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Capitolo 3

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Mallory

Ignoro da quanto tempo sto camminando lungo la strada, ma la cinghia della mia borsa da viaggio mi sta incidendo la spalla e le mie gambe fanno fatica a sopportare il mio peso, che si aggiunge a quello del mio grosso bagaglio. Mi trascino senza una meta, non sapendo dove andare, quando una macchina rallenta alla mia altezza. Giro la testa dall'altro lato, non avendo alcuna voglia di spiegare ad uno sconosciuto cosa sto facendo sul ciglio della strada con le mie cose sulla schiena. Tuttavia, l'importuno decide diversamente. Sento il finestrino sul lato del passeggero che si apre e la musica che esce dalla macchina mi perfora i timpani. L'hard rock è trasportato dal vento ad un volume assordante. Poi, all'improvviso, il suono diminuisce ed una voce che non mi aspettavo si rivolge a me.

«Mal? Cosa ci fai qui?»

Mi giro di scatto per assicurarmi di non essere vittima di un'allucinazione, ma non c'è dubbio: è proprio il mio amico al volante dell'automobile. Potrei piangere di gioia, se non avessi esaurito le lacrime. Non faccio altro che fissarlo, senza riuscire a muovermi o a rispondergli, quindi lui decide di posteggiare su un lato della strada, gira intorno alla macchina e mi raggiunge.

«Mal? Stai bene?»

Scuoto la testa, incapace di parlare.

«Lascia che ti aiuti.»

Mi prende il borsone dalle mani e lo butta nel portabagagli, prima di aprire la portiera dal lato del passeggero.

«Sali. Ti porto a casa mia. Parleremo e mi racconterai cosa sta succedendo.»

Entro nell'abitacolo come un automa, sempre in silenzio, ed il mio amico mi allaccia la cintura, visto che non ho avuto neppure il riflesso di farlo. All'improvviso mi sento meno sola e spero che svuotare il sacco mi permetta di vederci più chiaro e di fare dei progetti per il futuro, perché non posso vagare senza una meta per sempre.

Mi rendo conto di non essere mai andata a casa sua, neppure una volta. La sua casa è piccola, lontana dalla strada e da qualsiasi vicino. La stradina che conduce al suo portico è sassosa ed io sobbalzo sul sedile. Tutto ciò mi fa contorcere pericolosamente lo stomaco, che si rivolta contro questi movimenti caotici.

«Mi dispiace. Non ho ancora avuto il tempo di sistemare l'esterno della casa.»

Gli rivolgo un debole sorriso, tenendo la bocca ermeticamente chiusa per non vomitare sulla leva del cambio. Per fortuna, non dura più di un minuto, poi parcheggiamo davanti ad una casa in mattoni a vista assolutamente incantevole.

«E' molto carina.»

Mi sorride ed una fossetta compare sulla sua guancia sinistra.

«Grazie. L'ho ereditata da mia nonna qualche anno fa e da allora sto cercando di rimetterla in sesto.»

Fa il giro della macchina per aprirmi la portiera, come un vero gentleman.

«Vieni. Ti preparo un buon tè e potremo parlare.»

Mi afferra la mano ed io mi ritraggo istintivamente. Da molto tempo non tengo la mano di un uomo che non sia Brandon e questa mano estranea, più grande e forte, mi lascia una sensazione spiacevole. Il padrone di casa non si accorge del mio imbarazzo e mi fa entrare da una porta rossa tutta di legno, che scatta al mio passaggio. Ho appena il tempo di ammirare il suo ingresso, decorato con uno specchio, poi mi conduce in una cucina all'ultima moda, perfettamente attrezzata, con un piano cottura immenso ed una grande isola circondata da sgabelli alti e comodi.

«Siediti lì. Ti preparo qualcosa da bere.»

Ne approfitto per voltarmi ed osservare la sua casa con uno sguardo curioso. Nel complesso è moderna, ha un aspetto conviviale, eppure sento una specie di malessere. Non ci sono foto, né soprammobili, nessuna traccia di vita. E' tutto stupendo, ma asettico, come una casa da mostrare, ma senza un'anima. E' difficile immaginare che un uomo single abiti in un posto del genere. Dov'è il disordine? La biancheria sporca sparsa dappertutto? Insomma, dei segni di vita!

«Due zollette, vero?»

Riporto l'attenzione sul mio amico.

«Sì, grazie.»

Posa la tazza davanti a me ed io approfitto del calore sulle mie mani per riprendermi. Potermi riposare mi fa molto bene, tuttavia devo pensare al futuro.

«Sei pronta a raccontarmi cosa è successo dopo che abbiamo chiuso la telefonata?»

E' vero che quando ci siamo parlati stavo piangendo, chiusa nella mia macchina. La mia ex-macchina. Tutto è diventato ex dopo quella telefonata.

«Ti avevo detto di chiamarmi, se ne avessi avuto bisogno.»

«Non ti volevo disturbare.»

