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I.

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—Il dottore era questa notte colla Giovanna,—disse la Ghita.

Ida non si mosse.

—Ci vuole proprio il coraggio di un dottore; già, sono come i beccai, che ammazzano i vivi e sparano i morti. Anche sabato lo incontrai, che ritornava dal camposanto; aveva aperto Tonio. Erano dietro il vicolo dei Cappuccini: la ho riconosciuta, deve essere in ultimo.

In quella un magnifico gatto, nero come di onice, con una fettuccia rossa per collarino, entrando dalla porta socchiusa della cucina venne a saltare sulle ginocchia di Ida, e vi si allungò non senza tentare e ritentare prima mille pose. Stette così qualche secondo, poi avvallandole nelle sottane, e battendogliele carezzevolmente colla coda grossa come una coda di volpe, ne accompagnava ogni movimento con una voluttuosa trepidazione di orecchi.

Le due donne si distrassero un istante ad osservare il lascivo benessere del bell'animale, e la Ghita proseguì:

—La può fare quello che vuole, ma non la sposerà, lei.

—Lei chi?—proruppe la fanciulla schizzando dagli occhi un baleno.

—Lei, la Giovanna. Io non lo guarderei più in faccia un uomo, che dopo mi facesse un simile tiro e mi cacciasse di casa; ma il buono era di non guardarlo prima, allora. In ogni modo le darà venti scudi, metteranno il bambino all'ospedale, e chi si è visto si è visto; ci vedremo al secondo.

—Badate, avete fretta,—disse l'altra.

—Lo so, vado a tirar l'acqua.

—Anzi, ricordatevi la catinella per il bagno di questa notte.

—Già, già,—mormorò con crescente malumore, voltandole le spalle:—il bagno prima di andare a letto! Può fare quello che vuole, ma avrà da fare un bel pezzo prima di avere la pelle bianca: c'è della tela che si rompe prima.

Ida era rimasta alla finestra, con una mano accarezzando la grossa testa del gatto, lo sguardo incantato al di fuori. Intese il tinnìo vibrato dei secchi, che si urtavano nella camicia del pozzo, lo stridere lamentoso della carrucola, l'urlo del catenaccio al chiudersi della finestruola: quindi la Ghita ripassò nella cucina con passo lento ed affaticato per riempire la catinella su al piano superiore, ridiscese e tirò ancora due secchi d'acqua. Le sue scarpe grosse, guernite di chiodi montanari, risuonavano sul pavimento col rumore degli zoccoli da conciapelle, mentre sotto la gonnella rattratta sui fianchi le si scoprivano due stinchi grossi, nudi, di un colore incerto e di una disgustosa evidenza. Ida gettò un'occhiata a quei piedi sformati dal lavoro e dagli anni, e raddrizzando lo sguardo parve non accorgersi di altro.

La sera calava lenta e buia. Gli alberi, nudi sulla altura di contro, lasciavano ancora cadere qualche foglia morta sul terreno, dove tante altre foglie morte erano già cadute; il cielo non si vedeva, ma doveva essere fosco, senza malinconia e senza infinito, uno di quei cieli autunnali, che paiono partecipare della miseria e della volgarità della terra. Nella cucina gli oggetti si discernevano appena. Le pareti imbrunite dal fumo e dalla sudiceria sembravano divorare la poca luce della finestra; negli angoli del muro aperto dalla finestra la tenebra si ammucchiava; la madia non era più che un'ombra più nera, coi contorni meno indecisi, e sovra essa i candelieri, mutandola quasi in un altare, lottavano ancora colla invadente oscurità ad aurati e cangevoli sorrisi. Più in alto, in giro, nella parete di contro al camino, gli utensili di rame allineati scrupolosamente accendevano alla fiammella del focolare qualche largo riverbero, che si risolveva in una tenebria più densa, mentre una torma subitanea di scintille, infilando tratto tratto la bocca spalancata del camino, scompariva mutamente.

