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IL CANE DELLO ZIO PROSPERO
VI

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Rimase alla Valletta una settimana: tempo sufficiente perchè il vecchio contadino, il quale dianzi l'aiutava a tender le reti, a invischiare, o a batter le macchie, si convincesse che il padrone era ammattito del tutto. Aveva mandato a prendere i richiami, la civetta e gli arnesi; ma non si recarono nemmeno una volta al paretaio o nelle larghe a tirar alle allodole. Camminavano su e giù per i campi aspettando che il cane scovasse la lepre, e non sparavano un colpo; e sedevano stanchi alle prode dei fossi. Ivi il padrone o contemplava, vattelapesca chi e che cosa, oppure discorreva in modo che non l'avrebbe capito l'arciprete.

– La verginità volontaria avvicina l'umanità a Dio. Lo credi?

– Sissignore – il vecchio rispondeva, fedele al principio che conviene dar sempre ragione ai matti.

– Da che mondo è mondo la vita fu considerata come una prova dell'uomo e della donna per elevarsi, perfezionarsi l'anima; e l'amore, come s'intende dai più, fu considerato un abbassamento, un prolungamento di quella prova superata soltanto dalla verginità. Lo credi?

– Dice bene lei!

E un'altra volta, quel poveretto, tenne al contadino questo bel discorso:

– Tu negli alberi non vedi che frasche da sfogliare, legna da tagliare e da bruciare; nei fiori non vedi che un ghiribizzo della madre terra; negli uccelli non vedi che materia da umido o da arrosto. Sfòrzati invece a pensare che tutte queste creature sono animate dello spirito che ci dà vita a noi, e starai meglio con loro che con gli uomini e con le donne. Lo credi?

Il vecchio rispose:

– Credo sia già suonato mezzogiorno. Andiamo a mangiare, signor padrone?

Rincasando non si accorgevano, l'uno per la filosofia e l'altro per l'appetito, che Top era scomparso.

Top, con mirabile puntualità, all'ora di desinare giungeva ogni giorno a casa Marzioli, dove l'Elena gli preparava la zuppa. Mangiava; dormiva; quindi tornava in campagna desideroso di novità.

Ma ne era più desideroso, di novità, il signor Prospero. E l'ottavo giorno, per interrompere in qualche modo la pena protratta, riprese la via del paese e del camerone.

***

Il trambusto di lui, là dentro, trasse l'Elena all'uscio, come egli aveva immaginato.

– Ehi, zio! sono qui: ascolti una parola!

– Elena!

Mai chiamandola lo zio aveva avuto una voce così tenera; la voce di chi ha pianto. Aggiunse:

– Che vuoi?

– Ho una cosa da dirle; accosti l'orecchio.

– Son qui.

Un lungo attimo di silenzio. E l'Elena sussurrò:

– Non mi attento.

– Ah – egli fece, pentito a un tratto d'essersi abbassato alla serratura – : ti attentavi però ad attaccar i bigliettini al collare del cane!

– Bene, zio! – mormorò pronta la ragazza – : lei adesso può star tranquillo; può rimettere il collare a Top.

Se dal buco della serratura Prospero Marzioli avesse scorto l'universo quale possessione sua, tutta sua, non avrebbe provata tanta gioia!

Rimettere il collare a Top, star tranquillo, non significava forse che l'amoreggiamento era finito? Senza dubbio il Tarelli, dopo la lezione ricevuta dallo zio, aveva rinunciato all'Elena. Quant'era bello adesso il mondo, sebbene dal buco della serratura non si scorgesse più nessuno e non si udisse più nulla!

E ora Prospero Marzioli poteva incontrare Adelmo Marzioli senza timori e senza rimorsi.

L'incontrò poco dopo, che veniva dalla Congregazione. Ma – miracolo! – questa volta parlava prima lui, Adelmo; al solito, però, pacato e conciso.

– Il figlio di Tarelli ha dimandato l'Elena. A San Martino si sposano.

Elena – sposa!

Lo zio Prospero impallidì; diventò rosso; tacque finchè fu certo di poter dissimulare la passione con lo sdegno. Un lungo attimo; e aggrottate le ciglia, esclamò:

– Non aspettatevi regali, non aspettatemi alle nozze. Sono uno da star a pari dei Tarelli, io?

Bene. Non si commosse Adelmo; chiese soltanto:

– C'è altro?

– Nient'altro – rispose Prospero allontanandosi e premendosi con la mano il cuore.

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