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Gastone Angelin, Porto Marghera e le lotte operaie
ОглавлениеDal 1957 al 1962 segretario della Fiom di Venezia. Dal 1962 al 1972 nella segreteria del Pci di Venezia, prima con lâincarico di responsabile per il territorio di Mestre e poi come responsabile per la zona industriale di Porto Marghera. Dal 1972 al 1975 segretario della Federazione del Pci di Venezia. Dal 1979 al 1987 senatore della Repubblica.
Incontro Gastone proprio mentre è in corso lâintervento militare della Nato in Serbia. Ed è il primo argomento di cui parla. Mi appare sofferente per il dramma umano che si consuma («pagano sempre i più deboli»). Lui che ha conosciuto la guerra e militato da ragazzo nella Resistenza, noto a Venezia per la sua determinazione e coraggio negli anni difficili per la vita democratica del nostro Paese. Nellâanalisi politica, però, è molto lucido e chiaro («Le posizioni di Milosevic sono insostenibili, ma 19 paesi con 500 milioni di abitanti non possono usare armi tanto distruttive contro qualche milione di serbi. Câerano altre strade per indurre Milosevic alla ragione»). Veniamo allâintervista.
Câè qualche fatto particolare che segna il 1970 a Porto Marghera?
Câè un punto fondamentale che, parlando della Porto Marghera degli anni Settanta, bisogna tenere presente: in quegli anni il Pci e il sindacato erano il bersaglio giornaliero di Potere Operaio. Il Pci si muoveva su una linea politica volta allâunità dei lavoratori, della sinistra e con lâobiettivo di realizzare alleanze con i âceti mediâ. Potere Operaio si autodefiniva unâavanguardia che trascinava le masse e che rompeva volontaristicamente le compatibilità del sistema capitalistico, che âingabbiavanoâ la classe operaia. Potere Operaio riteneva partito e sindacato soggetti di una politica âdeviataâ.
Come rispondevano Pci e sindacati a questi attacchi?
Senza concedere nulla. Poi i militanti di Potere Operaio âscopronoâ il ânemicoâ che detiene per davvero il potere e ostacola lâavanzamento della classe operaia: la Democrazia Cristiana e la Confindustria. E parecchi di questi militanti, quando Potere Operaio si scioglie, entrano nel Pci. Si avvia così una nuova fase del dibattito politico, a volte anche aspro, nel partito e nella sinistra sulle prospettive del movimento dei lavoratori e sulla linea politica da seguire per la trasformazione del Paese.
Câè qualcosa che può segnare e caratterizzare la fase che si apre nel 1970 a Porto Marghera?
Bisogna, per forza di cose, andare per un momento al periodo precedente e cioè guardare a come si è sviluppata Porto Marghera. Ed è fondamentale, guardando a questo processo, analizzare e capire la questione dei âPoteriâ. à opportuno iniziare proprio dalla questione del potere, guardando al periodo antecedente al 1970. Noi, parlo del Pci, ritenevamo decisiva la partecipazione dei nostri militanti, e più in generale dei cittadini, alle scelte che riguardavano la vita collettiva e i processi economici; ciò induceva il gruppo dirigente, a partire dal Comitato Federale, a lunghe e appassionate discussioni. Mentre noi discutevamo, però, gli altri, intendo ad esempio la Democrazia Cristiana e la Confindustria veneziana, decidevano e procedevano nel realizzare le loro decisioni, come lâinsediamento in Porto Marghera di industrie come quella, molto pesante, della chimica di base, manifestamente incompatibile con la fragilità dellâambiente lagunare, al centro di unâarea abitata da centinaia di migliaia di persone e a ridosso del centro storico di Venezia.
Erano incontrastati?
Potevano farlo soprattutto perché avevano dalla loro parte i soldi, gli strumenti e il potere politico. Ricordo lo scontro politico agli inizi degli anni Sessanta contro il Consorzio per la Zona Industriale, perché funzionava come strumento di un potere privatistico totalizzante in ordine alle scelte di sviluppo nellâarea dettate da convenienze esclusivamente capitalistiche. Va ricordato a questo proposito il Piano regolatore di Porto Marghera, strumento urbanistico per lungo tempo âautogestitoâ dallâimprenditoria privata. Questo ha indotto altri interventi nel territorio, come quelli gestiti dalla Dc che amministrava il Comune, con cui si è favorita la crescita urbana di Mestre, allora fortemente criticata da sinistra per essere diventata la âcittà dormitorioâ cresciuta in gran parte in funzione di Porto Marghera e favorita dalla speculazione edilizia e sulle aree.
