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CAPITOLO SECONDO

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Re Godwin III del Regno del Nord sedeva sul suo trono davanti a un mare di cortigiani e si sforzava di mantenere la calma. Dopo tutto ciò che era successo, dopo che sua figlia Nerra era stata costretta ad andarsene, odiava restare lì seduto, a fingere che andasse tutto bene. Desiderava alzarsi dal suo trono e andare a cercarla, ma sapeva di non poterlo fare.

Al contrario, doveva rimanere lì a intrattenere la corte, costretto in quella grande sala che portava ancora i resti del banchetto precedente, non del tutto eliminati. La sala era ampia e costruita in pietra, con striscioni alla parete ritraenti i ponti che segnavano il Nord. Erano stati disposti dei grandi tappeti quadrati, ciascuno riservato a un diverso rango della nobiltà o a una particolare famiglia nobile.

Lui doveva stare lì, in piedi davanti a quella platea, e doveva farlo da solo, perché Aethe non si sarebbe messa di fronte ai cortigiani che avevano preteso l’esilio di Nerra. In quel momento, Godwin avrebbe preferito essere in pressoché qualsiasi altro posto del mondo: il regno di Ravin, il terzo continente di Sarras, ovunque.

Come poteva fingere che andasse tutto bene quando Nerra era stata esiliata e la sua figlia minore, Erin, pareva essere scappata per diventare un cavaliere? Godwin sapeva di avere un aspetto arruffato, la sua barba ingrigita non era curata in modo impeccabile, la sua veste da Re era macchiata; tutto perché da giorni riusciva a stento a chiudere occhio. Poteva vedere il Duca Viris e la sua combriccola scansionarlo con un divertimento evidente. Se il figlio di quell’uomo non fosse stato il promesso sposo di sua figlia…

Il pensiero di Lenore alleviò un poco il suo sconforto. Era in viaggio per il raccolto nuziale, scortata da Vars. Presto sarebbe tornata e tutto si sarebbe concluso al meglio. Nel frattempo però, c’erano questioni serie di cui occuparsi: le voci che erano giunte a corte e minacciavano la rovina della sua casata.

“Vieni avanti figlio mio!” disse Godwin e le sue parole rimbombarono nella stanza. “Rodry, vieni fuori e fatti vedere!”

Il suo figlio maggiore uscì dalla folla spettatrice, sembrando il cavaliere che era e l’uomo che Godwin era stato da giovane. Era alto e irrobustito da anni di pratica con la spada, portava i capelli biondi tagliati corti, per evitare che gli offuscassero la vista. Era un vero guerriero, ed era chiaro che le persone lo osservassero con ammirazione mentre avanzava fra esse. Se solo fosse riuscito anche a essere un po’ più riflessivo.

“Va tutto bene, Padre?” chiese, facendo un inchino.

“No, non va tutto bene,” replicò Godwin feroce. “Pensavi che non sarei venuto a sapere dell’ambasciatore?”

C’era una cosa che proprio non poteva negare sul suo figlio maggiore, però, ed era la sfumatura accentuata di onestà che lo caratterizzava. Avrebbe potuto nascondersi meglio dietro a un dito che dietro a una bugia. In quella situazione, Vars avrebbe tentato di negare tutto mosso dalla codardia, mentre Greave avrebbe infiocchettato la vicenda richiamando la citazione più emozionante di quei suoi libri, ma Rodry si limitò a stare lì in piedi, duro come una roccia, e la sua mente era coerente con la sua postura, dato cosa disse dopo.

“Non potevo restare a guardarlo insultare tutta la nostra famiglia, tutto il nostro regno,” affermò Rodry.

“È proprio questo che avresti dovuto fare,” replicò Godwin adirato. “Invece, gli hai rasato la testa, hai ucciso due delle sue guardie… Se non fossi mio figlio ed erede, verresti impiccato per una cosa simile. In quanto ai tuoi amici…”

“Non hanno preso parte allo scontro,” replicò Rodry, stando in piedi impettito, assumendosi la responsabilità di tutto. Se non fosse stato così arrabbiato per la stupidità di quell’atto, Godwin sarebbe stato quasi orgoglioso di lui.

“Beh, saranno presto costretti a partecipare a uno,” disse il Re. “Credi che un uomo come Re Ravin non contrattaccherà? Avevo mandato il suo ambasciatore per la sua strada perché non potesse farci niente. Adesso gli hai dato una ragione per assalirci con più tenacia.”