La cucina aveva un povero aspetto malgrado quel buio. I rintocchi dell'avemaria palpitarono lontani, e non riscossero la fanciulla.

Stava seduta, il gomito sul davanzale, e il gatto sulle ginocchia. Il breve cortile della casa, chiuso da una funebre siepe di mortella qua e là rattrappita dalla vecchiaia, era ancora più triste della cucina e più fosco del paesaggio vespertino. Un fico sciancato e brullo batteva con un braccio alla finestra come un mendicante, un altro più discosto e più povero si appoggiava al muro o ne sporgeva; il terreno era pesto, ignudo, se non se in un canto un cespo di ortiche, presso un mucchio di cenere bollita, grigie della polvere muffosa caduta dall'intonaco, aggiungevano la tetraggine di un altro verde al verde cupo della mortella.

La fanciulla sospirò.

—Dorme?—chiese alla Ghita.

—Sono passata per la camera in punta di piedi, e non si è destata nemmeno al rumore dei secchi. Poveretta! almeno adesso dorme.

—Vuoi andartene?

—Se non c'è più nulla da fare.

Ida andò alla madia, ne alzò il coperchio, che rattenne sopra una spalla, trasse un grosso pane, un formaggio di pecora ed un coltello. La Ghita, poichè si trattava della cena, si era appressata premurosamente, e girava gli occhi dal coltello al formaggio coll'ansietà male dissimulata della povera gente, la quale sa purtroppo come sia facile tagliare da un piccolo formaggio una piccola fetta e credere di averla tagliata anche troppo grossa. Ma Ida lasciò ricadere il coperchio, vi posò sopra ogni cosa, e piantando la punta del coltello nel mezzo del formaggio vi premè con tutto il peso del corpo per romperlo.

—Verrà il dottore questa sera?

—Probabilmente.

—Quasi quasi, se non avessi da andare lontano, mi fermerei ad aspettarlo: ho il bambino grande, che non vuol mangiare più nulla; non gli piace nemmeno il pane bianco.

Ida levò il capo.

—Bisognerebbe esser signori e pagargli sempre del companatico; allora forse... Ma già, i bambini dei poveri... se non mangiano! tanto peggio, moriranno.

Però l'accento di quelle desolate parole era troppo smancerato, e la Ghita ne sbirciava l'effetto sul volto della padrona, sempre sospesa col manico del coltello nel pugno.

—Ehi? per me poi! Ognuno ha le proprie disgrazie;—e tese la mano per ricevere quella porzione di cena, quasi nella fretta di andarsene; ma Ida le accennò il pane sulla madia, presentandole il formaggio sulla punta del coltello.

—E lei?

All'acuta ed involontaria ferita Ida drizzò fieramente la testa: fu un lampo.

—Io te lo do.

—Grazie, grazie proprio, la mia signora. Ah! io già non posso dir niente: il Signore le ne renda merito. Lo tengo tutto per lui! poverino... Dica: non ha proprio bisogno di niente? Perchè... se ha bisogno...

—No, andate pure.

—Vuole che accenda la candela?—insistè.

—Non importa.

—Allora...

—Ma no,—interruppe senza voltarsi la fanciulla, cacciando un sospiro di noia.

La Ghita si guardò tuttavia attorno, riordinò due bicchieri presso una boccia, schiacciò contro il muro il fascio della legna, si torse ancora sull'uscio verso la fanciulla, ed augurandole la buona notte uscì.

Nella cucina era già buio, e fuori la sera si abbuiava. La fiammella del focolare riappariva più rada e più piccola, i candelieri di ottone si erano spenti, gli utensili di rame non esistevano più; appena appena nell'oscurità un'ombra più densa faceva sospettare che in quel vuoto tenebroso vi fossero dei corpi. Nel cortile la sera pigliava del lividore, forse dalla terra e dai muri della casa, o forse i vetri della finestra la rendevano ancora più triste. Era una sera meschina come quel cortile; quel cortile non confinava con nessun mondo: non monti dalle cime bianche ed azzurrine, non campi dai lunghi filari denudati e col terreno pettinato dai denti del rastrello, non una strada che conducesse persone o pensieri ad una meta, non una voce che respingesse quel silenzio, non una forma di vita, che alterasse quella piccola e smorta desolazione.

