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IV.
ОглавлениеQuando Jela ebbe nove anni, la misero in un convento di monache, e le due fanciulle si divisero piangendo. Jela singhiozzava disperatamente, supplicando la sorella ad accompagnarla, ma quantunque il conte avesse potuto acconsentirlo, incaricandosi della spesa, non osò parlarne coll'ingegnere. Nè Ida d'altronde si sarebbe piegata a quella esistenza oppressa e malaticcia dei conventi, colla monotonia delle occupazioni e la fastidiosità religiosa degli insegnamenti. Pianta robusta, ella aveva d'uopo di vento e di sole; meglio la cima combattuta di una roccia, che la calma tepente di una serra.
Ma per quanto si sforzasse a dissimularlo, Ida avea i goccioloni agli occhi. L'ingegnere, il conte, una vecchia zia, la vecchia cameriera, il domestico di confidenza del conte, erano tutti presenti agli addii nel cortile, dove attendevano la solita superba carrozza e la carrettella dell'arciprete, giacchè le due sorelle, e si capiva ai veicoli, si dividevano per due mondi diversi.
Jela trasse Ida in disparte, la fece entrare in un salotto al pianterreno, poi costringendola a sedersi sopra un divano le saltò al collo, e facendosi così grave, che l'espressione dell'affetto le ricomponeva il viso travagliato dal pianto:
—Mi vorrai sempre bene?—le chiese.
L'altra se la strinse al petto.
—Mi scriverai sempre, e dopo staremo insieme, sempre.
—Sempre!—e un melanconico sorriso contrasse le belle labbra della donnina:—Tu non sai...
—Lo so, me lo ha detto la Nencia,—rispose coll'adorabile importanza dei bambini, che sentono di fare qualche cosa di serio:—starai sempre con me; giuralo.
Ida giurò sorridendo, e Jela, che indovinava a mezzo quel sorriso:
—Sì, vedrai: mi vuoi bene?—e tornò a piangere.
Quindi rientrarono nel cortile. Jela smontò ancora dalla carrozza per salutare la sorella, ma la vecchia zia sbuffava, il conte s'impazientiva, la cameriera faceva gli occhiacci a Ida, la quale se ne accorse e disse all'altra con un bacio all'orecchio e il volto soffuso di rossore:
—Basta, s'inquietano.
Avea il cuore oppresso; in quella carrettella le pareva di soffocare, ma la carrozza non partiva. Vi era sempre qualche fagotto da accomodare, qualche oggetto di Jela dimenticato negli appartamenti che i servi portavano correndo, poi una ressa di persone, i domestici, i fattori, i due giardinieri, alcuni contadini, i più antichi della casa. Uno, che avea portato un bel paniere di mele fatto da lui stesso, inghirlandato di edera e di alloro, piangeva come Jela, baciandole la mano; era un bellissimo vecchio, che tutti guardavano ancora più commossi dalla sua commozione che dalla partenza della signorina. Il cagnuolo chiuso su nel salone uggiolava dolorosamente, mentre Jela sbirciava ogni tanto verso la finestra, non potendo rispondere a tutti, piangendo, inorgogliendo di quel movimento prodotto da lei sola, lanciando tratto tratto una occhiata a Ida, che attendeva di dietro, sola col babbo, nella carrettella dell'arciprete. La carrettella, molto più vecchia dell'arciprete, era sverniciata, a cinghioni, coi cuscini scompagnati di percallo, trapunti a fiocchetti di lana. Sul sedile posticcio, di contro e dietro la cassa, fra le ruote, due cestoni legati con una infinità di corde le davano l'aria di servire ad uno sgombero; mentre una farragine di fagotti a fazzoletti colorati le si alzava dentro in un monte, che avea già avvilito la povera rozza colle orecchie spelate e le gambe dinanzi ancora sanguinolenti di una caduta. Ma l'ingegnere non era molto più vivace del cavallo, preoccupato di nascondersi le scarpe di vacchetta bianca, vestito di quella giacca verdognola, logora ai gomiti ed abbottonata all'ultimo bottone come usavano gli eleganti del villaggio, senza un pensiero di Ida, la quale si sentiva man mano più straniera in quel ricco cortile, dove avea tanto giuocato e donde usciva per sempre senza lasciarvi tracce e senza che nessuno le badasse. Allora un avvilimento le ruinò sull'animo, una voglia subitanea la bruciò di fuggire subito al di sopra dei tetti col vento, che nessuno la vedesse, per dissolversi ancora profumata di quella signorile esistenza. Ma un'occhiata al padre col mozzicone della frusta in mano, il capo basso come il ronzino, evitando gli sguardi di tutti per non impacciarsi maggiormente, la richiamò alla orribile realtà di quella scena d'addio, dietro la carrozza di Jela, che non si moveva ancora, dentro la carrettella dell'arciprete ancora più immobile della carrozza, e nella quale non poteva nemmeno prendere la posa elegante delle solite trottate.
Fu un quarto d'ora infernale, il primo della sua vita.
Finalmente!
Giunsero al villaggio che suonava mezzogiorno, l'ora del pranzo. Le pareva di entrare in un mondo sconosciuto di persone che la salutavano, pieno di piccole case e di piccola gente; poi smontò, parlarono, nessuno la comprese, e dichiararono che facea la signorina per aver fatto mezzo la serva per quattro anni a dei signori. La mamma fu la prima a confermare quel sopranome.
Qui i ricordi della fanciulla incalzavano.
Si ricordava la dolorosa esumazione delle antiche abitudini della sua casa, la mamma e il babbo che si bisticciavano sempre, le ragazze del paese che la sfuggivano per le sue nobili maniere; quindi si trovava sempre sola, coglieva uno spino ad ogni passo, si sentiva attorno un'atmosfera frigida di ridicolo dovuta ad una superiorità morale, che, malgrado l'eccellenza della propria natura, stentava in quella fanciullezza a ben precisare. Si rammentava la difficoltà delle ore solitarie, le peggiori di un linguaggio, del quale avea perduto l'anima. Parlando in casa o fuori, non s'incontrava più in opinioni simpatiche, anzi non la capivano e la deridevano; si rammentava di un bel ragazzo falegname, che lavorava sotto la sua finestra e si era innamorato di lei. Allora ella stava sempre alla finestra con un libro in mano, si guardavano; poi si erano parlati, poi il giovinetto, messo su dai compagni, le avea usato uno sgarbo. Quindi una rottura, e poi sola nuovamente, e studiava, studiava.
Il babbo era sempre malinconico. A pranzo erano insistenti discorsi d'interessi, che andavano in malora; non si mangiava una pietanza che il suo costo non trascinasse seco osservazioni spiacevoli o qualche profetica lamentazione della mamma sull'avvenire della famiglia. Così la fanciulla smetteva di mangiare. Aveva ormai quindici anni, cresceva sempre più bella, di quella sua speciale bellezza.
L'ingegnere la volea sempre ben vestita, la meglio vestita del villaggio, ma la mamma contrastava ad insolenze, così che Ida finiva per vergognarsi di quei rimbrotti e di quei vestiti ancora più goffi, senza osare un'osservazione, ripiegandosi su sè medesima e pensando al destino di Jela, contessa milionaria.
—E io?!—le accadeva spesso di mormorare.
Poi fu presa la grande risoluzione; Ida anderebbe all'Istituto superiore femminile.
—In ogni caso sarà una maestra,—aveva risposto l'ingegnere a Geltrude, che si opponeva furiosamente.
La fanciulla aveva pianto di nascosto quel giorno.
Partì per la città.
Viveva a pensione con una modesta famigliuola di sarti, i quali le avevano assegnato la loro camera più bella e le servivano a tavola per la prima i migliori bocconi. Erano piuttosto buona gente, con idee più basse della propria condizione, che lesinavano il soldo e parlavano dell'avvenire delle maestre come di una mostruosa fortuna.
