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1. Una lunga storia tra fasti e problemi

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l luogo e i suoi processi materiali

Ciò che è successo a Porto Marghera era inevitabile o al contrario i processi potevano prendere un’altra direzione? Le persone, le organizzazioni sociali e politiche potevano cambiare il corso degli avvenimenti oppure hanno subito un processo che, come un fiume in piena, travolge tutto ciò che incontra al suo passaggio? È la questione del “confine” tra l’oggettività e la soggettività dei processi sociali. È difficile costruire una risposta condivisa. Cesco Chinello e Gianni De Michelis si differenziano nel giudizio sull’oggettività dei processi (Chinello sembra escluderla, De Michelis ammetterla). Entrambi, tuttavia, convergono sul peso che la soggettività può esercitare nel determinare l’esito di un processo sociale o economico. Una “terza via” può essere rappresentata dal riconoscimento di una relazione reciproca e dinamica tra l’aspetto oggettivo e quello soggettivo. L’impossibilità di definire con certezza i confini tra l’oggettivo e il soggettivo apre uno spazio ampio di manovra per gli attori in campo e le responsabilità in tal modo possono sfumarsi. Può accadere che ci si nasconda dietro l’oggettività di un processo per restare inattivi («tutto dipende dalla crisi economica mondiale che nessuno di noi può qui e ora risolvere») o al contrario si può considerare un processo con tratti significativamente oggettivi (la crisi di una fabbrica obsoleta incapace di restare sul mercato) come interamente dipendente dalla volontà degli attori.

Marghera: un caso isolato e specifico?

In un articolo sul quotidiano la Repubblica del 15 agosto 1998 si poteva leggere:

Il passaggio dall’ombrello protettivo delle Partecipazioni Statali al nuovo è un bel cambiamento, un salto senza rete che i genovesi hanno paura di fare ma che sentono di non poter evitare. Non hanno altre strade. Qui il passato è sepolto e difficilmente potrà essere riesumato... La nuova classe imprenditoriale fa fatica a uscire allo scoperto e quella vecchia è morta sotto le macerie delle Partecipazioni Statali... Genova è in difetto di classe dirigente dopo la fine dell’egemonia dell’industria pubblica... (1. Tropea S., Il fantasma dell’Ansaldo spaventa Genova bifronte, «La Repubblica», 15 agosto 1998).

Nell’articolo si può benissimo sostituire Genova con Venezia (Porto Marghera) così come si potrebbe sostituire con Napoli, Trieste, Taranto, ecc. ed è sostenibile la stessa tesi. Ci si riferisce in effetti al medesimo modello di sviluppo industriale: quello tipico delle zone costiere, che fa perno sulle banchine portuali, per accogliere navi che trasportano materie prime che le industrie ivi collocate trasformano in prodotti finiti o semilavorati. Industrie di grandi dimensioni, con migliaia di addetti, create in Italia soprattutto grazie all’intervento diretto dello Stato attraverso il Ministero delle Partecipazioni Statali.