Puoi fare qualche esempio più concreto di utilizzo di questo potere che ha condizionato lâesercizio di quello pubblico?
Nel 1928 è varata la âPrima legge speciale per Venezia e Porto Margheraâ e riguarda lâarea Bottenighi. In questa legge vi sono dei punti importanti. Uno di questi riguarda le cosiddette âautonomie funzionaliâ ovvero la possibilità per le imprese di usare in proprio le banchine portuali della zona industriale, per lo scarico delle materie prime e per la spedizione dei manufatti prodotti. Questa possibilità era nettamente alternativa allâuso delle strutture pubbliche del porto e degli addetti della Compagnia Lavoratori Portuali, che operavano in porto. Di fatto si è affermata una logica di monopolio privato supportata da una legge dello Stato.
Un altro punto importante?
à lâaffermazione che strumenti di programmazione territoriale vengono sottratti ai poteri pubblici e gestiti direttamente dagli imprenditori privati. Ciò vuol dire che sullâarea dove è previsto lâinsediamento di aziende loro hanno piena libertà di fare e disfare, senza alcun controllo pubblico. Immaginiamo quanti guasti ha creato questa condizione? Senza questa gestione del potere privato sarebbe stato possibile costruire unâaltra Porto Marghera? Trovo legittimo porsi questa domanda.
Come si è agito per contrastare questo âstrapotereâ dellâimprenditoria privata?
Il nostro dibattito non ha avuto un andamento sempre lineare, influenzato, come è ovvio, da altri soggetti. Vi erano in campo diverse proposte: per esempio quella di Italia Nostra che, fino al 1964-65, sosteneva una linea di sostanziale conservazione dellâesistente, comprensibile se volta a ostacolare un pesante processo di manomissione dellâambiente, ma che non poteva essere condivisa in quanto appariva contraria a ogni ipotesi di sviluppo industriale, anche se compatibile. Poi vi erano le posizioni degli industriali sostenute da parte della Dc, che volevano lo sviluppo del polo industriale. Unâaltra parte della Dc sosteneva lâidea di realizzare âuna fabbrica per ogni campanileâ, una logica, cioè, di sviluppo diffuso che finiva per produrre unâeccessiva polverizzazione e quindi un indebolimento del tessuto industriale.
E la sinistra?
Infine vi eravamo noi del Pci che, con parti importanti del Psi (escluso De Michelis, sensibile allo sviluppo della chimica) e il sindacato, proponevamo un decentramento degli insediamenti industriali in varie località della provincia, compresa naturalmente Porto Marghera, considerate le condizioni economiche e sociali e le compatibilità ambientali delle diverse aree. Una simile linea di sviluppo chiamava in causa la necessità di una âprogrammazione democraticaâ dello sviluppo economico della provincia di Venezia e di unâarea ancora più vasta.
Cosa è successo nel 1966?
Incominciano a farsi sentire gli obiettivi sociali. Fino ad allora i comunisti erano contro le leggi speciali, perché, come abbiamo visto dal 1928, finivano per essere strumenti nelle mani dei padroni, usati a loro esclusivo vantaggio. Lâacqua alta del â66 a Venezia ci spinge a uscire dallo schema legge speciale sì-legge speciale no. Il dibattito si apre sul tema: quale legge speciale? Non solo questioni economiche ma anche sociali. Ciò significa, per Venezia, ad esempio, quale politica per la casa? Quale risanamento conservativo? Come stimolare processi di rivitalizzazione sociale ed economica? Come intervenire per assicurare in futuro lâesistenza fisica di Venezia? E quale politica per le attività produttive? E mentre per Venezia si apre questo tipo di discussione, si incominciano a sentire gli effetti della ârivoluzione agricolaâ.
Puoi entrare nel merito di questâultimo argomento e, soprattutto, che rapporto vi è tra agricoltura e Porto Marghera?
Si può affrontare questo argomento dal punto di vista della manodopera. Lâagricoltura negli anni Sessanta è stata oggetto di un processo spinto di meccanizzazione. Le macchine hanno provocato lâespulsione di braccianti e mezzadri dallâagricoltura. Si è resa, così, disponibile una notevole quantità di manodopera a basso costo. Per le stesse famiglie contadine lâimpiego di mariti e figli a Porto Marghera ha significato più soldi disponibili e in più il fatto che il reddito familiare proveniva da fonti diversificate e non più dal solo lavoro nelle campagne. Cambiavano così in meglio le condizioni di vita. Vi era quindi una spinta dei lavoratori prima occupati in agricoltura per lavorare a Marghera, vedevano in ciò un miglioramento delle loro condizioni. Questo era utilizzato dalle forze che operavano per lo sviluppo del polo industriale.