Ella vivea nella propria camera non uscendone quasi mai, studiando o sognando, ma soffrendo ancora più, giacchè per quanti quattrini le mandasse il povero ingegnere, erano sempre troppo pochi ai suoi nuovi bisogni di città. La superiorità della sua natura, che la spingeva verso il lusso, come le piante si spingono verso la luce, le facea provare una strana voluttà ad ogni camicia bianca, ad ogni stivaletto ben serrato. Il bello per lei era il primo aspetto delle cose, l'estetica una religione. Teneva quella cameretta con una decenza patrizia, sè medesima con una divinità. Si bagnava, si pettinava sovente nel medesimo giorno, usava sempre dei manichini irreprensibili come il buon gusto delle sue frasi e la sceltezza delle sue maniere.
—Chissà mai!—diceva la Lucia col marito.
Ma le rade volte che uscivano a passeggiare, questa le facea da serva, ed andavano nei luoghi meno frequentati, perchè Ida, vestita come nessuna delle sue pari, si vergognava tuttavia dei propri abbigliamenti, quasi tutti dovessero notarla e farne commenti. Quindi avviluppava ogni signora, cui s'imbatteva, di un lungo sguardo, al quale nulla sfuggiva; indovinava le sottane sotto le vesti, la camicia sotto le sottane, le calze sotto la camicia; i guanti, il cappellino, l'acconciatura dei capelli, la finezza di una trina, i ricami di un tulle l'occupavano per tutta una passeggiata; quindi la sera a casa li ripensava, distraendosi dagli studii. Una sete, un'invidia di lusso, la torturavano; provava le lacerazioni d'un insulto ad ogni occhiata lanciata dietro una donna meglio vestita di lei, avrebbe volentieri dato un anno di vita per passare un giorno in carrozza.
Il cuore inaridito lasciava libera la testa, ma la sua testa era un vortice, che ingoiava tutto il mondo.
Essendosi ingannata col nascere nella propria famiglia e nel proprio villaggio, si accorgeva di essere povera ed infelice per sempre; ma il malessere di questa preoccupazione incessante s'accresceva ancora in quella abitudine di mutismo e di isolamento. Quando il dispetto lungamente accumulato volea erompere in dolore, ella lo comprimeva tuttavia; i lamenti così soffocati morivano in maledizioni, che le lasciavano sulle labbra la schiuma di una convulsione, mentre per sopportare lo spasimo di tale piaga era costretta ad aprirsene un'altra colle unghie, rimedio feroce dei grandi ammalati. Quindi passeggiava febbrilmente per la camera o si buttava sul letto, perchè non avea poltrona; gettava via i libri, singhiozzava senza piangere, ruggiva senza gridare, finchè il pensiero che nessuno se ne accorgeva la scoraggiasse. Allora le tempeste si quetavano, la fanciulla ripigliava i libri, si accomodava i vestiti si stirava un colletto. Però se la lividezza del suo viso perdeva le chiazze del pianto, l'anima le incancreniva.
La fanciulla peggiorava tuttodì. Quella lotta impotente col destino la corrompeva, gli studi affrettavano quella corruzione. Siccome il mondo la opprimeva, ella studiava il mondo per combatterlo. Scrutava le sue leggi, i suoi pregiudizi, i suoi dogmi; rifaceva la sua storia e ne ricercava i confini. Ad ogni sosta un miraggio che svaniva, una grandezza che sfumava in una parvenza, una virtù che si risolveva in una ipocrisia: la scienza era impotente, la religione bugiarda, l'umanità affannata a sostentarsi la vita materiale e morale, l'una aiutando di fantasie, l'altra di delitti, perchè i forti divoravano sempre i deboli. La storia era una leggenda di dolori, la vita una marcia demente. Avea cercato un momento la formula della felicità senza trovarla; allora si ribellò nuovamente.
Disprezzò la religione senza oltrepassarla, personificandola nei preti, rise della filosofia senza averla approfondita; quindi lo scetticismo le parve il trionfo della ragione, l'aristocrazia dei forti, e vi si tuffò ingordamente. Sua madre non l'avea mai amata, suo padre non la capiva, giacchè l'avevano rovinata a forza di volerle giovare, ambedue preoccupati del proprio egoismo, aspettandosi da lei per un giorno, forse prossimo, il pane della vecchiaia, dopo avere in gioventù goduto allegramente tutte le proprie sostanze. Ma allora che cosa era più la famiglia e il suo amore? Ella avrebbe preteso, per credervi, un affetto di poeta, squisito, sconfinato, anelante al sacrificio. Secondo lei la madre non era perfetta nemmeno nel poema cristiano di Maria, e Pierre Leroux aveva ragione quando accusava Cristo di non aver conosciuto abbastanza l'amore dell'umanità. L'uomo essendo quindi un animale, l'egoismo era necessariamente la sola legge e la sola verità della natura; l'anima era una chimera uccisa dagli scienziati, cui i poeti cristiani avevano imbalsamato il cadavere negli ammirabili scritti. Libera ogni avarizia dell'istinto, insensatezza ogni immaterialità.
Questa era la sua tesi favorita, nella quale s'incaponiva quanto meno ne era persuasa; ma negava, perchè la negazione supponeva un orizzonte più vasto e una energia più acuta dell'ordinaria affermazione. Laonde non andò più a messa e staccò persino di sopra del letto l'immagine della Madonna. Forse di notte l'aveva più volte pregata col delirio della disperazione che ridiventa speranza; ma siccome la dolce immagine litografata non avea distolti gli occhi dal proprio paffuto bambino, ella si vendicava così della sua sordità sottraendosi alla sua protezione. La Lucia fu tutta stordita il mattino, trovando il quadro sul tavolo da lavoro.
—Non lo voglio:—aveva risposto Ida di malumore.
—La Madonna?!
—Una donna...—e un sorriso fremente d'infinita empietà commentò quella parola:—una donna!
Ida si arrovellava; non credeva, non ammetteva più nulla di ciò che credevano ed ammettevano le altre fanciulle sue pari, ma, struggendolo, non si era potuta liberare da quel vecchio mondo. Ogni tanto si sentiva addosso una ruina, che non riusciva a spostare. La sua vita dovrebbe passarvi sempre frammezzo.
Vedeva le altre fanciulle felici, e le disprezzava senza volersi confessare d'invidiarle, perchè erano buone, ignoranti, si attiravano tutte le simpatie, facevano o avrebbero fatto all'amore, avrebbero vissuto sempre contente, mentre con tutta la sua superiorità essa non poteva nemmeno umiliarle. Anzi se il mondo avesse penetrate quelle sue opinioni, l'avrebbe presa in orrore. Ciò soventi la tentava, ma sebbene audace, aveva paura di mostrarsi a nudo; quindi interrompeva le conversazioni, o le riassumeva in un motto troppo profondo per essere capito da quelle fanciulle. Ida, natura violenta d'ingegno, aveva forse per le discussioni il celebre talento di madamigella d'Espinasse per le lettere.
Allora si era data ai romanzi.
Sue più di ogni altro la sedusse, urtandola direttamente nel carattere. Quella continua intenzione al bene e quella inconcussa speranza nella redenzione dei poveri, le sorrisero come una soluzione del proprio accorante scetticismo. A poco a poco i quadri della vita laboriosa le acquetarono le smanie del lusso, così povero di significato morale, mentre dalle calde pagine del grande socialista le usciva una nuova vita più luminosa e più feconda. Il suo cuore chiuso come un fiore sinistro si aperse alla rugiada; quindi nata cogli umili, condannata cogli umili, che l'avevano tanto nauseata nei bozzetti sentimentali del Coppée, sentì che in essi solamente era la grandezza della civiltà. Essa, che non credeva più alla religione di Dio, credette alla religione dell'umanità per amare tutti gli infelici. Gli entusiasmi primaverili le sbocciarono dal cuore col profumo delle viole, e l'onda fulgida della fede li coperse nuovamente di sorrisi. Tutte le sue ingordigie erano appagate, la poesia le aveva ubbriacato la ragione.