Tappe della storia del polo industriale di Porto Marghera

L’area industriale di Porto Marghera, che diventerà nel corso della sua non breve storia uno dei maggiori poli industriali europei, nasce in virtù degli sviluppi che hanno interessato il porto di Venezia. Nel 1907, con lo spostamento del porto in terraferma – ai Bottenighi –, si gettano le basi per costruire la zona industriale. Il 23 luglio del 1917 si stipula a Roma una “Convenzione relativa alla concessione della costruzione del nuovo porto di Venezia, in regione Marghera, e ai provvedimenti per la zona industriale e il quartiere urbano ” (2. Chinello C., Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del “problema di Venezia, Marsilio, Venezia 1979, p. 173) tra Governo, Comune e la Società anonima Porto Industriale di Venezia della quale è presidente Giuseppe Volpi. I lavori inizieranno ai Bottenighi nel 1919. È la nascita della I Zona Industriale. Sin dall’inizio è chiaro l’indirizzo produttivo: si comincia con attività chimiche, petrolifere e poi elettro-metallurgiche e ancora cantieristica navale e siderurgia. Lo sviluppo è rapido: si va dalle 5 aziende insediate nel 1921 alle 91 del 1939, con quasi 19.000 addetti, sebbene le aziende attive siano, a quella data, solo 71. Nell’ottobre del 1925 l’ingegner Coen Cagli propone un nuovo piano regolatore per l’ampliamento della zona industriale, ma il suo progetto sarà preso in considerazione solo successivamente alla seconda guerra mondiale. Infatti, dopo varie iniziative, è costituito il 22 dicembre 1958 il “Consorzio per l’ampliamento e lo sviluppo di Porto Marghera” a cui partecipano Comune e Provincia di Venezia, la Camera di Commercio della città, oltre al Provveditorato al porto. Nel febbraio del 1962 il Consorzio deciderà la distribuzione definitiva delle aree (per un totale di 763 ettari), aprendo la strada alla costruzione della II Zona Industriale. Il 2 marzo del 1963 la legge 397, che istituisce il nuovo Consorzio allargando la partecipazione al Comune di Mira, delinea un “Nuovo ampliamento del porto e zona industriale di Venezia”: è il tentativo di avviare la III Zona Industriale, ma la volontà politica che prevarrà alla fine sarà quella di bloccare l’espansione industriale. Si assisterà – per questo – alla crescita di Porto Marghera tutta concentrata nella I e nella II Zona Industriale nel corso della prima metà degli anni Settanta.

Le attività produttive del polo industriale e la dinamica occupazionale tra gli anni Settanta e gli anni Novanta

A metà anni Settanta l’occupazione stimata a Porto Marghera era attorno alle 35.000 unità, prevalentemente concentrata nell’industria di base, ad elevato consumo energetico, con forte dipendenza extraregionale, come tutte le zone industriali costiere di prima generazione. Il cosiddetto modello Mida ( Maritime industrial development areas) è stato messo a punto nel delta del Reno (l’area del Botlek nel porto di Rotterdam è il primo modello realizzato) e imitato poi sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. L’attracco della nave alla banchina di uno stabilimento e il successivo sbarco della materia prima in “autonomia funzionale” costituiscono le prime fasi del processo produttivo. Date queste caratteristiche, Porto Marghera si è sempre proposta come ubicazione ottimale per lavorazioni di base (3. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, Angeli, Milano 1990, pp. 16-17). Fino agli anni Novanta, dei grandi gruppi industriali presenti, uno solo era privato: la Montedison (la proprietà, poi, si alternerà dalla mano privata a quella pubblica di Eni e viceversa). Tre erano direttamente dipendenti dallo Stato: Iri, Eni ed Efim. Questi quattro colossi industriali nel 1987 occupano un insieme di aree pari a 1.079 ettari, vale a dire il 78,9% del totale del polo industriale e impiegano 14.531 addetti, pari al 73% del totale. I dati riportati in tab. 1 consentono di seguire la dinamica del numero di unità locali e addetti presenti a Porto Marghera dalla fine degli anni Settanta allo scadere del secolo. Agli oltre 26.600 addetti del 1978 si possono aggiungere 2.535 addetti nelle imprese di appalto nei 17 maggiori stabilimenti di Porto Marghera (stima primo trimestre del 1979). Gli addetti totali salgono, così, a quella data, a oltre 29.000. Circa l’80% dei lavoratori risultava impiegato in 14 aziende collocate nella classe dimensionale superiore ai 500 addetti.


Tra gli addetti diretti il 47,1% era impiegato nel settore chimico (12.557), il 20,6% nella metallurgia (5.460), l’11,2% nella cantieristica (2.972), il 6,3% nella lavorazione dei minerali non metalliferi (1.674), il 6,2% nei derivati del petrolio (1.654), il 5,8% nella meccanica (1.552). All’interno della chimica le produzioni risultavano concentrate nei comparti della chimica di base (addetti 8.133), fertilizzanti (2.228), fibre sintetiche (1.835); nel metalmeccanico le produzioni principali erano quelle dei settori dei non ferrosi (3.427 addetti), cantieri navali (2.972), siderurgia (1.870) (4. Rielaborazione su dati Coses).