Ida pensava; la fronte contro la palma, il mento innanzi, la faccia inverdita dal chiarore dei vetri, era fuggita dalla finestra di quella cucina in un altro mondo lontano; ma improvvisamente tutta quell'ombra le si infittì intorno e, fluttuando, la sommerse.

Quindi si mirò dappresso, quasi a riconoscere il luogo. Il buio si poneva invano fra gli oggetti, giacchè l'anima riconoscendoli si urtava in loro. Ella si rammentò ora l'aspetto del cortile, gli altri oggetti nel giorno, quando il sole saliva la curva del meriggio e discendeva la curva del tramonto; era sempre un cortile grande come un tavolone d'osteria, brutto di gibbosità, col terreno troppo calpestato. La siepe di mortella nella propria poetica miseria lo rendeva ancora più miserabile, con quei due fichi, e in un canto quei due cespugli di ortiche, i soli viventi, in un altro un fascio di legne racimolate dalle donnicciuole e vendute per pochi soldi in piazza, i cadaveri di quel cimitero. Si rammentò che non vi scendeva mai a passeggiare, che non si era mai seduta sopra quei due sassi composti a panchina presso il fico della finestra; poi la Ghita che portava nel cortile tutte le immondizie, tutte; il disgusto degli occhi che la vinceva sul disgusto del naso, certe forme, certe cose tutto il giorno sott'occhi, e chiunque entrasse nella cucina, cacciando lo sguardo dalla finestra, le vedeva in una specie di fossa poco imbottita di felci secche. Anzi una volta, discendendo le scale, aveva inteso una grottesca allusione del calzolaio colla Ghita: ella avrebbe voluto piangere e non lo potè, perchè non si piange di umiliazione. Il pudore della morale ha ferite, delle quali il solletico compensa lo spasimo, quello della vanità mai.

Quel cortile era la definizione di quella casa.

Ida gli voltò le spalle. Un guizzo della fiamma illuminò istantaneamente la cucina, e tutto riapparì; la madia coi candelieri lucenti, il vecchio armadio butterato, enfiato, coi quattro sportelli, che senza la serratura sarebbero cascati come i petti di un soprabito frusto, gli ornati della sua cimasa fracassati, quelli dei piedi mangiati dai topi, dai gatti, forse dall'acqua, dalla scopa.

—Certi armadi conservano male la biancheria,—aveva detto un giorno la Ghita colla Veronica, la moglie dell'oste, vendendole alcuni lenzuoli fini per conto di Ida. La Ghita aveva ragione. In seguito aveva venduto altre cose della cucina. Per esempio nella batteria dei vasi di rame v'erano dei vuoti e molti; quelli rimasti avevano una brunitura (Ida la vedeva al buio) appannata dal tempo e dall'ozio. E girando sempre lo sguardo, lo fermò nel muro sopra il ceppo a treppiede; un filo di ferro, rattenuto da due chiodi, vi sosteneva fra gli altri un coltello lunghissimo e bianco. Una volta questo serviva ad ammazzare i porci. Il pensiero della fanciulla si posò alquanto su quella lama, vi si strofinò, ma il freddo del metallo brunito le diè i brividi, costringendola a staccarsene.

Era caduta nella solita meditazione. Adesso si sentiva freddo. Si alzò: quindi camminando al buio colla sicurezza del cieco, cui la memoria è luce, si appressò al focolare, e si sedette sopra uno sgabello di legno greggio.

—Le sei e un quarto!—mormorò con voce avvilita, consultando l'orologio.

