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III.

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Quella mattina Ida la passò nella propria camera, anzi per non essere disturbata, vi si era chiusa a chiave. Una violenta preoccupazione esercitava il suo spirito. Quell'ultimo no, risposto alla mamma, era stata la più seria parola della sua vita, e quindi la rimeditava come un duellista ripensa nella notte l'audace alterezza della propria sfida. Ma se la mamma non lo aveva compreso, ella medesima, approfondendolo, sentiva annebbiarsi la fredda limpidezza della ragione. A vent'anni, senza posizione, oramai orfana, rifiutava la mano del più ricco signore del paese; e perchè? Lo capiva, ma non sapeva darsene la formula.

Pensava, risaliva il corso della propria vita, per non discenderlo verso l'avvenire brumoso di affascinanti e terribili incertezze. Quel no lo aveva pronunciato con voce vibrante, il cuore grosso di orgoglio, quasi avendo d'intorno tutto il mondo ad applaudire il suo eroico coraggio di fanciulla; lo aveva mille volte ruminato nel silenzio della propria camera, di notte, quando l'ombra si popolava di larve e le tenebre si diradavano sulla soglia di un mondo lontano; e nullameno le era sfuggito nella inconscia risoluzione di un momento supremo. Aveva arrischiata la vita alla posta di un giuoco sconosciuto, ma tanto più tremendo, che la posta poteva tardare di molto a risolversi; quindi soffriva le prime febbri del dubbio in un tumulto di affetti e di ragionamenti.

Tutte le energie della sua volontà e delle sue passioni battagliavano intorno a questo no, che il buon senso batteva col flagello della propria volgare ironia, mentre ella seguiva le vicende di quella battaglia in sè medesima coll'ansia immemore dello spettatore, che si perde in una troppo acuta attenzione.

Era sola. La mamma, il medico, il villaggio co' suoi costumi, i suoi giudizi, erano scomparsi; nessun'eco la infastidiva, nessuna voce la irritava. Era ben sola con sè medesima, in faccia alla propria risoluzione, col sentimento tragico della sua grandezza e l'affanno compresso di vere, indeterminate e forse invincibili difficoltà. Si accorgeva che, pure fortificandosi in questa decisione, non guadagnava nulla sul futuro, ma il cuore le si alzava sotto le strette della paura, mentre il pensiero le si spingeva innanzi come un segugio a cercare il nemico. Si esaltò ancora, prese quel no e, considerandolo come lo scrittore rivoltola fra le mani la prima copia del suo primo libro, lo ripetè sonoro ed aggressivo. No era stata l'arma delle sue battaglie sempre perdute, ma dalle quali era uscita sempre illesa, cosicchè nella propria vanitosa erudizione scolastica usava paragonarsi ad Isada, lo spartano, che balzò nudo dal bagno a combattere per le vie di Sparta la splendida ed inutile audacia di Epaminonda.

No! Se quando bambina si affacciò al mondo dal ventre della madre le avessero chiesto: Vuoi entrare? ecco forse il solo no, che non avrebbe pronunziato. Ida amava la vita e, benchè l'avesse sortita in un ambiente ingrato, vi si era abbarbicata colla incontrastabile tenacità di quelle piante selvatiche, che spuntano fra le fessure delle rocce e le allargano.

Era nata trovando un padre, una madre, un fratello. Così piccina la dissero subito incomoda; la mamma le dava mal volentieri il latte e, quando ella piangeva per la fame, la dichiarava la più cattiva delle bambine del mondo. Il padre non la guardava mai senza accusarsi dell'errore di esserle padre, e il fratello di quattro anni aveva già per lei tutto il disprezzo di un primogenito.

Ida era secca e livida. Malattie o patimenti, aveva la pelle già rugosa, orribile in quell'età che i bambini hanno la freschezza dei fiori, e, strano particolare, due bellissime labbra, la meraviglia di tutte le donne che bazzicavano per casa. Ida si era sempre ricordata di questa sua sola bellezza di bambina; quindi un giorno, che la mamma gliene parlava, scappò a dire:

—Era una promessa, la manterrò.