Dieci anni dopo, nel 1988, l’occupazione complessiva risulterà ridotta di oltre 9.000 unità con un calo pari al 35%. Le linee della trasformazione sono evidenti: le aziende di classe superiore ai 500 addetti si riducono di oltre la metà e i loro occupati calano del 52%; le aziende più piccole di classe 10-49 addetti triplicano, mentre gli occupati crescono solo dell’87%; le aziende di classe 50-99 addetti calano del 20% ma gli occupati restano stabili; infine nella classe 100-499 addetti le aziende crescono del 33% e gli occupati aumentano del 30%.

Dieci anni dopo, nel 1998, l’occupazione complessiva risulta ridotta ulteriormente di oltre 4.000 unità con un calo pari al 25%. Le aziende di classe superiore ai 500 addetti diminuiscono ancora e i loro occupati calano del 52%; le aziende di classe 10-49 addetti quasi quadruplicano, mentre i loro occupati crescono del 250%; anche le aziende di classe 50-99 crescono significativamente, mentre nella classe 100-499 addetti le aziende e gli addetti si riducono, grossomodo, della metà. Per quanto riguarda le variazioni dell’occupazione per settori, si osserva una riduzione generalizzata: nella chimica gli addetti calano, tra il 1978 e il 1998, da 12.557 a 3.674 e il peso sul totale passa dal 47% al 28%; nel settore petrolifero si passa da 1.654 a 534 addetti; nella metallurgia e siderurgia da 7.330 a 1.221 addetti e, in termini di peso, dal 18% al 9%. Un andamento diverso è quello del cantiere navale ex Breda, del gruppo Fincantieri, dove al dimezzamento degli addetti diretti corrisponde la contemporanea e fortissima crescita dei dipendenti delle imprese esterne che operano in appalto, grazie alle grosse commesse acquisite nel settore crocieristico. A tale andamento dell’occupazione nel polo industriale non corrisponde, però, una riduzione delle quantità prodotte. Infatti «nel decennio 1977-1987 (...) vi è stata una forte caduta dell’occupazione soprattutto negli stabilimenti legati agli input dal mare, ma ciò nonostante vi è stato nell’insieme un aumento della produzione» (5. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, Angeli, Milano 1990, p. 28).

La tab. 2 fotografa l’assenza di una correlazione tra addetti e produzione. Nella storia recente di Porto Marghera si possono individuare tre fasi: negli anni Settanta lo sviluppo di Porto Marghera è l’aspetto prevalente; negli anni Ottanta si registrano una lunga fase di ristrutturazione e la dismissione di alcune produzioni, con una forte riduzione degli occupati; negli anni Novanta il mutamento del vecchio modello industriale diventa radicale.