Ma neppure quella credenza durò. La Lucia, donna d'esperienza e di buon senso, che osava spesso deridernela, la vide ben presto rinsavire, poichè partecipando, per soccorrerli, alla vita d'alcuni poveri, dovette accorgersi di quanto differissero dai modelli di Sue e ne fossero anzi una terribile antitesi. Erano ancora più abbietti che lagrimevoli, più perversi che ignoranti, senza decoro sdegnoso di passato, senza aspirazioni nobili di avvenire, accattoni, perchè non abbastanza grotteschi per essere parassiti, o audaci per farsi assassini. La vanità di non essersi ingannata la fece resistere qualche tempo nel romantico apostolato, come aspettando da quell'anime corrotte di miseria qualche rivelazione di grandezza; ma alla fine dovette persuadersi, e capitandole fra mano l'opera di Malthus, ammise volentieri con lui la morbosa superfluità dei poveri.
Aveva sperato con Sue che fossero anime cadute da rialzare, ed invece erano nature brutali da umanizzare.
L'ultima opera di beneficenza verso una madre, alla quale dava gli abiti e gli stivalini usati per salvarle la figlia, la disgustò per sempre, mentre costei si serviva di questi avanzi di un piccolo lusso per abbigliare la piccina e cavarne un migliore guadagno. Ida lo aveva indovinato senza stento, giacchè se il suo cuore era adolescente e i suoi sensi bambini, la sua ragione era adulta. Ma l'apostolato aveva appena consistito nella conoscenza di due o tre famiglie, che per ragioni di lavoro facevano capo a quella del sarto.
Intanto essa diventava sempre più donna. L'anno scolastico volgeva al termine, mentre la primavera moriva nell'estate. Lo sviluppo della persona essendosele arrestato nello sviluppo eccessivo dell'intelligenza, rimaneva con una testa di donna sopra un corpo quasi di fanciulla, stranamente allungato, e con una delicatezza di forme, che intratteneva il bisogno di una più sensuale efflorescenza. Ed era una contraddizione non meno fisica che morale, poichè i sensi le sonnecchiavano ancora, fremendo tratto tratto alle fredde temerità del pensiero, mentre una nebbia le passava per il sereno adamantino della ragione, e la fanciulla si sentiva avvolgere come in un calore di aliti, con certe strette al collo e un'inquietudine d'invisibili carezze per tutti i muscoli.
Ma ciò avveniva raramente, perocchè studiava molto e ambiva troppo; d'altronde non conosceva ancora l'uomo.
Quel ragazzetto falegname, il solo sul quale il suo pensiero si fosse fermato un istante, non le aveva ispirato che una forte simpatia di camerata, cui non erano forse rimaste estranee le contrarietà della sua vita casalinga e le confuse necessità di espansione, che travagliano l'adolescenza; poi lo avea dimenticato. Adesso non pativa bisogno dell'uomo, giacchè la differenza con lui le sfuggiva. Faceva la medesima strada, scorazzava nei medesimi campi, scalava le medesime vette gloriose, scandagliava i medesimi abissi, ostinandosi nella stessa lotta contro il destino, estenuandosi negli stessi sforzi contro il mistero; ma avendo in comune la scienza e la incredulità, si trovava superiore all'uomo nella bellezza del corpo e nella finezza del sentimento.
Talora le pareva persino impossibile che uomini come il suo maestro o come il sarto potessero comunicare all'anima qualche emozione passionata; quindi un abbagliante romanzo di Gauthier ed alcuni altri di George Sand, che rilesse più volte meditandoli, la confermarono in questa opinione. Ma poichè la Lucia aveva in quel tempo un bambino alla mammella, che allattava per casa senza soggezione della gente, Ida per cortesia verso la buona donna doveva nelle urgenti necessità di lavoro o delle faccende domestiche consentire talvolta a divertirlo. Quindi lo cullava, lo vestiva nella loro camera buia, la più povera dell'appartamento. Il letto vi era quasi sempre disfatto, i lenzuoli poco bianchi, le coperte di cotone, a uncino, rammendate, di un bianco ancora più ambiguo che nei lenzuoli. Ma quantunque da sposi, il letto non aveva se non un cuscino senza fodera, dalla parte della Lucia e bisunto, poichè il sarto dormiva più basso, colla testa sul capezzale.
Allora Ida pensava all'amore di un uomo e si sentiva nauseata.
Un sucido odore umano esalava da tutta la camera, l'ombra vi era oleosa, i mobili abbietti.
Una sedia fra la culla ed il letto faceva da comodino, ed aveva sempre un mozzicone di candeliere con dentro un mozzicone di candela per la notte; il sego era colato sulla paglia, incollandovi i zolfanelli sparpagliati, squagliandovisi a macchie fetide di verde rame. Bisognava che fossero ben bassi nella scala degli animali coloro, che potevano amarsi in un simile ambiente; ma nonostante tutto quel ribrezzo una ignobile curiosità la spingeva fatalmente verso il letto. I lenzuoli lanugginosi avevano la nauseante morbidezza delle carni non use ai bagni, e si affondavano in due lunghe buche, entro le quali i corpi degli sposi parevano aver lasciato le loro ombre. Quindi Ida pensava a quei due corpi, di notte, abbracciati, mentre ella dormiva sola nel proprio lettino bianco. Un odore viscoso le penetrava tutti i sensi, un calore, quasi rimasuglio del calore di quei due corpi, le saliva dai materassi per le reni, una scappata lubrica del sarto colla moglie, udita nel giorno, le passava sferzando agli orecchi, una stanchezza morbosa le si aggravava sulle spalle. Quella camera pigliava l'aspetto di un antro, il suo tanfo si mutava in un sito terroso di spelonca, tutti gli altri mobili sparivano, mentre il letto rimasto solo l'attirava talmente, che una volta avea dovuto sdraiarvisi abbracciandolo con le mani distese. Poi il falegname, il sarto, qualcuno dei suoi maestri le si presentavano con un'inesplicabile confidenza, intanto che le vesti le davano incomodi, ai quali non avrebbe saputo trovare un nome, e la scienza del pensiero le si nascondeva volontaria dietro l'ignoranza de' sensi.
Una volta assistette, nella stanza che fungeva da bottega, alla prova di due calzoni, e provò un turpe piacere nella discussione dei loro difetti, trovando strano, ella che si stimava così scettica, che nessuno le badasse. E a poco a poco l'animalità si destava nella sua natura colla sgarbatezza di un avvinazzato. Erano contorsioni e fiatosità, che la soffocavano svanendo, poi subito dopo una grande idea o il morso di una passione la ritornavano la solita Ida dall'intelletto sereno e il cuore sanguinante di orgoglio. A forza di sognare talora perdeva così il senso della realtà, che le pareva impossibile di non essere almeno duchessa e milionaria. Un disprezzo inesauribile le traboccava dal cuore su ogni persona e ogni cosa; disprezzava i poveri e i ricchi, tutti coloro che non la capivano o almeno non la indovinavano, mentre guardandosi allo specchio scopriva tanta evidenza di pensieri e tanta luce di passione nel sorriso dei propri occhi. Davvero che il mondo doveva essere composto d'imbecilli, i quali passavano la vita lavorando per un boccone di pane, come gli asini per una manciata di fieno, ed erano egualmente imbecilli, sebbene più belli, i fortunati che non lavoravano. Ella invece si sentiva degna di tutto, capace di tutto come Napoleone dal lido di S. Elena; ma come il grande, cui idolatrava per la fredda onnipotenza della volontà, era lontana dal mondo, sulla soglia di una prigione aperta, nella smorta solitudine di un oceano senza tempeste.
Povera Ida!
Aveva scritta una bella poesia con questo titolo e poi l'avea stracciata.