Infatti è vero, almeno in parte. Avevo già l'impressione di essere un fardello per il mio ex-fidanzato e non volevo diventarlo anche per Léon, l'amico che mi ha sostenuta in questi ultimi mesi, contro tutto e tutti.

«Non mi disturbi mai, Mal, te l'ho già detto.»

Gioca con le mie dita sul tavolo, mentre un brivido risale lungo la mia colonna vertebrale. Tiro indietro la mano e mi stringo le braccia intorno alle spalle per scaldarmi, anche se dubito che il freddo sia il responsabile della mia pelle d'oca.

«Ho litigato con Brandon.»

Il ricordo delle ultime parole che l'ex-amore della mia vita ha pronunciato mi fa salire in gola un groppo grande come una palla da calcio.

«Si sistemerà tutto, Mal. Come al solito.»

La palla diventa sempre più grande nella mia trachea: ho l'impressione di soffocare.

«No, non si sistemerà affatto. Mi ha chiesto di andarmene. Vuole che facciamo una pausa di riflessione.»

Scoppio in una risata isterica ed anche un po' spaventosa, persino alle mie orecchie.

«Tutti sanno cosa significhi fare una pausa. Ha rotto con me, mi ha lasciata. Definitivamente.»

Léon stringe le labbra di fronte a me, tanto che diventano invisibili in mezzo alla sua folta barba nera.

«Brandon è un idiota. Sarà lui a rimpiangerlo.»

La mia risata si trasforma a poco a poco in singhiozzi disperati, mentre un torrente di lacrime mi invade il viso, prima ancora che io me ne renda conto. Sembra proprio che la fonte non si sia prosciugata.

«Ha spazzato via un rapporto di due anni come se niente fosse, come se questo tempo  insieme non avesse importanza. L'unica ad avere dei rimpianti, sono io. Avrei dovuto sforzarmi di più, dare ascolto alle sue paure. Voleva solo che io trovassi un lavoro e…»

«Shhh. Basta, Mal. Respira. Stai trattenendo il fiato.»

In effetti, durante tutta questa tirata non ho mai fatto un respiro. I rimorsi mi tolgono il fiato. Léon mi accarezza la schiena dal basso verso l'alto, imponendomi di inspirare ed espirare al suo ritmo. Il calore del suo palmo trapassa la stoffa dei miei vestiti ed ancora una volta, trovo che mi stia troppo vicino.

«Devo andare.»

«Non dire sciocchezze, Mallory! Non puoi andare da nessuna parte, in questo stato. Non hai nemmeno una macchina. Hai almeno un posto dove andare?»

Sprofondo ancora di più sullo sgabello, incurvando le spalle.

«Dovrò ritornare dai miei genitori.»

Nonostante le mie reticenze, non ho altre opzioni. Delle lacrime di vergogna mi colano dagli angoli degli occhi. Tra poco avrò 27 anni e dovrò tornare a vivere dai miei genitori come se fossi una bambina. Sono in collera con me stessa, perché non sono capace di prendermi le mie responsabilità.

«Potresti restare qui per un po'.»

Alzo di scatto la testa e fisso Léon, come se gli fosse spuntata una terza testa o un corno sulla fronte.

«Sei adorabile, Léon, ma non è una buona idea.»

Si raddrizza in tutta la sua altezza, dominandomi, mentre un principio di  paura si insinua dentro di me.

«Non era proprio una proposta, Mal.»

Mi alzo ed indietreggio in direzione della porta.

«Inizi a farmi paura, Léon. Sarà meglio che io me ne vada.»

Avanza verso di me come un predatore che insegue la propria preda. Ed è proprio così che mi sento: una preda bloccata contro una porta che rifiuta di aprirsi, nonostante i miei tentativi disperati di fare girare la maniglia.

«Staremo bene insieme, Mal.»

Le sue parole fanno fatica a penetrare attraverso la nebbia del mio panico. Scuoto la testa, ma ho l'impressione di averla immersa nel cotone. Ho delle vere difficoltà a riordinare le idee e quando apro la bocca, all'improvviso ho la sensazione che la mia lingua pesi una tonnellata. Inizio a scivolare fino a metà porta, mentre Léon si avvicina ancora. Non ha l'aria di preoccuparsi per la mia improvvisa debolezza, quindi un sospetto si insinua dentro di me.

«Cosa mi hai fatto?»

La mia voce si sente a malapena. Léon mi posa la mano sulla guancia ed io sono incapace di compiere il movimento di repulsione che desidero. Le gambe riescono appena a sostenermi. Mi sento scivolare a poco a poco verso il pavimento. Prima che io finisca del tutto a terra, Léon mi passa un braccio sotto le gambe e sulla schiena, incollandomi contro il suo ampio petto. La mia testa vacilla all'indietro in un angolo doloroso, ma non riesco a tenerla dritta.

«Pensavo di avere un po' più di tempo. La tua camera non è ancora del tutto pronta. Spero che ti piacerà.»