Uno sviluppo produttivo e occupazionale sembra durare fino a metà anni Settanta, quando inizia a far sentire, in modo manifesto, i suoi effetti il cambio di fase dell’economia internazionale: un rallentamento della crescita, infatti, presente sin dal 1967, si materializza con forza a seguito dell’esplodere, nel 1973, della crisi petrolifera in conseguenza della sospensione di forniture di greggio da parte dei Paesi arabi, come ritorsione verso i Paesi considerati alleati di Israele. Si aggiungono poi, nel 1979, gli effetti della seconda crisi petrolifera, dettata questa volta dall’Iran, che blocca le sue esportazioni di greggio. Il polo industriale, che faceva leva sulle trasformazioni di materie prime a elevato consumo energetico, vive di conseguenza ripetute crisi aziendali. Alla fine degli anni Settanta dunque si erano già manifestati numerosi segnali di una rilevante e imminente trasformazione (6. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, Angeli, Milano 1990, pp. 95-97). Gli anni Ottanta finiranno per caratterizzarsi per la drammatica crisi produttiva, che i dati occupazionali riflettono solo in parte: nei rilevamenti sull’occupazione risultano occupati centinaia di lavoratori che in realtà sono in cassa integrazione, sebbene vi sia la certezza che molti non saranno più rioccupati. D’altro canto nei calcoli sono esclusi, per la difficoltà a censirli, i lavoratori indiretti, come quelli che operano nelle manutenzioni o nella logistica della grande azienda. Chimica, cantieristica di costruzione e di riparazione, alluminio, rame, zinco, siderurgia, imprese di appalto, meccanica, carpenteria sono tutti settori che si misureranno con processi di ristrutturazione volti a razionalizzare le attività produttive, cioè produrre di più con meno addetti e, quindi, con un netto peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita per l’insieme dei lavoratori. Si registra, anche, una forte tendenza al ridimensionamento delle attività, a volte limitato alla chiusura di alcune linee di produzione (come i forni per la produzione primaria dell’alluminio), altre volte, invece, si verificherà la chiusura totale di aziende (come l’Alluminio Italia di Porto Marghera o la Preo, azienda siderurgica privata). Molto dipende dall’andamento del mercato in cui le aziende operano; in alcuni casi decisivo per continuare l’attività è l’Intervento degli enti locali, della Regione o dello Stato, spesso teso a tamponare i negativi effetti sociali delle crisi aziendali. Dopo la crescita degli anni Settanta e il declino degli anni Ottanta, gli anni Novanta si caratterizzano per il rallentamento delle espulsioni di manodopera dalle fabbriche e, ancor più, per la diffusa consapevolezza della necessità di riequilibrare il modello industriale basato sulle grandi aziende soprattutto pubbliche e concentrato sulle produzioni di base. Così nel settore petrolchimico si intensifica il processo di automazione, mentre in Montedipe, Agrimont, Ausimont si portano avanti soluzioni organizzative nuove. Nel settore alluminio, invece, si cerca di riconvertire le attività passano dalla produzione primaria ai prodotti finiti, utilizzando la nuova società Alutekna. Nella cantieristica si passa dalla costruzione delle tradizionali navi commerciali alle sofisticate navi passeggeri, sempre più imponenti, e lo stabilimento della Fincantieri di Porto Marghera si colloca tra i protagonisti a livello mondiale in questo nuovo mercato. È da ricordare anche l’impatto delle decisioni prese in sede europea che pongono ai singoli Stati precise condizioni volte a riorganizzare su scala europea le industrie nazionali. Numerose leggi di settore intervengono a disciplinare le attività produttive, in termini di quantità di produzione, aiuti pubblici, impatto ambientale, ecc. Il caso Fincantieri (7. Aiello A., La Fincantieri e la crisi della cantieristica italiana, in «Economia e società regionale», 2, 2004) è paradigmatico della ristrutturazione industriale avvenuta su scala europea. E lo stesso è accaduto anche in altri settori industriali come la siderurgia, la metallurgia non ferrosa, la chimica. Gli interventi europei volti a eliminare gli aiuti di Stato alle imprese, cioè a eliminare la concorrenza sleale nel mercato comunitario, hanno mirato a determinare una gestione più oculata delle risorse. Da qui profonde ed estese ristrutturazioni e riorganizzazioni produttive, con interventi sugli impianti, sull’organizzazione aziendale, sull’occupazione.

La “Vertenza Venezia”. Una gestione unitaria del polo industriale?