La mamma non le aveva badato; d'altronde non avrebbe capito.

In casa si diceva da tutti che la bambina morirebbe. Molte volte, sospesa alla mammella della madre, Ida avrebbe potuto udirla, se la sua intelligenza ne fosse stata capace, ripetere senza guardarla nemmeno: È un cadavere, il Signore se la prenderà. Poi la mamma chiamava il fratellino, incantevole fanciullo dalla testa bionda, e pazza d'amore si chinava ad inondargli la fronte di baci. La piccina, perdendo così la mammella, piangeva.

—È brutta, mamma!—esclamava Peppino, mezzo ridendo e mezzo rabbrividendo alle boccacce di quel visino sozzo di lagrime e di bava.

—Non è già tua sorella.

Infatti non lo fu lungamente. Un giorno Peppino si ammalò, quell'altro giorno la difterite lo aveva ucciso. Fu un intenso, uno spasimante dolore. Il padre, che aveva concentrato in quella graziosa e fragile vita tutte le speranze della propria, ne rimase per qualche tempo come selvatico; evitava ogni contatto di persona, usciva il mattino di casa alla campagna, e seduto sul parapetto di un ponte, al rezzo di una quercia, alla poca ombra di una siepe, passava tutta la giornata nella torbida fissazione del sogno svanito, per non ritornare a casa che la sera, quasi sempre colle lagrime agli occhi, come se la malinconia del crepuscolo intenerisse la sua disperazione. Era ancora più trasandato negli abiti ed incolto nella barba, mentre la mamma, avendo pianto maggiormente, cominciava già a consolarsi e lavorava per il Gesù bambino dell'arciprete una bella veste di moerro. Poi anche il padre si confortò, ma serbando sempre nell'anima la larga cicatrice di quella morte.

La sua vita non era felice. Nato da una ricca famiglia del contado, da lunghi secoli oziosa ed ignorante, fu educato prima in un seminario, poi all'Università, dove si laureò ingegnere. Ma nelle vacanze di un anno si era innamorato della vedova dell'usciere, bella donna, che faceva allora da levatrice e da balia. Sulle prime la cosa non fece rumore, e la si suppose un capriccio, molto più che la balia non godeva una riputazione troppo illibata; poi si rivelò la passione, e fu un subbuglio in casa. I genitori e i fratelli, che già astiavano il nuovo ingegnere per le opinioni e fors'anco i vizi guadagnati negli studi, a questa follia, che offriva loro la rivincita sulla sua continua boria, minacciarono di espellerlo se non troncava la mala pratica, ed avventarono parole oscene contro la balia; ne scoppiò una scena orribile. L'altro, così attaccato di fronte, si rifugiò nella ostinazione per vincere, esagerando a sè stesso il proprio affetto e servendosi dell'ombra gettata intorno alla propria donna per vederla più bella e più poetica; quindi volle sposarla per vendicarsi di loro colla propria rovina. Il padre gli diè la legittima, illusoria, giacchè in quattro poderi di nessun conto e stimati ad un prezzo assurdo; l'ingegnere capì, ma rispose coll'alterigia di un muto disprezzo. Quindi andò a stabilirsi nel villaggio, giurando (e mantenne poi il giuramento) che per fortuna o disgrazia non avrebbe più rimesso il piede nella casa avita, nè considerati per parenti coloro, che ne lo scacciavano.

Però la vita era scabra in quella nuova posizione, perchè egli aveva poco studiato e meno appreso all'Università, e, malato dell'orgoglio della vecchia casa, ripugnava ad un lavoro pagato con grettezza da quella gente montanara. La moglie, gonfiatasi nella superbia del nuovo stato, era continuamente in sullo spendere, i denari pochi, la noia dell'ozio intollerabile, i sarcasmi degli amici frequenti, le cure minuziose ed acute. Si scoraggiò, guarì dalla passione, e fu perduto; ma non mise un lamento, nemmeno quando la moglie, ghiotta di qualche veste o di altra spesa, lo irritava di sollecitudini, affinchè lavorasse. Allora gli nacque Peppino.