L'anno finì, e ritornò al villaggio in apparenza la stessa, ma nello spirito profondamente cangiata. Quindi riprese le antiche abitudini, accompagnando la mamma a messa o a spasso, rispondendo rispettosa a tutte le sue domande, ma in fondo al cuore irridendola. Alle compagne, che le correvano incontro, rese appena un saluto di sussiego e parlò col più elegante italiano; quelle sulle prime risero e si prepararono a canzonarla, ma Ida le imbrogliò con tali complimenti, che la beffa plebea cessò in una attonitaggine di meraviglia. Nullameno scoppiò dopo le spalle più violenta.
Però quel suo contegno superbo e cortese in casa cominciava a trionfare perfino della mamma, la quale, a forza di tagliarsi nell'acutezza di quella ragione, la evitava involontariamente e non facea più certi discorsi e non pronunciava più certe parole.
Spesso un'occhiata della fanciulla bastava a frenarla, ma come la sua non era natura da sollevarsi ad una vita più intelligente, ogni tanto si vendicava di quella soggezione con una scenata eccessiva. Ida si trincerava dietro un'aspra indifferenza, quindi tutto l'impeto di quella collera vi si frangeva come ad una scogliera.
Adesso un altro cielo le si era schiuso.
Benchè superasse di poco i sedici anni, lo sviluppo precoce dell'intelligenza la offriva a tutte le seduzioni del pensiero. George Sand l'ammaliò coi propri trionfi di scrittrice. La fanciulla, cui la divinità dell'arte aveva sferzato il cuore con un sorriso, soffriva già tutti i delirii della gloria. Una luce nuova le aveva invaso lo spirito, una lena inaspettata le rinvigoriva tutti i muscoli; nell'ardore delle imminenti battaglie le sue stesse spavalde impazienze la ubbriacavano. La modestia quasi pitocca de' suoi natali le parve allora bella di un significato glorioso in antitesi coll'apoteosi della meta, mentre i posteri li avrebbero cercati con religiosa emozione, e forse più di un poeta dell'avvenire avrebbe fatto colla sua povera cuna il nido ad una canzone immortale. Tutte le asperitudini della sua vita si levigavano perdendo del loro carattere umiliante, quasi tante prove, per le quali il suo spirito dovesse passare purificandosi, tante battaglie che il destino nemico desse al suo genio per contendergli la suprema conquista di un nome. Laonde si fortificò nello scetticismo, perchè l'artista, il quale studia per riprodurle tutte le fisonomie della vita, deve essere al disopra di ogni affermazione o negazione volgare, luminoso come un astro, limpido come uno specchio, sonoro come l'eco della montagna. Vizi e virtù, grandezze e bassezze, non sono che colori di tavolozza; vedere per vedere, ritrarre per umiliare i miopi coll'acutezza della propria vista: Goethe! Ida s'innamorò di Goethe, inabissandosi nel Faust. In fondo alla scienza il mistero, in fondo alla vita il nulla, giacchè lo sentiva fin troppo, il quinto atto del dramma, la redenzione di Faust nel bene era la massima ironia del poeta verso la borghesia inzaccherata d'ignoranza e di morale cristiana. Ma in fondo all'arte la gloria di gittare un ponte magico fra il mistero della scienza ed il nulla della vita, il trionfo dell'individuo sulla massa, la supremazia invincibile dell'ingegno sulle forze coalizzate della imbecillità, delle ricchezze e delle gerarchie.
Incanti di giovinezza, iridi di una bolla di sapone!
Ma lavorava sul serio. Concepiva più di uno studio alla volta, e lo cominciava per piantarlo subito dietro un altro più ampio e più bello, avendone appena come Murger scritto il titolo sopra un quaderno nuovo. Poi mutava ancora, aprendo cento porte e non entrandone alcuna, qualche volta precipitandosi nello studio per lo studio e ritornando ancora alla velleità delle rivendicazioni, drizzando i suoi futuri volumi contro i muri della società per aprirvi una breccia, sulla quale passare raggiante di superbia.
Persino la gente del villaggio cominciava a sospettare qualche mistero in quella fanciulla sempre pallida, col viso sempre aggrondato. Non sorrideva mai; e, per un capriccio inesplicabile, aveva adottato il nero pel solo colore de' propri abiti.
I giovanotti più depravati del paese, che passeggiavano a tarda ora cantando stornelli da osteria o storpiando qualche duetto di opera imparato dalla banda, guardavano la finestra sempre illuminata di Ida, diventando seri loro malgrado nello sparlare di lei. Era l'ammirazione e l'incubo di tutti.
Ma di notte l'assalivano fiere malinconie.
Tutti quei bei sogni di gloria, quasi foglie scrollate da un vento freddo intorno ad una rovina, le cadevano mutamente intorno. Si sentiva ancora più inutile che sola, più piccola che inutile, nata in un villaggio, condannata forse a fare la maestra in un villaggio, costeggiando sempre le rive del mondo senza approdarvi, intendendo dei brani di musica, odorando delle folate di profumi, ma senza che nessuno si rivolgesse a guardarla confusa fra le immondizie addensatevi dal riflusso del mare. Quindi riviveva in un minuto di spasimo tutta la propria vita di oramai diciassette anni, riassaporandone tutte le umiliazioni, succhiandone tutto il veleno, e dopo questa ineffabile agonia di dolori si adagiava in un tedio infinito, smorto come il crepuscolo, umido quanto la nebbia. Vedeva il mondo in una visione fumosa, nella quale la vita perdeva ogni significato e tutti gli oggetti la loro individualità, onde non le rimaneva più se non aspettare una piega della bruma, che avviluppandola la togliesse alla funerea scena. E Ida l'aspettava colla lugubre indifferenza della disperazione. A diciassette anni provava il peso della esistenza e il vuoto del lavoro senza aver troppo esercitato nè l'uno nè l'altro; la morte perciò era il supremo trionfo del vinto, la sua vendetta contro il mondo. Questa idea, che ha sedotto tanti poeti infelici, sedusse lei pure. La studiò, la vestì, le diede la posa più scultoria; si compiacque nell'immagine della torva fanciulla sempre bruno-vestita, che una notte, col cielo plumbeo, senza nè luna nè stelle, si alzava dal largo tavolo ingombro di libri lungamente compulsati e pur troppo capiti, si levava bianca di una tragica serenità, i capelli disciolti, e guatando un'ultima volta il mondo dalla guglia del proprio sublime dolore, si precipitava nella tacita immensità della morte, come una spenta meteora tramonta nel baratro della notte, senza gittare un grido o lasciare una parola, che potesse rivelare ai villani della terra il segreto della sua eroica sciagura. Morire, e che gli altri la piangessero poscia inutilmente, come inutilmente essa avea vissuto!
Ma la sua testa era troppo forte per cedere a questa tentazione; quindi bastava il ricordo del castello cogli appartamenti della morta contessa, perchè la vita la riattirasse con tutto il fascino delle sue speranze battagliere e la magia delle sue gioie vanitose. Allora sicura di una nuova energia scrollava il capo mormorando:
—No.
Ora le difficoltà finanziarie della famiglia si erano moltiplicate da non dare più requie. Tre dei quattro poderi della legittima avevano mutato padrone, il quarto stava per seguire il cattivo esempio; laonde fra la mamma e il padre si allargava l'abisso, sul quale le liti non gettavano più il loro ponte d'insolenze. Forse essendosi finalmente conosciuti, temevano di andare troppo oltre nel cedere all'intimo corruccio. Ma, allontanandosi l'uno dall'altra, si erano separati dalla fanciulla.
L'ingegnere, da qualche tempo uso alla bettola coi peggiori soggetti del paese (nè i migliori valevano gran cosa), non si ricordava quasi più della sua idolatria per la bambina; anzi il sogno della sua vita, essendo ormai sulla soglia della realtà, poichè Ida aveva mantenuto le promesse intellettuali dell'infanzia, sembrava come dispettarlo, ostinandovisi solamente per smentire le insolenze degli amici, i quali gli dicevano fra un boccale e l'altro:
—Quando spiccioliamo l'ultimo podere?