Il 5 febbraio 1981, al cantiere navale Breda di Porto Marghera è convocata dalla Federazione Cgil, Cisl e Uil di Venezia una riunione delle segreterie dei sindacati di categoria e dei Consigli di fabbrica per discutere «sulla preoccupante situazione di Porto Marghera, e soprattutto per le prospettive del Polo, che si lega organicamente con la crisi del sistema delle Partecipazioni Statali e con gli inaccettabili ritardi nella costruzione di una strategia di riorganizzazione dell’industria di base a seguito della crisi energetica...» (8. Ghisini G., Sintesi della relazione tenuta a nome della segreteria Cgil, Cisl e Uil, Porto Marghera, febbraio 1981, dattiloscritto). Nella relazione dei sindacati si chiede «un contributo più efficace» dei partiti politici e delle istituzioni locali, in vista di un progetto del sindacato su «Marghera e sull’area veneziana». Nasce così la Vertenza Venezia, un « progetto di sviluppo economico, produttivo e occupazionale dell’area veneziana» (9. Di Renzo T., Eravamo bonzi. Ricordi senza remore delle lotte sindacali del 1980. Il petrolchimico di Porto Marghera, Marsilio, Venezia 1988, pp. 145-148). Si mira, con essa, a unificare le lotte dei lavoratori sui problemi occupazionali, evitando di rincorrere le singole situazioni di crisi. Vengono individuate con precisione anche le controparti cui le rivendicazioni sono state indirizzate: Associazione Industriali, Costruttori edili, Confcommercio, Associazione piccole aziende, Intersind e Asap (associazioni di aziende industriali pubbliche poi confluite in Confindustria), come pure Governo, Regione, Comune e Comprensorio. Il primo sciopero a sostegno delle richieste sindacali, il 17 febbraio 1981 in piazza San Marco a Venezia, con l’intervento conclusivo di Luciano Lama, segretario generale della Cgil nazionale, vede la partecipazione di oltre 30.000 persone.

Il limite di queste iniziative è che ci sono stati risultati politici importanti ma non pratici. E senza risultati pratici i problemi di Marghera non si risolvono. Dobbiamo interrogarci più a fondo sul perché Governo, Regione, Comune, padronato, partiti, si sono trovati d’accordo sugli interventi proposti dal sindacato e alla fine... sono venute a mancare le cose pratiche. Come pure dobbiamo interrogarci su un altro limite, che perdura e che rischia di diventare un vero pericolo: questa piattaforma Venezia è nata per l’insieme dei lavoratori veneziani, non può essere solo la piattaforma dell’industria o di una parte di essa . (10. Aiello A., Articoli, interviste, interventi, 1975-2004, Relazione introduttiva Comitato Direttivo Fiom-Cgil, Venezia 30 marzo 1983, dattiloscritto)

Per il sindacato era l’intero polo industriale a essere posto in discussione. Da qui, l’esigenza di avere – innanzitutto dal Governo – risposte che coniugassero le politiche industriali ed economiche nazionali con il riassetto del territorio. Non una vertenza di “campanile”, corporativa, ma al contrario aperta al contributo delle forze politiche e istituzionali e dello stesso sindacato nazionale. I bisogni e le aspirazioni dei sindacati veneziani dovevano però scontrarsi con i bisogni e le aspirazioni di altri soggetti presenti nell’arena politica.

Quale politica industriale: territoriale o nazionale di settore?

Facendo leva sulla competitività dei siti industriali, si mirava a non subire una politica industriale calata dall’alto, frutto di decisioni tutte nazionali, all’interno delle quali non poco peso finivano per avere le questioni sociali. Comunque non sempre il primato dell’efficienza avrebbe privilegiato Porto Marghera – e in generale il Nord – a discapito del Sud Italia, considerato spesso come un’area assistita. Valga per tutti il caso Italsider: il centro siderurgico di Taranto avrebbe potuto, da solo, far fronte all’intero fabbisogno di produzione di acciaio del Paese. Una valutazione prettamente economica avrebbe dato ragione alla scelta di puntare tutto su Taranto, ma poi chi avrebbe gestito le negative e pesanti ricadute e cioè lo stop alle attività a Napoli, Genova, Trieste, Venezia? Sarebbe stata una scelta comprensibile se basata su una politica di settore e basta: ma diventava subito dopo una scelta inaccettabile se vista nell’ottica dei territori. L’iniziativa veneziana poteva, perciò, essere considerata come una sorta di fuga in avanti, un pensare a sé a discapito degli altri. È significativa, a tale proposito, un’intervista rilasciata a Toni Jop del quotidiano L’Unità, il 27 maggio 1981, dall’allora ministro delle Partecipazioni Statali, Gianni De Michelis: (11. Jop T., De Michelis: “Tagliare per rilanciare”. Pellicani: “Chi è mancato è il governo”, «L’Unità», 27 maggio 1981).

