vena d'affetto gentile; non c'è quasi poesia delle sue satiriche che non ve ne trapeli qualche stilla: in alcune poi, come nel Sant'Ambrogio, l'affetto è la nota dominante. Ben a dritto si sentiva egli lieto d'avere «di carità nell'onde temprato l'ardito ingegno, e tratto dallo sdegno il mesto riso.»
E più che io ripenso a tuttociò, e come questo sia uno dei distintivi nobilissimi della sua poesia, meno mi capacito, anche solamente per questo, come «scrittore di piccola mente» potesse (dispiace ricordarlo) potesse parere Giuseppe Giusti a Niccolò Tommasèo. E si avverta che il Tommasèo stesso, scrivendo al Capponi, riconobbe «elaborate e maestrevoli» le poesie del Giusti, vide in quel lavorío i «belli e svelti panneggiamenti dell'arte»; contuttociò, gli parve che negli sdegni e sogghigni «del poeta, il cuore non parlasse». E pregò il Capponi ad ammonirnelo: ma il Capponi, come vedemmo, d'altro sì l'ammonì, ma non di questo. Nè so invero chi possa, pur reverente all'autorità del Tommasèo, consentire con lui in cotesti giudizi. Poteva il Tommasèo trovare difetti, magari più difetti che virtù, nelle poesie del Giusti; la stessa sorte ebbero, presso l'austero critico, il Foscolo e il Leopardi: potevano offenderlo certe, come egli disse, «celie profane», e metteva fra queste anche il combinarsi alcune bizzarrie metriche, che al Giusti avean fatto comodo, con l'innodia popolare della Chiesa. Ma «scrittori di piccola mente» e senza espansione di cuore, erano rimasti gli altri satirici toscani, dai quali il Giusti si staccò, come vedemmo, e si sollevò: in lui, anche sottoposto a giudizio, non che severo, acre, è debito riconoscere altezza di mente, finezza d'arte, potenza di sentimento; e fra i restitutori della italianità, nel secolo che doveva finalmente veder rivendicata l'indipendenza e l'unità d'Italia, segnare con sicura mano il suo nome. Non faremo che sottoscrivere una sentenza di Alessandro Manzoni.
Il nome suo di poeta. Come prosatore, è minore d'assai; e francamente può dirsi che nelle sue prose, troppo spesso prevalga la maniera all'ispirazione. Le hanno esaltate oltre il dovere quei teorici della lingua parlata che dicevo poco fa. Stando ai loro criteri, si sarebbe dovuto scriver tutti a quel modo, e concluderne che solamente dopo sei secoli la lingua nostra avesse sciolto lo scilinguagnolo. Era un po' forte ad ammettersi; e quel vampo scolastico ha cominciato da un pezzo a dar giù. Io credo che il Giusti non avrebbe ambite lodi consimili, e che sopra teorie di tal fatta ci avrebbe architettato volentieri uno di que' suoi scherzi, coi quali ironeggiò sopra altre utopie non più fondate di questa. Del resto, la prosa sua la martellava, e come! Tormentava persino le lettere che scriveva agli amici; e il suo Epistolario, anche quando il Martini e il Biagi ce lo avranno dato genuino ed intero, seguiterà a farne testimonianza, anzi più espressa e sensibile. Quei difetti che abbiamo sentito il Capponi rilevargli, e che egli riconosceva, nella prosa stridono anche di più: perchè sono difetti (come il Capponi dice) di squisitezza; e la poesia, anche la familiare e satirica, consente alquanto più, che non la prosa, la ricerca del non comune, nel che appunto sta (come il vocabolo stesso significa) la squisitezza. Non è qui il caso nè il luogo: ma se volessimo esemplificare, sia dalla prosa sia anche dai versi, si farebbe capo le più volte ad abusi di locuzione figurata, con elementi non sempre coerenti fra sè e col soggetto, qualche altra volta a frasi e costrutti un po' sforzati; come pure non è lodevole certo scintillío di concetti continuato, che finisce con l'ingenerare stanchezza e monotonia. Tuttavia il Camerini, che fa anch'esso' quest'appunto della squisitezza, ha altresì queste parole: «Ma quella lettera a Drea Francioni dalle montagne pistoiesi, che finisce con la mirabile dipintura del ballo villereccio in casa del notaro, è bella come le sue più belle poesie.» E dice bene.
V
Nè per ultimo possiamo, anzi non dobbiamo, dimenticare ch'egli morì a quarant'anni. Morì col presentimento che la sua poesia fosse finita con lui, ed augurando che fosse. «Sento» scriveva nel '47, ma però nell'atto di raccogliere i suoi versi, «Sento che questo modo di poesia comincia a essere un frutto fuori di stagione, e vorrei elevarmi all'altezza delle cose nuove che si svolgono dinanzi ai nostri occhi con tanta maestà d'andamento… Se mi darà l'animo di poterlo tentare, certo non me ne starò: se poi non mi sentissi da tanto, non avrò la caponeria d'ostinarmi a sonare a morto in un tempo che tutti suonano a battesimo». E nel '48, preparando un'altra edizione, che doveva pur troppo uscir postuma nel '52 per cura del Capponi e del Tabarrini: «Perchè dovrei ostinarmi a straziare chi s'è corretto, se io appunto non desiderava altro che tutti ci correggessimo? E vero che agli errori e ai vizi di tempo fa, sono succeduti i vizi e gli errori delle cose recenti: ma io, lieto di vedere aperta la via del bene, non ho più cuore di menare attorno la frusta; e col mio paese ringiovinito, ritorno anch'io ai sogni sereni e alla fede benigna della primissima adolescenza. E questa fede posso dire non essersi spenta mai nell'animo mio; e il non aver derisa la virtù, e la stessa mestizia del verso sdegnoso, spero che valga a farmene larghissima testimonianza». Erano i giorni de' quali l'amico Panzacchi ha evocato qui, o Signore, dinanzi a Voi la giovinezza e la poesia; e in quei giorni appunto, il Giusti con parole di cittadino e d'artista, degni l'uno dell'altro, aggiungeva: «Ora che il popolo, eterno poeta, ci svolge dinanzi la sua maravigliosa epopea, noi miseri accozzatori di strofe, bisogna guardare e stupire, astenendoci religiosamente d'immischiarci oltre nei solenni parlari di casa. L'inno della vita nuova si accoglie di già nel vostro petto animoso, o giovani, che accorrete nei campi Lombardi a dare il sangue per questa terra diletta: ed io ne sento il preludio e ne bevo le note con tacita compiacenza. Toccò a noi il misero ufficio di sterpare la via; tocca a voi quello di piantarvi i lauri e le quercie, all'ombra delle quali proseguiranno le generazioni che sorgono. Lasciate, o magnanimi, che un amico di questa libertà che vi inspira la impresa santissima, baci la fronte e il petto e la mano di tutti voi. L'Italia adesso è costà: costà, ove si stenta, ove si combatte, e ove convengono da ogni lato, quasi al grembo della madre, i figli non degeneri, i nostri primogeniti veri.»