Lo stagno della sua vita ridivenne ruscello attraverso nuovi fiori, giù verso la valle popolosa e sonora di vita. Egli medesimo, rinato in questa nuova esistenza, vi si guardò bello, delicato, piccino, preparandosi questa volta a conquistare l'avvenire contro tutti coloro, che, tiratolo nel fosso, ne avevano alzate le risa e venivano tutti i giorni ad impancarsi nella sua vita travagliata, siccome ad una bettola, sminuzzandosi i suoi dolori. Peppino doveva studiare, divenire un grand'uomo, mentre egli si condannerebbe alla più stretta economia per preparargli in un modesto, ma netto capitale, il danaro d'ingresso al mondo dell'aristocrazia e degli affari. Però questi non erano, sebbene profondamente sinceri, che progetti; Peppino era troppo bimbo ancora per studiare, quantunque al giudizio di tutti gli amici di casa mostrasse di già una portentosa intelligenza; le economie ben stabilite nel bilancio mentale della famiglia non si realizzavano per una folla di piccoli inconvenienti, di minime spese, di più minimi danni, i quali facevano sì che il passivo superasse sempre l'attivo.

E Ida entrò come una nuvola in questo cielo fulgido di speranza; poi il sereno si fe' nero come un panno mortuale, il vezzoso bambino era morto, e in quel cielo abbrunato la piccola nuvola fu ancora un rifugio pei profughi dalle tenebre invadenti del sepolcro.

Ida fu più curata, più amata; ma quale differenza fra la sua testa ancora stupida e la personcina pietosamente frale colla testa folle di Peppino e quella sua attività battagliera, le movenze gaie, le scappate irresistibili!

La piccina, a due anni, stentava ancora il passo, e mettendo così tardi i denti piangeva tutto il giorno. La mamma poco paziente l'abbandonava, ma egli se la pigliava in braccio e, coprendola di baci, le parlava colla commovente insensatezza dell'affetto. La bambina, incapace di comprendere le parole, doveva per un mistero del sentimento capirne la bontà, giacchè in quelle carezze scordava quasi i dolorini delle gengive, e, guardandogli negli occhi azzurri, dolci dolci, gli sprofondava le impotenti manine nella barba. I denti spuntarono, e coi denti si fortificarono le gambette, si rinfrescò la pelle, crebbero i capelli, crebbe tutto il corpo. La bambina si sviluppava, si trasformava, non era bella ed era già graziosa; e forse un giorno avrebbe posseduto la più possente e continua delle bellezze, quella simpatia indefinibile delle persone dal cuore gonfio e dalla fantasia accesa, quella bellezza, che pare quasi l'avanzo di un'altra più plastica, e che una passione o un mistero abbiano misteriosamente scomposto.

Il padre lo sentiva, la mamma no.

A poco a poco Ida sostituì Peppino. Era sempre una donna, quindi male atta alle grandi battaglie e alle grandi vittorie della vita, ma l'intelligenza, pensava l'ingegnere, non ha sesso; non era bella quanto quel morticino, e tuttavia l'espressione s'insinuava in quella sua fisonomia e la animava. Il suo raccoglimento infantile imponeva un rispetto involontario, le sue risposte fosforescenti abbarbagliavano. Il buon uomo aprì ancora il cuore in faccia all'avvenire, perchè se ne involassero tutte le speranze a riconoscerlo; e decise che Ida, diventando di anno in anno più bella e più brava, possederebbe un giorno le ricchezze preparate per Peppino, e potrebbe, rivelandosi una gran donna, come il nostro secolo ne aveva vedute tante altre, innamorare qualche gran signore e dominare in una casa principesca. Egli la visiterebbe di rado, poichè si sentiva ancora addosso, malgrado gli studii fatti, la ruggine avita; la seguirebbe da lontano, scaldandosi a quel bel sole di primavera le vecchie membra assiderate. E così, sognando tutta la vita, vivea di sogni, preparandosi altri sogni.

Qualche volta ne parlava colla moglie, che gli rideva in faccia; qualche volta con Ida, la quale afferrava qualche lembo di frase e la ripeteva.