“L’Alumetal di Fusina raddoppierà?

Rinviamo di tre anni il raddoppio e intanto facciamo funzionare Bolzano. Non chiudiamo l’Alumina ma non la lasciamo così com’è. Facciamo funzionare l’Elemes.

Quindici giorni fa, l’Efim ha chiesto al governo 300 miliardi per finanziare un programma che prevede anche e soprattutto il raddoppio di Fusina; ora lei afferma cose molte diverse da quelle dette dall’Efim...

Ma è una cosa all’italiana; per l’alluminio seguiremo la stessa strada battuta per la siderurgia.

Breda: si “taglia” o no?

Non si taglia in modo drastico se ci si muove subito.

E la progettazione resta al cantiere o no?

Lo sanno anche loro: parte resta e parte va a Monfalcone.

Petrolchimico: si passerà dalle attuali 350.000 tonnellate del cracking alle previste 500.000?

No: il previsto “sbottigliamento” non ci sarà per ora; prima pensiamo al Sud”.

Al ministro risponde Gianni Pellicani allora vicesindaco di Venezia:

“Il ministro è caduto in contraddizione... alludo in particolare all’annuncio dell’abbandono del raddoppio del cracking e dell’impianto Alumetal di Fusina... non c’è tanto tempo a disposizione... ma proprio per questo è necessario che il governo, a cui competono direttamente o indirettamente tante decisioni per Porto Marghera, intervenga tempestivamente in termini precisi e non con programmi e impegni generici”.

Il tentativo di procedere con un progetto territoriale non riuscì appieno ma fu utile per orientare le lotte dei lavoratori veneziani ed evitare di marciare su una logica volta alla difesa dell’esistente. Il progetto servì da bussola non solo per i sindacati veneziani, nelle discussioni e nella formulazione di proposte che, dopo la metà degli anni Ottanta, si realizzarono a livello nazionale.

Fu proprio De Michelis, nella veste di vicepresidente del Consigli dei Ministri, alla fine degli anni Ottanta, a ricordare le motivazioni che impedirono la costruzione di un tavolo negoziale nazionale incentrato su Porto Marghera:

“Le cose avvenute sono state realizzate conseguentemente a un disegno unitario, sia per le trasformazioni dei singoli settori, sia per Porto Marghera nel suo complesso. Un disegno unitario che però ha avuto, per ragioni inevitabili, il suo cuore a Roma. Non per espropriare Venezia delle sue competenze, ma perché gli interventi da realizzare erano collegati a più generali processi di ristrutturazione – della chimica, dell’alluminio, della cantieristica, della siderurgia e quant’altro – che non potevano che essere governati a scala nazionale. Era evidente che necessitava un approccio di tipo verticale, a monte; altrimenti sarebbe stato impossibile sapere cosa fare qui, a Venezia, nelle singole attività presenti nella zona industriale a fine anni Settanta. Ma bisogna ricordare che il piano di trasformazione ha avuto anche un suo collante e un suo coordinamento di tipo orizzontale, in sede locale. E il merito è stato della classe dirigente di questa città”. (12. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, cit., p. 438).