La sua immaginazione sfuggì di nuovo alla realtà di quella cucina, ma il luccichio dei carboni l'attrasse ancora. Ella vi si affisò, e quasi l'allegria di quei colori labili e dolci le si apprendesse all'anima, schiuse le labbra, e tutto il volto le si schiarì di una bontà quasi insolita. Allora, colle molle, pazientemente, levandoli ad uno ad uno, cominciò ad alzare i carboni in un mucchio conico ed ardente, e si disponeva a disegnare sotto di essi un terrapieno colla cenere, quando due colpi battuti sopra il soffitto la sorpresero. Le sfuggì un moto involontario di spalle. I colpi si ripeterono, si alzò, respinse il gatto, rattenne un carbone, l'ultimo, sulla cima, che cadeva, e la mente tuttavia preoccupata da quel giuoco irriflessivo, salì due rami di scale, spinse una porta socchiusa.

—Non avevi inteso?

—Sì.

—Ahi!—esclamò l'ammalata portandosi violentemente la mano al costato destro:—ma che cosa ho mai fatto io?—E, abbandonando il capo sulla testiera del letto, chiuse gli occhi. Furono pochi secondi.

—Che ora è? dammi un po' da bere.

—Che cosa volete, mamma?

—Ah! lo so, non ce n'è più. Se invece di studiare tanto, avessi fatto la sarta, a quest'ora potevi pagarmi di quel vino santo.

L'ammalata agitava smaniando la testa. Ida si sedette al capezzale, ed appoggiando un gomito sulla sponda del letto, si premè la pezzuola contro il viso. La stanza era piccola, l'ambiente tiepido ed umidiccio. Un'afa nauseante, quasi che la viscosità del respiro dell'ammalata pesasse nell'aria, sembrava umettare le pareti scalcinate negli zoccoli ed illuminate fievolmente da una candela di sego per terra, in un angolo, entro un imbuto di carta. Il letto restava al buio, ma sebbene la sera fosse appena incominciata, la camera aveva già l'atmosfera della notte. Ida, curva sulla coperta, colle spalle negli orecchi come per resistere all'oppressione di quel puzzo, che il caldo sembrava liquefare all'aria, aveva chiuso gli occhi respirando violentemente nella pezzuola.

—Mi dà fastidio,—disse l'ammalata accennandole la pezzuola.—Ma non ti si può dire più nulla! Non hai quattrini, e compri degli odori! Dove vai adesso?—proruppe.

—Giù a cena.

—Torna, mangerai qui; mi lasciate sola tutto il giorno!

Questa volta la fanciulla si sentì barcollare, gli occhi le si velarono, la ruga verticale della fronte le riapparve con severità quasi minacciosa. L'ammalata continuò:

—Hai dato un quarto di formaggio alla Ghita? Puoi cenare coll'altro quarto. Ma già, tu hai il palato fino di una signora, e il formaggio di pecora... Che cosa fai lì, ritta?

Ida scosse una spalla.

—Sì, hai ragione che sono ammalata, se no... Vergogna! abbandonare la propria madre vecchia... Disgraziata, pettegola!...

Ida giunse a mettere l'uscio fra sè stessa e quegli improperii, ma scendendo le scale udiva sempre la voce fessa dell'inferma, adesso stridula dalla stizza, che le lanciava dietro sconce ed inintelligibili parole. Era stanca, insopportabilmente tediata. Cadde sulla prima sedia, la fronte nelle mani, contraendo convulsivamente le dita come per strangolarvi inutilmente una idea importuna; poi si levò di scatto, e si riassise presso la candela di sego.

—Più il fumo che la luce, più il puzzo che il fumo, come la mia vita!—mormorò.

Quindi chiamando il gatto dal focolare, dove dormiva, si dispose a cenare. Andò alla madia, ne cavò un mezzo pesce, piccolo, ed un grosso pane casalingo.