Ma in fondo era lacerato da un rimorso. Avea buttato la sua bella vita nel grembiale di una trista donna, sacrificando a' suoi capricci l'avvenire della figlia; la quale chi sa come finirebbe, costretta a battere alle porte del mondo come una mendicante. Il suo orgoglio si rivoltava, diventava odio verso tutti, verso la sua famiglia, che lo aveva scacciato, e pur troppo con ragione, verso la balia, verso Ida, che aveva l'immenso torto di essere una natura superiore, forse un ingegno potente, un carattere luminoso, e per colpa della povertà dovrebbe vivere e morire nel buio. Quindi non parlava più in casa o, se parlava, solamente a monosillabi, avventandoli come sassate rabbiose; mentre la moglie, che aveva sempre avuto su lui la supremazia dell'amata sull'amante, alzava le spalle con una tale aria di superiorità, che gli faceva perdere la testa.
Quel disprezzo invincibile di una donna, una... (e l'ingegnere trovava nomi sempre più osceni), era il colmo della miseria. Ida si accorgeva di tutto, ma si ritraeva in sè medesima non volendo, sebbene la sospettasse, conoscere ancora la vera posizione della propria famiglia. Fino allora i dolori della sua vita erano stati nobili, facilmente poetici all'immaginazione; i nuovi sarebbero dolori avvilenti. Ida ricusava. Ma poichè l'ingegnere non aveva trovato migliore rimedio che di ubbriacarsi tutti i giorni, ella non usciva quasi più dalla propria camera.
E una notte, che egli era rimasto per le scale e loro due donne dovettero portarlo di peso sul letto, Geltrude, dopo avere insultato lungamente quel corpo quasi inanime, invelenita ad un moto sgarbato della sua testa, gli diè uno schiaffo violento sulla bocca.
—Vigliacco! guarda come si riduce.
Ida invece mormorò quei versi di Byron:
—Poichè l'uomo ha la disgrazia di essere ragionevole, si ubbriachi!—e nel suo sguardo passò un lampo di compassione per l'infelice, di cui comprendeva la condotta.
Ma la vita peggiorava ogni dì, finchè ella lasciò il villaggio all'apertura delle scuole; si divise freddamente dai genitori, l'ingegnere piangeva.
Allora Ida scriveva un poema su Nerone, in lui personificando sè stessa. Aveva ottenuto dai maestri di essere poco assidua alle lezioni per non muoversi quasi mai di casa; nullameno vestiva colla stessa cura, smarrendosi ogni giorno in un mondo ideale, dal quale la distoglievano appena i fastidi della miseria e le insubordinazioni dei sensi.
La fanciulla perfettamente sviluppata aveva assunto la bellezza del proprio tipo. Aveva la pelle bruna ed ombrata di macchie, la fronte ripida e la bocca grande, ma la candidezza dei suoi denti aveva dei fulgoramenti di cristallo e le sue labbra, piuttosto grosse, si rialzavano agli angoli con una espressione irresistibile di sensualità e di sarcasmo. Il naso troppo piccolo fra gli occhi enormi e sotto le sopracciglie moltissimo arcuate, era il suo maggiore difetto, giacchè dal collo sino ai piedi il suo corpo era un capolavoro, una figura di Mieris allungata dal Parmeggianino. La grazia del suo portamento era ancora superata dalla provocazione inconscia dei suoi gesti e delle sue attitudini; aveva la voce velata come lo sguardo, quasi come la pelle. Poi la sua figura quasi avvolta nel mistero, odorante di voluttà, pareva tratto tratto ingrandirsi nella serietà di un grande pensiero. Ida si capiva. Sapeva tutti i propri difetti e tutte le proprie forze, studiandosi più dei libri prediletti e considerando la toeletta di ogni mattina come gli schermidori la visita quotidiana alla sala di scherma. Che se Leonardo impiegò due o tre anni a copiare la Gioconda, seguendo ad uno ad uno gli errori de' suoi capelli e de' suoi sopraccigli, ella faceva altrettanto con sè medesima all'ampio specchio, che il sarto le aveva messo nella camera e che ella usava quasi da consumarlo, se un'ombra potesse consumare un corpo. Inventava o si adattava gli abiti alla moda senza mutarne il colore, tagliandoli e cucendoli spesso da sè, colla mano ricoperta dal guanto per non sforacchiarsi le dita.
La donna nuda è la donna armata, ha scritto Victor Hugo.
Ida aveva corretto la formula: la donna bella è la donna forte; ma sapeva benissimo, quantunque giovane, che la bellezza della espressione vince così l'altra della plastica, che l'arte stessa ha sempre faticato a raggiungerla. Un pittore le avrebbe trovata una testa brutta, un poeta una testa fatale, ma ella non l'avrebbe cangiata con quella d'una Venere o di una Madonna. Senza averne la bruna caldezza e la incalcolabile sensualità somigliava quasi alla Femme Fellah di Landelle; il medesimo infinito del deserto negli occhi meno avvampante e più profondo, la luce che vi ondulava ad immense pieghe, e i baleni che folleggiavano per quella luce. Però doveva essere una donna brutta per la maggioranza degli uomini e delle donne; solamente colui o colei, che le badasse, sarebbe perduto.
Quindi coltivava questa bellezza segreta per renderla sempre più fine, affilandola come il taglio della spada, aguzzandola come la punta del pugnale. E poichè la bellezza dovea essere l'arma delle sue battaglie, la fanciulla che aveva tanto sofferto e tanto desiderato, aspettando da tanti anni in un silenzio grosso di tempesta, in una calma fremente di lotta il segnale dell'attacco, si guardava sovente nuda allo specchio; e nel provare a sè medesima tutte le pose dell'amore quasi in una rivista de' propri vezzi, agitava i lampi delle pupille come una lama di fioretto nel braccio tragicamente proteso.
Era donna.
Le sue malinconie pigliavano un carattere più serio, i suoi bisogni alzavano la voce; non erano più desiderii ma bramosie, non voglie ma appetiti. Aveva il calore ed invocava la luce. Talora, parendole di aver fin troppo aspettato, si allentava, discendeva dalla roccia scoscesa del proprio isolamento per mischiarsi fra gli abitanti della pianura, dalla quale le arrivavano esalazioni tepenti e voci giocose. Le sue passioni ruinavano al basso quasi a ritemprarsi nella prova, o a scagliarsi sopra una preda imprudente e come uno stormo di aquile riguadagnare le cime azzurrine.
Allora si guardava attorno esaminando gli uomini. Il suo sguardo profondo penetrava i loro abiti, oltre gli abiti la loro vita, impudente come lo sguardo della scienza ed acceso come quello dell'arte. Quindi spremeva il significato di tutte le forme, il piccante di tutti i difetti; animalità, brutalità e bruttezza in quelle ore di febbre avevano la maggior seduzione, un prestigio idealmente satanico, poichè sentendo di degradarsi in quella scesa, avrebbe voluto conservare la propria superiorità collo scendere più profondamente degli altri, che non sospettavano nemmeno le altezze della sua vita quotidiana.
E la sua anima fiutava.
Una volta...
Dirimpetto alla casa di Ida abitava una famiglia di due donnicciuole, due beghine, che si tenevano un nipote, povero gobbo malaticcio, dalla fisonomia livida e gli occhi verdi ed intelligenti. Le due vecchie zitellone, le quali passavano la vita lavorando dei fiori da chiesa e nelle ore d'ozio ripetendo le orazioni, adoravano quel ragazzo, cui avevano tardi insegnato a leggere e scrivere. Il ragazzo aveva quindici anni. Non conosceva compagni, non usciva quasi mai per il pudore ombroso della sua malattia; ma era amico di un vecchio cane e leggeva dei romanzi.
Le zie, che lo credevano sempre un ragazzo, nella loro ingenuità glie li permettevano siccome giocattoli.