Di cosa sta parlando? Era molto tempo che progettava di rapirmi? Perché? Credevo che fosse mio amico! Le mie domande resteranno senza risposta: sono incapace di formularle e finisco per sprofondare nell'incoscienza, nel momento stesso in cui Léon mi deposita su una superficie morbida.

Sbatto le palpebre a causa della luce cruda, quando il sole mi colpisce la retina con i suoi raggi luminosi. Mi sento disorientata, incapace di ricordare dove mi trovo e ciò che mi ha condotta in questo luogo sconosciuto. Cerco di strofinarmi gli occhi per schiarirmi la vista, ma il mio polso destro si blocca di colpo con un rumore metallico. Insisto, ma riesco a procurarmi solo dolore. Un metallo freddo mi attanaglia dolorosamente la pelle. Mi accontento della mano destra per aprire gli occhi, poi il mio sguardo si posa sul mio impedimento. Perché si tratta proprio di questo: una manetta mi tiene prigioniera, legata ad un letto. Sono colta dal panico. Guardo dappertutto intorno a me; sono sola in una camera sconosciuta e le mie cose sono sistemate su degli scaffali aperti, come se vivessi lì da molto tempo. L'angoscia mi contorce le viscere.

«C'é qualcuno?»

Solo il silenzio risponde al mio richiamo.

«QUALCUNO RIESCE A SENTIRMI?»

La voce mi esce più acuta di quanto volessi, ma non importa. In una stanza adiacente, una sedia stride sulle piastrelle ed il rumore di passi che si avvicinano mi fa accelerare i battiti. Quando la porta socchiusa si spalanca, non riesco a credere ai miei occhi.

«Léon???»

Il suo sorriso ha qualcosa di malsano ed inquietante, anche se in realtà non è molto diverso dal solito. Senza dubbio è un effetto della situazione roccambolesca che sto affrontando.

«Finalmente ti sei svegliata. Non mi ero reso conto di avere un po' esagerato con  le dosi. Hai mal di testa? Nausea?»

E' una situazione veramente surreale. Sono incatenata ad un letto ed il mio rapitore si preoccupa della mia salute, dopo avermi drogata? Perché è questo che ha fatto, lo capisco bene.

«Perché mi trovo qui? Perché mi hai legata?»

Léon si siede sul bordo del letto ed io mi allontano da lui di riflesso, provocandogli un sospiro.

«Saresti rimasta con me, se te lo avessi chiesto gentilmente?»

No. Certamente no. Cerco di fare rallentare il mio ritmo cardiaco, mentre lui continua a cercare di giustificarsi.

«Siamo fatti l'uno per l'altra, Mal. L'ho saputo fin dal primo momento che ti ho vista.»

«Tu eri con Lilas. Stavate bene insieme.»

Lui gioca con le ciocche dei miei capelli ed io non ho alcuna via di scampo. Non posso allungare il braccio più di così ed il polso mi fa male, a forza di tirarlo.

«Lei non era fatta per me, pensa solo a divertirsi e a scopare. Io cerco qualcosa di più serio. Ho capito subito che tu eri una persona passionale ed incredibilmente romantica. Sei la mia donna ideale.»

Cerco di farlo ragionare.

«Non sono quella di cui hai bisogno: sono incostante, incapace di prendermi delle responsabilità.»

«Non vuoi lavorare, ma a me va molto bene, perché voglio che resti a casa. Con me. Ti ricordi, io lavoro a domicilio. Staremo tutto il tempo insieme. Guadagno abbastanza per tutti e due: saremo molto felici.»

Si china sul mio viso, sporgendo le labbra in avanti, ed io gli sputo in faccia per farlo indietreggiare. Ringhia, mentre si asciuga con il risvolto della manica.

«Finirai per darmi retta. Sarai mia. Per sempre.»

«Mai, Léon. MAI!»

A questo punto mi blocca sul ventre, sedendosi sopra di me ed io mi sento soffocare sotto il suo peso. Ho paura che mi voglia violentare e mi metto ad urlare senza fermarmi, allora mi preme la testa contro il materasso, per attutire i suoni, ed io soffoco sotto le lenzuola che mi riempiono la bocca spalancata.

«Smettila di urlare! Non ho intenzione di violentarti, voglio solo lasciarti un segno. Sei mia. E quando finalmente capirai che siamo due anime gemelle, sarai fiera di mostrarlo a tutti.»

Smetto di gridare per potere respirare più liberamente e lo sento prendere qualcosa dalla tasca. Poi abbassa il colletto della mia maglietta ed io ricomincio ad agitarmi, fino a quando sento un metallo freddo in cima alla mia schiena.

«Un marchio che prova il tuo amore per me.»

La lama affonda quindi nella mia pelle come nel burro, sotto le mie grida di dolore. Léon mi colpisce la schiena con un taglio verticale ed il sangue inizia a colarmi lungo il collo.

«Sarai perfetta.»

Detto questo, mi lascia lì, inebetita e con il corpo martoriato.

Fuggi, Angelo Mio

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