“E noi saremo pronti a fermarlo quando lo farà,” rispose Rodry. Certo, era ostinato e poteva anche essere un uomo adulto e un cavaliere, ma non aveva mai sperimentato la guerra vera. Oh, aveva combattuto contro banditi e creature di vario genere, in quanto Cavaliere dello Sperone, ma non aveva mai affrontato un intero esercito armato su un campo di battaglia nel modo in cui aveva fatto Godwin da giovane, non aveva visto il caos, la morte e la…

“Basta,” replicò Godwin. “Sei stato uno sciocco a fare una cosa simile, Rodry. Devi imparare a comportarti meglio se vuoi essere in grado di fare il re un giorno.”

“Io…” esordì Rodry, chiaramente pronto a discutere.

“Taci,” lo interruppe Godwin. “Vuoi ribattere perché il tuo temperamento non ti dà modo di fare qualcosa di diverso. Beh, sono sempre io il re e non ho voglia di ascoltarti.”

Per un momento, pensò che suo figlio avrebbe potuto controbattere lo stesso, e allora Godwin avrebbe dovuto trovare una punizione che si addicesse all’erede al suo trono. Per fortuna, Rodry tenne a freno la lingua.

“Se rifarai una mossa così superficiale, dovrò sottrarti il titolo di cavaliere in segno di disonore,” affermò Godwin. Era la cosa peggiore a cui poteva pensare quando si trattava di Rodry, e quel messaggio parve senz’altro colpire nel segno. “Per ora, sparisci dalla mia vista, prima che perda le staffe come sembri sempre fare tu.”

Lo vide arrossire e pensò che avrebbe potuto impuntarsi e discutere, ma sembrò ripensarci. Al contrario, gli dette le spalle e uscì a grandi passi dalla sala. Forse avrebbe imparato la lezione, dopotutto. Il Re tornò a sedersi sul suo trono di legno scuro, saldo e solido, desideroso di vedere chi sarebbe stato il prossimo a farsi avanti; sempre che qualcuno avrebbe osato farlo, dato che la rabbia era ancora lì, dopo aver rimproverato suo figlio.

Finnal, che sarebbe presto diventato suo genero, riempì il vuoto, avanzando delicato e facendo un inchino che lo era ancora di più.

“Vostra maestà,” disse. “Perdonatemi, ma data l’irrequietezza dei preparativi del matrimonio, la mia famiglia sente che dovrei avanzare una o due… richieste.”

La sua famiglia, o meglio il Duca Viris, era ancora sorridente lì in piedi sullo sfondo, calmo come un airone che, appollaiato sopra a un fiume, attende trepidante la sua preda. Era il classico uomo che non appare mai come il diretto responsabile di qualcosa, ma sembra semplicemente trovarsi nei pressi per caso, appena fuori dall’attribuzione di una qualsiasi colpa.

“Quali richieste?” domandò Godwin.

Finnal avanzò per porgergli una pergamena arrotolata. Anche quella mossa era studiata a tavolino, perché significava che non avrebbe dovuto leggere ad alta voce le pretese contenute in quel rotolo.

Erano pretese; molto sottili, ma pur sempre pretese. Se prima le terre offerte come dote avevano escluso qualche villaggio, adesso, la versione rivista suggeriva di includerlo. C’erano più soldi, certo, perché era inevitabile, ma l’aumento reale era nascosto, distribuito su una nave da pesca aggiuntiva qui, una decima da un mulino lì. Nessuna appariva eccessiva e Godwin, nonostante fosse indignato in modo lampante, sarebbe forse sembrato un avaro; tuttavia, se sommate insieme, l’incremento era considerevole.

“Questo non è quanto hanno già accordato le nostre famiglie,” evidenziò.

Finnal offrì un altro di quei suoi eleganti inchini. “Mio padre crede fortemente che un accordo possa sempre essere… rinegoziato. Inoltre, altre circostanze sono venute alla luce nel frattempo, mio Re.”

“Quali?” chiese Godwin.

“Il rischio che rappresenta la presenza della malattia a squame all’interno di una famiglia rende molto difficile contrarre matrimonio,” disse Finnal. Suonava dispiaciuto al riguardo, ma Godwin non credette a quel tono neanche per un attimo. Era per questo che suo padre era stato lì immobile mentre un altro nobile aveva sollevato il problema della malattia di Nerra? Per una rinegoziazione?