Ida le conosceva appena. Le aveva incontrate più d'una volta nella bottega del sarto, si salutavano, anzi meglio la salutavano rispettosamente dalla finestra; invece conosceva quel ragazzo, e la loro conoscenza era nata di compassione. La fanciulla, che soffriva per il fermento delle vergini forze, si era impietosita allo spettacolo di quel povero ragazzo colle spalle nelle orecchie e le gambe contorte da uno scherzo feroce, lì sul margine dell'esistenza come un rifiuto immondo all'uscio di un'osteria.
Questa ultima immagine le tornava spesso nella mente come una insolenza contro la natura.
Il gobbo, comprendendo forse per l'arcana intuizione degli infelici la potente malinconia di quella testa, guardava sempre alla finestra di Ida, aspettando che ne cadesse uno sguardo o un sorriso. I loro più lunghi discorsi non aveano durato più di tre minuti, senza maggiore significato di un'elemosina che ella gli gettasse o di un gioco che la divertisse; nullameno, dacchè il gobbo stava tuttodì alla finestra, qualche cosa era passato fra di loro. Ida veniva più spesso al davanzale e vi si fermava col libro in mano, mentre l'altro, fingendo di ruzzare colle orecchie del cane, sbirciava in alto. Ma i loro sguardi s'incontravano, e dall'urto degli sguardi sprizzavano scintille di pensieri comuni. Nella fatica delle proprie febbri Ida più di una volta, addossata alla finestra, aveva avventato sul ragazzo la fiamma tigrina della propria pupilla. Ma sebbene per la età e per la sua natura fosse già iniziato a tutti i vizi dell'adolescenza, indietreggiava sotto quelle occhiate, egli che non potendo avere aspirazioni, aveva tutte le ritrosie e tutti i timori di una deformità.
Ella lo discuteva.
Una mattina le zie lo mandarono dal sarto per certa seta. Ida, in quel momento a discorrere coi padroni di casa, gli aperse la porta. Il ragazzo impallidì e si turbò talmente, che incespicando cadde. Ella lo prese sotto le ascelle e, sollevandolo robustamente, lo adagiò sopra una poltrona; poi seguitò ad interrogarlo accarezzandolo, quasi che fra loro corresse una immensa differenza di età ed egli fosse davvero un piccino.
Il ragazzo si rinfrancò, espose il suo incarico e rimase qualche minuto ciarlando. Avea la voce dolce, e vi era tanta confusione ne' suoi gesti, che diventavano amabili.
—Non mi dai la mano?—gli chiese Ida gaiamente, vedendolo rizzarsi.
Egli arrossì, ma l'altra comprese, e piegando le gambe per farsi della sua statura:
—Così, così, non è vero?
Il ragazzo sorrise tutto contento.
—Devi essere buono,—soggiunse pensierosa.
—Le mie zie mi vogliono bene.
—Esse sole?
L'altro rimase guardando.
—E tu vuoi bene a loro sole?
—Non ti piacerebbe la signorina, Rocco?—interloquì la Lucia.
Rocco aprì gli occhi, fissando la fanciulla con una ammirazione così intensa ed ingenua, che tutti risero.
—Quanti anni hai?
—Ormai quindici.
—Vuoi che facciamo all'amore... dalla finestra? vuoi? Devi essere tanto buono! Ma tu leggi spesso, che cosa leggi?
—Il Conte di Montecristo.
—Se vorrai dei libri domandamene, ne ho anch'io. Addio, Leopardi.
Il ragazzo non comprese quel nome ed uscì tutto ilare, ricomparendo subito alla finestra col cane.
Ida gli fe' un cenno amichevole con la mano, egli sorrise. D'allora non passò giorno che non si parlassero.
Era una domenica di febbraio, calda di sole. A quando a quando tepide ed indefinibili esalazioni passavano sulle vie della città formicolanti di gente in abiti da festa, che pareva più allegra in quella stupenda giornata a mezzo di un inverno troppo rigido di ghiaccio e frequente di nevi. Ida si appoggiava stanca al davanzale. Invano la Lucia avea messo tutto in opera per trarre seco ad una passeggiata la signorina, la sua dozzinante, come la chiamava colle amiche, giacchè per le stesse ragioni di vanità Ida rifiutava quasi sempre, e quel giorno vi si era ricusata anche più seccamente del solito. Le pareva di non poter camminare; piuttosto che vestirsi si sarebbe mille volte meglio spogliata in faccia a quel sole, che le allagava la camera prima di tramontare. Era sola in casa, aveva quasi caldo. Spalancò tutte le finestre, rigironzò per le stanze, fermandosi più lungamente nella bottega ad osservare gli abiti incominciati e quei due grandi figurini insinuati negli sportelli della credenziera. Ma quelle figure di uomini la indispettirono, tornò allo specchio. Le parve di essere più pallida e più bella; si sedette, girò ancora, andò alla finestra.
Rocco l'aspettava: non lo salutò nemmeno.
Il suo sguardo correva sull'azzurro colla fuga di una meteora; si sentiva battere il cuore e tratto tratto come il vellico di una carezza sul collo, che glielo stringeva al pari di un laccio. Poi il respiro se le ingrossò così che dovette rizzarsi, incolpandone tacitamente la posa sul davanzale. Il sole le batteva in faccia.
Ma siccome le gambe cominciavano a tremarle, abbandonò barcollando la finestra per tornare allo specchio. L'enorme volume dei capelli, raccolti capricciosamente sulla nuca, le ripiegava la testa; aveva il corsetto troppo attillato, allentò un bottone, poi un altro, respirava a stento, ne allentò ancora, li allentò tutti. La camicia non più compressa dal busto le si allargò e, nella violenta tempesta che lo scuoteva, il seno soverchiolla con un bianco sorriso. Ida tremava. Le pareva di avere una camicia di piombo, di essere ammalata, agitava la testa e le mani. Avrebbe quasi voluto torsi dallo specchio senza quell'irresistibile bisogno di esservi come in due, seminuda e morente. Un immenso desiderio, caldo come il respiro di un cane, le saliva dai piedi alla testa; si sentiva come delle dita che le scherzavano nei ricciolini della nuca, dei soffi che le passavano sulle labbra, mentre il sole impallidiva esso pure guardandola, librato nel vano della finestra, smorto nella voluttà di un'altrettale agonia.
Soffocava. Le palpebre abbassate, le mani frementi di carezze, tentò inutilmente un migliore atteggiamento e, sempre più violentata da quella smania, mormorò qualche accento colle labbra dischiuse dalla sete. Non vedeva, non udiva: vedeva solamente il sorriso dei propri denti nella lastra, provava il peso dei capelli, intanto che quel calore impotente la fasciava e l'incomodo della sedia le si acuiva in tormento. Ma le sue fibre compresse da quella attesa tropicale scattarono. Una treccia le cadde sferzando sulla schiena. Scinta, fremente, si cacciò in quel raggio di sole, e venne alla finestra.
Rocco la dovette vedere come una apparizione. Con quella fiamma nelle pupille la fanciulla lo discerneva confusamente; gli fe' un cenno, egli rispose.
—Vieni,—sussurrò con un gesto demente ma irresistibile, lo ripetè, poi come una pazza corse per le altre stanze alla porta dell'appartamento, e si appoggiò alla maniglia per non cadere. Ansava. Poco appresso intese per le scale lo strascicare di un passo, quindi dilatando gli occhi si alzò sulle punte dei piedi per non far rumore. Il passo si arrestò incerto alla porta.
—Sei tu?—sibilò spiando per la fessura.
Poi:
—Entra.
Entrò. Ida socchiuse, abbandonandosi sopra una sedia, ma si rialzò istantaneamente, lo prese per mano, lo trascinò nella propria camera.
—Sei solo?
—Sì.
Si fermò.
Rocco era verde, le arrivava appena all'anca; ella si sedette.
—Sei solo?—ripetè.