Però la loro fortuna, non soccorsa dai tonici delle economie, intristiva. I poderi trascurati dimagrivano, le rendite si facevano più incerte e più esigue, mentre la moglie seguitava a nuotare come un'anitra nella voluttà di una grassa illusione. Egli, nell'inerzia accorgendosi inutilmente di tutto, ne provava un grave malessere, dal quale non usciva se non cacciandosi nel giardino dei sogni, colla bambina sulle ginocchia, seduto sulla larga poltrona di percallo, solo in casa, poichè l'altra era sempre da qualche vicina per una qualche faccenda, che svaniva in un pettegolezzo.

A quattro anni Ida leggeva e scriveva, e l'ingegnere, che aveva trovato in un giornale il nome di Froebel, parlava continuamente della primissima istruzione, degli albori della intelligenza, della sintesi tanto meravigliosa e tanto inavvertita di tutta la logica nel semplice abbecedario. Ma sempre distraendosi, la moglie gli rimase ancora incinta.

Questa volta la gravidanza fu soggetto di male parole, i due coniugi se la rinfacciarono a vicenda; la nuova vita, che avrebbe dovuto stringere più fortemente la loro, vi si cacciò in mezzo e li divise. Egli riflettè che un'altra bambina sarebbe infelice nel mondo, rendendo infelici loro stessi, che male potrebbero educarla, male dotarla; poi contrasterebbe al cammino di Ida, ed essendo forse brutta e volgare quanto la madre, riattaccherebbe la famiglia a quella ignobile borghesia di villaggio, alla quale egli non avea mai appartenuto e nella quale era scivolato colla follia del matrimonio. Un altro maschio?... Ma dal giorno che Peppino era morto, egli non poteva avere più figli! Un altro maschio rovinerebbe Ida, senza riempirgli nell'anima la fredda lacuna di quella vita sbocciata e caduta come un fiore.

Geltrude invece, sperando di rifare il suo bel bambino, per dispetto del marito ne parlava assiduamente, massime a pranzo; così che l'altro, malgrado una qualche bestemmia, dovea pure andarne battuto, avendo piegato la prima volta il capo a quel matrimonio con una donna inferiore, e non avendolo più rialzato, vergognoso della propria debolezza, che gli alterchi avrebbero reso anche più ridicola. Taceva, divorava la bizza, o la sfogava indirettamente. Ma più la gravidanza inoltrava e più Geltrude la covava collo sguardo e col pensiero, tutta superba perchè la contessa Monteno di Valdiffusa, ricchissima tenuta di quel comune, ella medesima incinta, le aveva detto, passeggiando nel bosco, un giorno che era andata a trovarla nella carrettella dell'arciprete:

—Chissà se non partoriremo assieme, e tutte due un bambino.

La contessa gracile e malaticcia soffriva assai, e Geltrude, sebbene robusta, cercava di imitarla in quei patimenti per deferenza alla gran signora, che si degnava d'invitarla al proprio castello. Vi era ritornata più volte, sempre più accetta, giacchè la contessa, condannata in villa dai medici e noiata da morirne, sola col marito cacciatore instancabile, si sentiva come sollevare lo spirito conversando con qualche estraneo. Poi Geltrude, già levatrice ed una volta anche balia, le parlava sempre di parti, di bambini; conosceva a certi segni il sesso del feto, aveva rimedii per le nausee, una suppellettile fra pregiudizi e cognizioni, che intrattenevano il cuore della povera contessa, già etica, e dopo sei anni di matrimonio allora solamente alla sua prima gravidanza. E voleva un bambino.

—Le donne sono troppo deboli per la vita.

—Anche l'ingegnere,—così ella chiamava fuori di casa il marito,—dice sempre così.

Ma Geltrude partorì prima della contessa un maschio così esile e doloroso a vedersi che pareva un cadavere; tutti dissero che non sarebbe vissuto, e nessuno s'ingannò. Dopo quindici giorni lo portarono al camposanto; il giorno dopo Geltrude, andata a trovare la contessa malatissima dopo il parto, se ne portava a casa una bambina, bella come un angelo. La povera contessa, che si sentiva soffocare sotto le fredde spire della tisi, avea consentito quell'immane sacrificio perchè la piccina non suggesse al suo seno, o non respirasse nel suo alito il veleno della fatale malattia.