—È merluzzo, non ti piace?—disse al gatto, accarezzandolo sul dosso;—non piace nemmeno a me. Io mangio il pane asciutto e bevo l'acqua. Hai sete anche tu?—aggiunse riempiendogli dalla boccia un secondo bicchiere.—Via, Atta Troll; la tua padrona te lo accomoda, mangia, mangia!

Infatti il gatto cominciava a mangiare, ma a bocconi così piccini, e fiutandoli talmente prima d'inghiottirli, che nessuna fra le persone meglio educate del villaggio avrebbe saputo imitarlo, mentre tutti i suoi pari avrebbero per un simile cibo commesso più di un furto e più di un duello. Ella lo osservava col pane intatto nella mano: poi lo ruppe, e ne ingoiò qualche briciola. Non andava giù. Era sola, ascoltò, attese senza intendere alcuno, aperse quasi la finestra, ma si pentì. Sul cortile, a che pro? Il gatto, trangugiata l'ultima spina, si era disteso presso il pane smezzato, leccandosi il muso colla indolenza di chi in fondo ha ben mangiato e si prepara ad una buona digestione. I carboni del focolare nereggiavano spenti nella cenere; la cucina appariva in tutta la propria sudiceria, piccola e muffosa. V'erano tre sedie spagliate.

Ella si raccolse ancora, ma la tristezza le diventava così orribile, che fortunatamente fece uno sforzo per vincersi; quindi afferrando bruscamente Atta Troll, spense la candela di un soffio, risalì le scale, e rientrò nella camera della ammalata.

—Dammi il gatto,—questa le chiese, vedendola aprire la porta dell'altra camera.

—Non ci vuole stare con voi.

—Come te.

—Eccolo.

Ma Atta Troll, invece di saltare a terra come gli ordinava la fanciulla, le montò sulle spalle sdraiandosele sul collo, così che colle quattro zampe le batteva sul seno.

—Lo vedete.

E senza attendere altre parole, sparve dietro la propria porta. Accese il lume a petrolio sul tavolo in mezzo, sedendosi entro una vecchia poltrona di paglia. La camera, povera, era però assai meno brutta delle altre. Aveva le tende bianche e un cortinaggio bianco al lettino di legno, servito dinanzi da un piccolo tappeto di lana, con due pantofole turche, due lavori di Ida fanciulletta. Nessun quadro pendeva dalle pareti o sul letto, ma parecchi libri erano allineati in due scansie portatili e molti ancora ingombravano una specie di scrittoio nel mezzo. Tutti gli altri mobili erano miserabili, le pietre del pavimento rotte qua e là, il soffitto a travicelli fiorati. Ma quella camera, così povera, tuttavia sentiva la donna giovane cogli istinti mondani e le abitudini del pensiero. Un forte odore di muschio, svaporando da una lunga bottiglia azzurra sulla toeletta, formata da un tavolo coperto da un paglioncino candido a fodera di mussola rosea, profumava ogni cosa, mettendo come una blandizie di poesia in quella indigenza, che la cura minuziosa e delicata del letto salvava da ogni basso presentimento.

Ida era seduta al tavolo leggendo Il Principe di Machiavelli in una antica edizione. Ma la fredda sapienza del libro le venne presto a noia, e mutò lettura, cacciandosi attraverso il Conflitto fra la Religione e la Scienza di Draper. Quelle vaste ed aride negazioni le piacquero, sebbene già le conoscesse; poi aperse ancora le Rivoluzioni d'Italia del Ferrari, scorrendole a sbalzi, meditando qualche pagina, postillando qualche pensiero. Pareva che volasse d'idea in idea coll'agilità di un uccello di albero in albero.

Però in mezzo agli studi s'andava distraendo, e allora ricompariva la fanciulla della cucina, dallo smorto pallore e dagli occhi fissi; una smania forse male avvertita dalla coscienza le irritava tutti i nervi, un vapore di sogni le bagnava la fronte illuminata come una vetta da un astro misterioso. In una di queste distrazioni il rumore di un passo sui ciottoli della strada le percosse l'orecchio. Il passo non s'allontanava; era un passo insistente e solitario nella notte.