Godwin si alzò di scatto dal trono, in un impeto di rabbia. Non era certo di cosa avrebbe detto adesso, di cosa avrebbe fatto, ma non ebbe modo di scoprirlo perché in quel momento le porte della grande sala si spalancarono violente, lasciando entrare una guardia che sembrava sorreggere una donna di servizio. Godwin di solito non prestava tutta quell’attenzione alle singole domestiche, ma era certo che quella in particolare fosse partita in viaggio con Lenore, pochi giorni prima.

Vederla lì bastò a farlo fermare in modo brusco e una fredda mano di terrore gli si avvolse attorno al cuore, dove prima c’era stato solo il calore della rabbia.

“Vostra maestà,” gridò la guardia. “Vostra maestà, c’è stato un attacco!”

Passò un secondo prima che Godwin riuscisse persino a parlare; era così sopraffatto dalla paura.

“Che genere di attacco? Cos’è successo?” domandò e osservò la giovane donna laggiù, che sembrava a malapena in grado a tenersi in piedi.

“Noi… noi eravamo…” Scosse la testa, come non riuscisse neanche a raccontarlo. “C’era una locanda… c’erano delle persone all’interno. Erano gli uomini di Re Ravin…”

La paura venne rimpiazzata dall’orrore a quel punto.

“Lenore, dov’è? Dov’è lei?” domandò.

“L’hanno presa,” disse la domestica. “Hanno ucciso le guardie, ci hanno prese e hanno…” La pausa raccontò a Godwin tutto ciò che doveva sapere. “Hanno lasciato andare alcune di noi, volevano che ve lo dicessimo.”

“E Lenore?” chiese Godwin. “Che hanno fatto a mia figlia?”

“L’hanno tenuta con loro,” rispose la giovane donna. “Hanno detto che l’avrebbero portata a sud, al di là del ponte. Vogliono darla a Re Ravin.”

In quel momento, non importava nient’altro; non importavano le reazioni eccessive di suo figlio, né le pretese del suo futuro genero. Tutto ciò che importava era il pensiero che un’altra delle sue figlie era in pericolo, e questa volta non l’avrebbe delusa, non avrebbe ripetuto quanto aveva fatto a Nerra.

“Convocate i miei cavalieri!” gridò. “Portate il messaggio ai Cavalieri dello Sperone. Avvisate le mie guardie. Voglio tutti gli uomini che abbiamo radunati insieme! Perché restate lì fermi? Muovetevi!”

Attorno a lui, guardie e domestici si misero in moto, alcuni correndo per recapitare il messaggio, altri affrettandosi per andare a prendere le armi. Da parte sua, Godwin uscì a grandi passi dalla sala, attraversando il castello, incurante di quanti lo stessero seguendo. Corse giù per una scala a spirale, con i piedi che rimbalzavano sulla pietra usurata. Superò corridoi tappezzati e passaggi i cui pavimenti piastrellati erano stati consumati dal viavai di generazioni. Scese fino all’armeria, dove un’imponente porta di ottone solido si ergeva fra il mondo e le armi che custodiva il castello, le opere più raffinate che aveva prodotto la Casa delle Armi. Le guardie laggiù si fecero da parte per lasciarlo passare.

La sua armatura giaceva sul supporto, il pettorale smussato dagli anni e le gambiere lavorate con decorazioni intrecciate. Di norma, Godwin avrebbe aspettato che un paggio lo aiutasse, ma adesso se la gettò addosso, allacciando le fibbie e legando i lacci. Sapeva che avrebbe dovuto raggiungere gli alloggi della regina per mettarla al corrente che un’altra delle sue figlie era in pericolo. Tuttavia, in quel momento, Godwin poteva sconfiggere mille eserciti, ma non poteva affrontare un compito come quello.

Ciò che stava per sostenere era già abbastanza brutto. Lenore era in pericolo, era probabile che avesse subito cose orribili che andavano quasi oltre all’immaginazione. Anche con tutti i suoi soldati, Godwin non sapeva se avrebbero fatto in tempo a recuperarla né quali nemici avrebbero dovuto fronteggiare nel tentativo. Tutto ciò che sapeva era che non poteva sopportare di perdere un’altra figlia, non adesso.

“La riporterò indietro,” disse ad alta voce. “A qualsiasi costo, riporterò indietro mia figlia.”

Il trono dei draghi

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