L'altro non rispose; le stava innanzi al seno scomposto. A poco a poco la sua lividezza s'imbruniva; un sorriso infantile gli sfiorò a volo le labbra. Poi le abbassò una mano sulla veste e gliela strinse; la camicia non difendeva più il seno della fanciulla, nudo come quello di una Madonna, ma ben altrimenti espressivo, con una bianchezza odorosa ed una inesprimibile follia di vita. Il ragazzo si allungò, ma gli occhi sbarrati della fanciulla lo trattenevano, e allora col petto contro a quelle ginocchia, sotto a quel volto, a quel seno, col mento su quelle ginocchia, titubò anch'egli senza volere, senza capire; e non sostenendo più quegli sguardi nè quel volto grave su lui come su una ruina, quel seno più misterioso adesso che era nudo, titubò ancora e, la gola stretta da quel sogno, scrollando spasmodicamente la testa, gliela nascose in grembo con uno scoppio di pianto.
—Eh!—mormorò la fanciulla, premendosi la sua fronte contro il seno come quella di un bambino; si levò, lo portò sul letto, vi si sedette.
Allora il torrente ruppe le dighe, e la febbre della strana vergine dalla mente più depravata di Messalina e dal cuore secco investì quel frale corpicciattolo, come la tigre addomesticata investe ruzzando il cagnuolo. Lo rivoltolò, lo mordeva coi baci, lo spogliava colle mani senza amore e peggio senza compassione, ella medesima seminuda in un gruppo ammirabile ed assurdo. V'era dell'aggressione in quella furia. Ella, che non rispettava più nulla e sapeva tutto, era quasi feroce; mentre egli, stordito, trovava appena il tempo o il coraggio di una carezza, difendendosi inutilmente, poi abbandonandosi con una disperazione voluttuosa a quell'impeto di felicità lungamente agognato, senza nemmeno la potenza di sognarlo.
Ella lo respinse dolcemente giù dal petto, più basso, perdendolo quasi nella sommossa delle sottane. Le sottane sottilmente profumate gli lambirono con un alito soave tutti i sensi della faccia, fasciandolo in una nuvola, nella quale la sua deformità non avea più vergogna e la libertà era tutto un mistero. Egli vi si accovacciò come una scimmia nel covo, buono e del pari animalesco, con tutte le sue malizie e le ingenuità ancora più maliziose, i vizi che gli strillavano in capo come una nidiata di pulcini, e l'anima assordata da quegli strilli.
Quando il sole si staccò dalla finestra Rocco era uscito da quella nuvola sdraiandosi ai piedi di Ida come un cane. Ella era immobile; poi si portò una mano al viso, stropicciandosi gli occhi, e non vide più il sole. Discese prestamente, andò allo specchio, si ravviò i capelli, rindossò l'abito, ricomponendosi la faccia con tanta facilità, che Rocco, il mento sulla sponda del letto, la guardava incantato senza comprendere. Era ridivenuta calma e severa.
Rocco si nascose il volto nelle mani.
Ida gli si appressò, lo posò per terra: ma il ragazzo le si aggrappò alle sottane.
—Piangi?
Infatti singhiozzava.
Gli staccò le dita, quindi pigliandolo per mano lo condusse senza dire una parola alla porta dell'appartamento.
—Tieni,—fe' chinandosi a baciarlo sulla fronte.
Rocco non rispose, infilò l'apertura tutto sbalordito, sentendo appena di essere spinto e rinchiudersi la porta; ma Ida, ritornando nella propria camera, intese i latrati del cane, che saltellava intorno all'amico per la casa deserta. Quei latrati la fecero pensare.
Quindi si appressò alla finestra senza mostrarsi, e vide Rocco colla testa forse ardente sul marmo del davanzale, e il cane che colle gambe anteriori sulla sua schiena era salito a leccargli gli orecchi.
Un empio sorriso sfiorò le labbra della fanciulla:
—Rocco rifà la mia parte.
Da quel giorno una sfacciataggine serena le brillò negli sguardi, ma a scuola parlando colle compagne usò come una sprezzante castigatezza di linguaggio. Non sentiva nè rimorso nè avvilimento; aveva voluto conoscere l'uomo, ed avea fatto un esperimento in anima vili. D'altronde con Rocco non correvano impegni.
Egli non si staccava più dalla finestra nemmeno la notte. Le buone zie gli dicevano scherzando che si era innamorato della signorina, ma non badavano alle lacrime, che gli gonfiavano gli occhi e cadevano talvolta sui loro fiori finti. Ida manteneva quel solito contegno: veniva raramente alla finestra, salutava Rocco senza curarsi delle occhiate affannose, che le figgeva in faccia, nè del suo aspetto ancora più macilento. Pareva impossibile che un corpo tale potesse dimagrire, e nullameno dimagriva. La pelle gli si facea addirittura verde, gli occhi gli lucevano di una luce sinistra, senza che niuno se ne accorgesse all'infuori del cane. La povera bestia, che amava il proprio padroncino con tutto il trasporto di un egoismo animale, adesso che Rocco non mangiava più e per vuotarsi il piatto gli gettava nascostamente gran parte delle pietanze, raddoppiava di carezze e d'insistenze. Non si lasciavano una mezz'ora se non di notte, quando egli saliva alla casa di Ida.
Allora Rocco si vestiva chetamente, pigliava le scarpe in mano, faceva un cenno a Toto, un cenno che esprimeva un mondo di cose e che questo capiva subito, perchè si rincantucciava sotto il letto. Poi sulle punte dei piedi traversava la camera delle zie, l'uscio della quale era sempre socchiuso; e trattenendo il respiro, trattenendo quasi con un conato supremo di volontà il battito del cuore, moveva un passo al minuto, ascoltando il russo di quei due nasi devoti, al buio come i gatti, tremando sempre di essere scoperto ed imbrogliandosi già per trovare una scusa. Finalmente arrivava alla porta dell'appartamento, si arrampicava sopra uno sgabello, che vi teneva appositamente di fianco, tirava il catenaccio, alzava il saliscendi, socchiudeva maliziosamente, insinuando fra il pavimento ed il battente aperto una scheggia di legno, perchè la porta urtata a caso resistesse, calzava le scarpe, e giù frettoloso, ma leggero.
Ida dalla finestra lo vedeva traversare a corsa la strada dopo aver spiato guardingamente se fosse deserta. Allora dalla propria camera, lambendo l'altra dei padroni che russavano egualmente, veniva ad aprirgli l'uscio della bottega, lo pigliava in braccio, e mentre Rocco le baciava il collo come ad una mamma, ritornava pian piano nella camera e lo posava per terra.
Ella non aveva mai un trasporto per lui.
Era stata la prima a proporgli quei convegni notturni una volta che Rocco era tornato su dal sarto, proprio dopo di averlo veduto uscire e la Lucia era di là dal bambino. Ella gli aveva detto che verrebbe alla finestra col candeliere, quando lo vorrebbe.
Rocco, che da letto vedeva la sua finestra, non chiudeva più la griglia, non dormiva più, perchè Ida si coricava tardi ed era capace di chiamarlo assai dopo la mezzanotte. Una volta mancò, e dovette piangere leccandole i piedi come un cane per ottenere il perdono. Erano notti stravaganti le loro, facevano di tutto.
Ida colla fantasia sboccata d'un poeta e la depravazione di una reclusa si abbandonava a tutti i capricci, mischiando idealismo e brutalità, spremendo la più pura essenza del sentimento dal fango di una parola o di uno scherzo. Rocco consentiva tutto, ma fra tutte quelle gioie, che lo soffocavano e forse lo uccidevano, una invincibile tristezza lo rendeva a quando a quando distratto, curvandogli la testa sul petto con un moto cadaverico.
Il piccolo cuore di quel martire della natura avrebbe avuto bisogno di un amore quasi materno, ed invece si accorgeva di non essere che un giocattolo, carino appunto perchè deforme, fra le mani di quella pallida superba, bella come la natura, e per lui egualmente insensibile.
Una volta nella esaltazione dell'orgoglio ella gli lesse un brano del suo poema.