Ascoltò, poi levandosi prestamente andò a guardare per i vetri.

Un'ombra avvolta in un mantello passeggiava innanzi la sua casa allo scarso lume di un fanale poco lontano; sembrava spiare la sua finestra, poi scorgendovi forse la fanciulla si arrestò. La notte era così buia, che la strada ancora umida dalla pioggia del mattino, si discerneva appena per un cinquanta passi, aperta dal raggio del lampione, che vi si acuminava in una punta indeterminabile. Quel solco radiante di luce all'ingresso del villaggio, simile al ferro di un'immensa alabarda corcata, della quale il tronco fosse la strada e che passasse fuori fuori il paesello, attirò il pensiero della fanciulla. Dalle sue spesse pozzanghere pareva guizzassero ogni tanto baleni, mentre una folla di ombre vaganti nel silenzio delle tenebre si abbatteva lentamente sulla sua sponda. Era un'immaginazione determinata da effetti ottici, facile e seduttrice di mistero. Ella non vedeva il fanale, sapeva lì presso il villaggio, e poi intorno tutto il mondo remoto, adesso tenebroso; e nell'universo non rimaneva altra luce che quella coda di ruscello all'ingresso del villaggio, nella quale si tuffava paradossalmente lunga la figura immobile del passeggiero notturno.

—Imbecille!—ella susurrò, urtandolo colla fantasia tutta piena di sogni.

Ma non lasciò la finestra, anzi si fisse in lui come se volesse leggergli negli occhi malgrado la distanza e l'oscurità, così che l'altro adoperandosi forse dal canto proprio nella stessa guisa, una corrente di pensieri li congiunse. Ma il rumore di un passo, che si avanzava dal villaggio, riscosse l'incognito, obbligandolo a riprendere la passeggiata.

Ida intese lo stridìo dei grossi chiodi sui ciottoli, ed indovinò un villano nell'ombra che passava; all'orologio della piazza suonarono le dieci.

L'incognito ritornava, che ella si tolse dalla finestra. Quindi si fece anche più scura, e consultò l'orologio nella speranza che quello del comune si fosse sbagliato. Erano le dieci, l'ora terribile della sua giornata. Sembrava non potervisi risolvere, quasi la lunga abitudine non avesse ancora calmata la irritabile sensibilità della sua natura.

Poi il bastone di spino bianco percosse il pavimento, e la fanciulla si slanciò nell'altra camera colla torva rassegnazione di chi si precipita contro il male, per non poterlo altrimenti evitare. Lo stoppino carbonizzato della candela lasciava la camera in una semi-oscurità tetra; il fetore vi si era fatto più umido e più denso. Ida andò diritta al letto. L'ammalata colla testa sopra una spalla come tutti gli infermi, e le spalle appoggiate ad un cuscino, guardava col busto mezzo fuori da un mucchio di coperte e di lenzuoli quasi dello stesso colore. Aveva le mani incrociate sul ventre; le braccia come due fragili e scure stazze le si perdevano sotto le maniche rappezzate.

Ida evitò di guardarla, dispose la pezzuola, le filacce, il barattolo della pomata presso la piattellina verde con dentro la spugna, esaminò le due foglie di cavolo, e si torse verso la malata.

—Proprio?!—questa domandò, vedendola prendere dalla sedia una tovaglia sporca. La fanciulla non rispose.

—Oh Dio!—fe' l'altra, lamentandosi di una fitta.