Porto Marghera e centro storico: industria e salvaguardia

Uno dei principali aspetti della complessità di Porto Marghera è l’essere adiacente a una città storica come Venezia. Due mondi distinti e lontanissimi su più piani. Dal punto di vista economico il centro storico è sempre più concentrato nelle attività legate a un turismo in forte espansione, mentre la terraferma vive in buona parte sul reddito creato dalle attività industriali e commerciali. Dal punto di vista “ecologista” addirittura due mondi contrapposti: un’area industriale con possibili rischi ambientali a poche centinaia di metri da un museo a cielo aperto, di storia millenaria, unico e irripetibile. Entrambi i luoghi vivono processi di trasformazione non sempre positivi. In un convegno della Fiom veneziana dell’aprile del 1991 ci si chiedeva, guardando l’esodo dal centro storico di Venezia, se il calo continuo e costante dei residenti non era oramai un processo inarrestabile e, conseguentemente, il ripopolamento di Venezia un obiettivo auspicato ma sempre più distante. Era una visione “catastrofista” dei processi allora in atto a Venezia? A Venezia tutto ciò che non era legato allo sfruttamento della città in funzione turistica già allora scompariva, e il nuovo, necessario per impedire l’affermarsi di una nociva e controproducente monocultura economica, non emergeva. Anzi appariva esplicita, già allora, la tendenza di importanti attività produttive artigianali a riconvertirsi in funzione del turismo. E la tendenza era ancora più evidente se si osservavano direttamente le attività produttive che nel centro storico chiudevano e davano il senso più vero di un processo di vera e propria decadenza. (13. Aiello A., Articoli, interviste, interventi, 1975-2004, Relazione introduttiva al convegno “Quale sviluppo delle attività produttive a Venezia? Ruolo della navalmeccanica e delle tecnologie marine” , Venezia, Ateneo Veneto, 5 aprile 1991, dattiloscritto). Ha ragione Dorigo, quando sostiene che tale condizione è frutto di una scelta consapevole – soggettiva – di una voluta trasformazione genetica? La filiera turistica per prevalere aveva la necessità di spostare dal centro storico verso la terraferma il porto commerciale. L’effetto non poteva che essere l’avanzata della monocultura. È venuta così a mancare nell’economia del centro storico quella logica della “buona miscela” data da attività economiche diversificate, comprese le attività produttive specie se legate al mare. L’inserimento all’Arsenale di Venezia di Thetis, un’attività nata dall’impegno di alcune società (tra cui Tecnomare e Fincantieri) ha rappresentato all’inizio degli anni Novanta uno dei tentativi più riusciti di contrastare la monocultura turistica veneziana. Venezia, è inutile nasconderlo, ha vissuto e ancora vive su alcune “rendite” che finiscono per indebolire gli stimoli imprenditoriali: turismo, porto, università, Casinò municipale, grandi aziende industriali pubbliche, aeroporto, grandi opere infrastrutturali avviate. Ma non va dimenticato che, dal 1973, una legislazione speciale mira a salvaguardare la città storica dal pericolo delle acque alte, dopo le maree eccezionali del novembre del 1966. Svariati miliardi di euro sono stati spesi per la salvaguardia e il recupero di pezzi della città; almeno quattro miliardi di euro saranno investiti nelle grandi opere di difesa. Non manca, però, il dibattito con posizioni contrastanti e l’intervista a Pravatà ne è una testimonianza.

Porto Marghera e Veneto: inconciliabili?

Nell’intervista a Gianni De Michelis sulla inconciliabilità tra l’apparato industriale di Porto Marghera e quello del Veneto, sono affrontate tre grandi questioni.

Primo: vi è stato un “effetto innesco” di Porto Marghera che ha consentito, favorito l’“esplosione” produttiva del Veneto?

Secondo: Porto Marghera, vista come “l’ultima versione della Serenissima”, ha influenzato le scelte degli imprenditori veneti disincentivando una loro “naturale” espansione a Porto Marghera che si riorganizzava? Terzo: Porto Marghera ha davvero nel futuro una funzione così vitale per il Veneto, addirittura per l’economia del Nordest, al fine di evitare che questa «si spiaccichi contro un muro prima ancora di diventare matura»?