—Lo sai tu di chi sei l'amante?—gli avea chiesto cogli occhi luccicanti.—Senti.
Rocco ascoltava senza capire gran cosa, ma le guardava intensamente la faccia illuminata nell'entusiasmo dell'arte. Ida era diventata Nerone; gli occhi le si erano dilatati, le narici le palpitavano, il seno disordinato nelle irruenze di poco dianzi le si alzava fremebondo, mentre il ragazzo, incantato in quello spettacolo così nuovo e misterioso, le si avvicinava mano mano, come sapendo che la grandezza vera è quasi sempre buona.
Ma la fanciulla, che all'ultimo razzo di un'esplosione lirica aspettava un urlo di ammirazione, e si era rivolta per sorprenderglielo, vedutolo così stupidamente attonito, gittò sdegnosa il manoscritto.
Quei convegni duravano sempre due o tre ore, e lo lasciavano affranto.
Ma Ida non aveva mai perduto la ragione nel tumulto più violento dei sensi. Anzi una notte che l'ambiente era tepido, invasa da una delle solite vanità si era spogliata ignuda allo specchio, imponendo a Rocco di fare altrettanto. Rocco vergognoso si era invece accasciato ai piedi del letto. Ella gli si volse camminando a fronte alta, col passo olimpico di una dea, le trecce nere che le sferzavano gli stinchi, lo prese lentamente per un braccio e lo portò allo specchio. Due candele lo illuminavano abbastanza vivamente.
—Non sei contento?—gli disse, mostrandoglisi entro il chiarore limpido della lastra.
Rocco le gittò le braccia al collo e si mise a piangere silenziosamente. Allora col cuore rabbonito dal trionfo, ella lo ricondusse dallo specchio al letto, ripetendogli con soave solletico:
—Non sei contento, Rocco? Che cosa vuoi?
Il ragazzo sollevò il viso lagrimoso e, guardandola arditamente, fe' un gesto.
—Tu?!
Il ragazzo insistè, ma Ida lo respinse brutalmente, schizzando dagli occhi una fiamma gialla.
—Tu?! no.
Quella notte fu l'ultima del loro stranissimo amore. Poco dopo Rocco si ammalò gravemente.
Le zie, che lo amavano con tutto il trasporto della loro vita sterile ed abbandonata, ne furono inquietissime e si dettero lo scambio di notte per vegliarlo. Rocco non parlava: era mesto e rassegnato. Si accorgeva di tutto quel bene delle zie, ma l'occhio gli correva ostinatamente alla finestra chiusa di Ida con un affetto calmo di moribondo, perchè Rocco sapeva di morire.
Quel corpicciattolo avea resistito fin troppo.
Il medico non ordinò che del vino generoso, il solo olio che potesse ardere ancora qualche giorno in quella lucerna. Le vecchie piangevano, avevano staccato di sopra al loro letto il gran quadro di san Giuseppe, drizzandolo sul canterano di Rocco con quattro candele benedette appositamente dal parroco, sempre accese. Poi fecero scoprire la Madonna delle Grazie e benedire una camicia. Quando gliela misero, una zia stava in ginocchio mormorando una speciale orazione. Rocco lasciava fare, ma una volta disse con un triste sorriso:
—Muoio!—poi guardò la finestra.
Le zie credettero che fosse davvero innamorato, lo dissero col curato, colle vicine, così che la Lucia corse dopo dieci minuti a dirlo scherzando con Ida intenta al suo poema.
—Proprio?!
—Povero ragazzo!—aggiunse la Lucia.
Ma la sera del giorno seguente la Lucia le tornò in camera con un contegno metà ilare e metà imbarazzato per dirle che c'era di là la signora Marcella, una zia di Rocco, la quale era venuta a supplicarla di un favore e non si arrischiava, perchè lei, la signorina... Insomma quel povero gobbo era innamorato sul serio e aveva tanto pregato il parroco, che questi gli aveva ottenuto dalle zie di vedere un'ultima volta la signorina.
—Si è confessato?!
—Già,—e la Lucia aprì tanto d'occhi.
Ida si alzò.
—Faccio entrare la signora Marcella? Se vedesse come piange, gli volevano tanto bene...
—È inutile, non vado;—e un turbamento mal suo grado visibile l'agitava, desto da quelle parole: si è confessato.
—Vada là... se vedesse...
—È impossibile,—ripetè la fanciulla con voce più dolce:—certe scene mi fanno male, non dormirei per un mese. Povero ragazzo! me ne dispiace, ma sarà una fantasia da malato, che gli passerà. Non posso, dite alla signora Marcella che sono dolentissima, ella pure mi capirà, non posso.
Rocco smunto, sfinito, attendeva col parroco al capezzale, ma sentendo muovere la gruccia dell'uscio alzò vivamente la testa. La zia Marcella entrò sola. Un pallore cinereo si diffuse sulla faccia del morente, che stette fiso, poi chiuse gli occhi e ricadde sul cuscino. Il prete gli si chinò sopra prendendogli il polso. Due lagrime gli scesero lentamente per le guance sciogliendoglisi sulle labbra. Erano l'ultima amarezza della sua vita; le bevve e svenne.
La mattina, quando il sole venne curiosamente a guardare con un raggio nella sua camera, il curato se n'era ito allora allora per dire la messa e dimandare un'ultima volta al Signore quella vita sciagurata. Rocco aperse gli occhi indeboliti.
—Come ti senti?—gli domandò piano la zia Marcella:—Eh! Rocco!
E gli posò una mano sulla fronte.
—Aprite la finestra.
—Eh?
Rocco non ripetè la domanda, ma la guardò con un'aria così patetica che la zia si sentì vicina a cedere.
—Che cosa vuoi? L'aria...
E gli carezzava affettuosamente il volto, ma Rocco levò una mano scheletrale e, pigliandole l'altra, se la portò alla bocca. Quella muta ed ineffabile preghiera la sconvolse; deviò gli sguardi, poi li incontrò ancora più insistenti, pieni di lagrime che non potevano più sgorgare, coll'ultima luce del pensiero, coll'ultimo calore del cuore, e non li potè sostenere.
Ritirò soavemente la mano, andò alla finestra, spalancò gli scuri. Rocco pregava. Ella titubò, aperse i vetri. Il sole inondò la camera della sua onda dorata, e una parola armoniosa di Ida percotendo sul pavimento rimbalzò sul letto di Rocco. La fanciulla canticchiava un'aria della Traviata, pettinandosi i magnifici capelli. Una lunga treccia caduta sul davanzale vi si dibatteva come un serpente nel muro. Al rumore della finestra la fanciulla s'interruppe.
Ella non scorgeva se non le coperte del letto, ma Rocco la vedeva bene.
—Oh!—mormorò la zia, sedendosi sopra una sedia, così che la fanciulla non potesse scorgerla.
Rocco guardava. Tutta l'anima, ritirandoglisi dal corpo, gli saliva alle pupille e vi bruciava. Era come una fiamma pallida e dolce di gemma, la quale si sciogliesse al sole e che, sprizzando sottile per la camera, traversava la strada, giungeva sino alla finestra della fanciulla a turbarle gli occhi colla moina di un invisibile riverbero. Ella li apriva involontariamente. Una metà dei capelli le pendeva come un velo sopra una spalla; avea il viso fresco, il seno male abbottonato; poi istantaneamente fremè, e quella fiamma le scese al seno. Quindi un'altra le si accese dentro, come un bruciore di rimorso, che cresceva sempre; le tempia le martellavano, il viso le ardeva e il seno le balzava con tale tumulto, che dovette appoggiare anche le mani al davanzale, chinandosi verso quella camera.
Allora la fiamma dal seno le tornò agli occhi, vi rimase, si alzò, le lambì sferzando la fronte e si spense.
—Ah!—sclamò la zia Marcella, vedendo che Rocco non si moveva più; e si appressò paurosamente al letto. Rocco avea gli occhi vitrei.
—Ma no!...