Adesso era tutta rabbonita e guatava con occhio pietoso il viso severo della fanciulla. La quale le portò la mano al collo riversandole la camicia sulle spalle; le filacce aggrumate sotto il piccolo cencio di tela lo seguirono, e si scoperse il seno. Non somigliava più a nulla. Un'enorme macchia rossastra, stendendosi dalla mammella destra scomparsa, aveva guadagnato tutto il costato insino alla clavicola, sino all'altra mammella, inesprimibile rimasuglio, e giù sino alla cintura. Le clavicole, come spostate da uno sforzo, erano salite fra i tendini rattratti del collo; la pelle si era chiazzata nello stiracchiamento, rigandosi di minimi solchi, finissimamente rugosi, flaccidi ed incerti. Il resto non si vedeva più, ma sotto le ascelle e sopra le ascelle, fra le spalle grugnose, si sprofondavano due buche, sulle quali l'ammalata piegava ogni tanto la testa, così piccola nella macilenza, che vi si sarebbe quasi nascosta. Anche gli uccelli ammalati la nascondono sotto le ali.

Ida le adattò la tovaglia alla cintura, ed insinuandogliene una punta sotto l'anca, con uno sforzo visibile su sè medesima staccò leggermente quel groppo di filacce, che imboccava l'ulcera. Le quali avendo troppo aderito alla carne viva si scissero. Le sue mani, quasi più belle in quel momento, coi mignoli alzati e le unghie rosee, tremavano nella disgustosa operazione, cercando uno per uno quei capi bianchi fra il glutine della cancrena, mentre un odore rivoltante le batteva il respiro e l'ammalata gemendo tentava di sottrarre la piaga.

—Coraggio!—mormorò la fanciulla, rialzandosi vivamente per non soffocare. I loro sguardi s'incontrarono, quello della vecchia spento e supplichevole, quello di Ida febbrile di animazione.

—Sporgete il petto,—le disse aiutandola con una mano al dosso:—così...

—No, oh mio Dio!

Ida le stava già sopra colla spugna inzuppata d'acqua.

—Madonna mia! mi raccomando! datemi voi un po' di forza,—gemè congiungendo le mani.

—Sì, sì, pregate.

L'acqua sgocciolò nel vano cavernoso battendone, strappandone i filamenti imputriditi, trascinandoli giù per il rossastro del seno fra un rigagnolo di marcia; ma alcuni non si spiccavano, lacerati dall'urto dell'acqua, movendosi come cespi d'erba alla foce di un fosso. L'ammalata, il labbro inferiore fra i denti, soffocava le grida del dolore.

—Conduce, conduce?—balbettò con un timido accento di speranza.

—Sì.

—È meglio, non è vero?

L'altra non rispose.

—No, no, basta;—supplicò, vedendola bagnare un'altra volta la spugna. Infatti la piaga era già lavata, e l'ulcera, larga quanto il buco di una palla, appariva di un rosso anche più bruno, colle labbra stracciate proprio dove altre volte sorgeva la punta della mammella. Un pensiero commosse la fanciulla; ella vi si era sospesa bambina, e la sua bocca, allora fresca come il calice di un fiore, aveva lungamente baciato la punta di quel seno, sprofondatosi poi in un'ulcera. Vent'anni fa! Adesso la donna inorridiva della delizia della bambina.

Ida era rimasta cogli occhi nel volto della madre.

—Perchè non ce la vuoi mettere un po' di carne? Intanto che si divora quella, non mangia la mia.

—Pregiudizio! ve l'ho pur detto.

—Però fa bene: la piaga mangia pure. Ah!—strillò, sentendosi premere nella piaga il groppo delle filacce asciutte. Ma Ida precipitò il resto della medicatura; spalmò qualche grano di una bianca pomata intorno al cratere, vi spianò sopra una grossa foglia di cavolo, la ricoperse colla pezzuola, e, riaccomodandole al collo la camicia, la ricinse col lenzuolo. L'inferma era di un pallore orribile, colla fisonomia stravolta, quasi senza espressione sotto quella stretta; solo il labbro inferiore, tremolo di spasimo, lasciava passare ancora un soffio di vita.

Ida s'incantò in quell'ineffabile spettacolo di strazio. Non sentiva più il puzzo, non aveva più schifo.