Già alla fine degli anni Settanta importanti ricerche rilevavano che era «in corso nella regione una forte trasformazione delle strutture economiche e sociali... sotto forme inedite e sperimentali» (14. Rullani E., C apitalismo periferico e formazione sociale regionale: l’economia del “modello” veneto, gennaio 1979, dattiloscritto). Non si trattava, a detta dei ricercatori, di un’ipotesi di microformazione sociale, compatta al proprio interno e in frizione con altre realtà regionali, ma semmai di un adattamento dell’assetto regionale a prepotenti spinte recepite dall’esterno, a cominciare dai condizionamenti della divisione internazionale del lavoro. Si venivano così delineando concetti come quelli di “formazione sociale territoriale” ed “economia periferica”. Quest’ultimo richiamava quello di “residualità”, inteso come ibrido non analizzabile di sviluppo e non-sviluppo. Ma di quale sviluppo si parlava? Massimo Cacciari, trent’anni fa, così lo evidenziava:

Rifacciamoci brevemente alle strutture che hanno determinato lo sviluppo industriale regionale. I dati di cui disponiamo... ci rivelano una struttura industriale complessivamente assai arretrata, senza vistosi segni interni di squilibrio. Il “dualismo” non passa, cioè, tra piccola industria e industrie a dimensioni medio-grandi (200-1500 addetti). Anzi, il capitale investito per addetto decresce con il crescere delle dimensioni di impresa (ciò che indica un basso livello di capitalizzazione nella media industria e non, relativamente alle altre regioni settentrionali, un alto livello nella piccola); la produttività del lavoro è pressoché equivalente nelle diverse categorie di imprese... È evidente che la relativa “tenuta” dell’occupazione industriale nel Veneto è strettamente correlata a questa struttura diffusamente “arretrata”, a bassa intensità di capitale. (15. Cacciari M., Struttura e crisi del “modello” economico-sociale veneto, in «Classe», 11, 1975).

Successivamente l’evoluzione della struttura produttiva del Veneto ha portato alla diffusione dei distretti industriali «... medium di conoscenza e di relazioni che permette la comunicazione e il coordinamento operativo tra soggetti situati nel medesimo contesto di esperienza (locale)» (16 Rullani E., Distretti industriali ed economia globale, in «Oltre il Ponte», 50, p. 32) e a una straordinaria articolazione dei sistemi produttivi locali, che hanno interessato anche le aree vicine a Porto Marghera. Non esistono, però, ricerche empiriche che documentino, per la provincia di Venezia come per il Veneto, un sicuro effetto “innesco” prodotto da Porto Marghera. Se De Michelis ha ragione, si tratta di una ragione ancora da dimostrare. Si può, a tale proposito, rimanere su un piano intuitivo come fa il direttore dell’Associazione degli industriali di Venezia, Italo Turdò, quando sostiene che avere vicino l’alluminio e le altre materie prime ha permesso a molti nel Veneto di svilupparsi. Più netto è, invece, il parere di Gianni Pellicani, che considera alla base delle condizioni di sviluppo del Veneto non solo l’indiscussa creatività e laboriosità dei veneti ma anche le note condizioni di vantaggio come la manodopera a basso costo, la politica inflazionistica e il deprezzamento della moneta, oltre agli effetti della legislazione degli anni Cinquanta e Sessanta sulle aree depresse. Alle incertezze sull’effetto “innesco” si contrappone la certezza sulla seconda questione: l’imprenditoria veneta non ha finora partecipato, tranne qualche rarissimo caso (come quello dell’imprenditore siderurgico di Vicenza Beltrame che ha rilevato l’ex Italsider di Porto Marghera), al processo di reindustrializzazione del polo industriale veneziano. Infine, sul punto che attiene alle prospettive del Veneto e sul ruolo che in ciò può giocare Porto Marghera, appare verosimile, come vedremo più avanti, ritenere che la riorganizzazione del sistema dei trasporti e della logistica porrà Porto Marghera in una posizione di eccellenza, grazie, innanzitutto, alle sue infrastrutture. Con benefici che possono coinvolgere un territorio più vasto.

Venezia. Ciminiere Ammainate

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