Quella donna era sua madre, sua madre moribonda, moritura di dolore. Un impeto d'amore le irruppe dal cuore inondandoglielo di una tenerezza refrigerante; e stava già per lanciarsele al collo, rattenuta solo dal timore di farle male, quando l'altra agitò lievemente la testa, aprendo gli occhi.

—Lì incantata a vedermi soffrire, invece di metterti in ginocchio e pregare la Madonna, che mi passasse! Ho quasi fede che tu ne goda.

—Oh!—mormorò la fanciulla, sentendosi afferrare rabbiosamente la gola da quel tumulto subitaneo di amore e palpitare le lagrime negli occhi. Fu un attimo; quella esaltazione le rovinò sul cuore, e la abbattè.

—Disgraziata!—susurrò ancora l'inferma, questa volta riassalita dai soliti dolori, ma con meno violenza.

Ida la considerò, e non riconobbe più la martire di poco prima. Riabbassò il volto, si girò attorno un'occhiata di esame, e lenta, sulle punte dei piedi, pallida, affranta, ritornò nella propria camera senza darle nemmeno la buona notte.

Il gatto dormiva sul letto.

Andò a sedersi sulla sedia presso il capezzale, reclinandovi la fronte. Avrebbe voluto piangere, ma la tempesta dei sentimenti era così furiosa, che non lo poteva. L'amarezza dello sdegno vinceva in lei la pietà del dolore. Di quando in quando un lamento angoscioso sorgeva dall'altra camera, senza che la fanciulla lo avvertisse, poichè si lagnava ella medesima. Il suo pensiero urlava in quella tempesta colla disperazione del marinaio, che insulta l'uragano troppo tardo ad ingoiarlo, la raddoppiava, la inferociva; le tenebre non erano abbastanza nere, i lampi abbastanza sanguigni, e la folgore brontolava appena come un cane da pagliaio. Avrebbe voluto che le onde fossero state di piombo, che le raffiche avessero avuto la ruina delle onde, per ruggire in quella procella, disperdervi il mondo, disperdendovi sè stessa. Le nubi addensatesi nella lunga sera si squarciavano d'un tratto, risolvendo tutto il temporale in uno scoppio. Quindi le pareva che i giorni della sua vita le piovigginassero sull'anima come sopra un cadavere, così che ella poteva contarne tutti i colpi, mentre un gran volo di corvi dagli occhi gialli le passava sulla testa e, mozzandole col vento delle lunghe ali il respiro, si allontanava.

Che le importava di morire?

Da gran tempo vestiva sempre di nero, portando così il lutto della propria giovinezza. Morire...; poi tutti i cancri non sono al petto, ella ne aveva uno nell'anima.

—Morire,—ripetè levandosi nell'attonitaggine della prostrazione:—per causa di lei?!

Invece andò alla finestra; il fanale apriva sempre nella strada quel solco lucente, vi si incantò.

—Pare un pugnale piantato nelle tenebre.

A poco a poco il vento di quella tempesta si acquetava, ma, riacquistando la coscienza della realtà, ella non conosceva quasi più la propria camera. Le pareva più piccola e miserabile, una vera prigione, nella quale l'avessero chiusa tutta la vita per rubarle nel mondo la fortuna di un trono. E allora un orgoglio smisurato le gonfiò il cuore, una nebbia di iridi le avvolse il pensiero, mentre il pensiero le si drizzava come un serpente sulla coda. Pallida, le narici frementi, guardò attraverso il muro di sassi il letto della mamma atteggiata di sofferenza, poi dilatando le pupille passò oltre, si spinse al di là, nel buio, come il raggio del fanale, alzandosi sempre, crescendo di statura; e quando fu gigante, col fremito dell'onnipotenza nei muscoli, col coraggio dell'infinito nel cuore, e i suoi occhi ebbero sfondato il mistero della paura, vinta la paura del mistero, erse la testa e, scrollandone poderosamente i ricci più neri della notte, con un gesto pazzo, titanico, sublime, scagliò nell'avvenire, invano minaccioso di oscurità, il guanto del duello:

—No.

c25

No

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