Era stata una scena atroce. Quando Geltrude, florida di salute, le presentò Jela per l'ultimo bacio, la contessa nella sfinitezza del proprio dolore avea ancora trovate due lagrime. Il marito, distrattosi involontariamente ad ammirare il petto turgido della balia, non avea trovato nè una parola, nè una carezza; la vecchia cameriera si era nascosto il volto fra le palme scoppiando in singhiozzi, mentre Geltrude stessa si commoveva suo malgrado, e la contessa fra quella cornice di dolori, nella patetica sublimità del proprio pallore di moribonda, pareva una martire.

Quella scena fece che Geltrude amasse Jela.

Infatti convenne con l'ingegnere che non avrebbe accettati salari o regali, allattando la bambina per affezione e cortesia verso la madre. Così il povero uomo salvava il suo orgoglio campagnuolo, mentre non si era piegato a quest'altra follia della moglie se non per la idea improvvisa che la fortuna, facendo di Jela la sorella di Ida, le unisse senz'altro nel medesimo destino per il medesimo mondo.

Ida, ormai di cinque anni, si mise come una mamma intorno a Jela.

La contessa di Monteno morì raccomandando al conte Ida e Geltrude. Egli ne fu scosso per qualche giorno, fece venire le piccine al castello, poi si calmò, e poichè si conosceva inadatto a curare quell'infanzia e sapeva Jela in mani che mai le migliori, lasciò andare le cose innanzi, tirando innanzi egli medesimo secondo il solito.

Una volta mandò un grosso dono; l'ingegnere lo fece respingere da Ida con una lettera scritta da lui e copiata dalla bambina, che lo ubbriacò nel proprio amore di padre. Il conte non ripetè più l'errore, limitandosi ad un complimento ben tornito, quando veniva a trovarle. Così passarono degli anni.

Jela prosperava. I medici approvavano quella vita, e il conte approvava i medici. Era una piccina bianca e rosea, coi capelli più biondi della seta e gli occhi color di viola; avea le carni di una inesprimibile finezza, i movimenti di un'eleganza e di una civetteria senza nome. Era dolce e buona. Non piangeva, chiamava mamma Geltrude, zio l'ingegnere, sorella Ida. A Geltrude quel nome di mamma facea talvolta sognare la ricchissima tenuta di Valdiffusa, l'ingegnere sorrideva del proprio come di un complimento, Ida esercitava l'autorità di sorella maggiore, tiranneggiandola con abbastanza mitezza. Jela era pazza per Ida.

Anche il conte le diceva sorelle.

Quando Jela toccò i sei anni il conte pensò a ritirarla dal villaggio, ma volle che Ida la seguisse; quindi cominciò per entrambe una nuova vita. Avevano i medesimi maestri, uscivano nel medesimo calesse sorvegliate dalla vecchia governante, vestivano i medesimi abiti, cosicchè si sarebbero difficilmente distinte; anzi Ida aveva un'aria ancora più fine ed altera. In quegli immensi appartamenti, arredati con un vecchio e nobile lusso, ella si trovava ancora meglio che non a casa propria; trattava i servi con maniera di piccola sultana, aveva una dolcezza, che respingeva e soggiogava. Così fanciulla non usava più dimestichezza con alcuno; ragionava e posava. Quasi tutto le fosse dovuto, nulla la maravigliava, e tuttavia sapeva che un giorno le converrebbe tornare al villaggio paterno. Quindi nelle lettere all'ingegnere gli narrava la propria vita, anatomizzando inconsciamente sè stessa, così che egli ne gongolava massime al racconto degli studii, nei quali Ida ripeteva a Jela le lezioni facendogliene apprendere col misterioso magistero dei fanciulli nel comunicarsi le idee.

Il conte la osservava stupito, i maestri ne alzavano gli elogi.

Ella cresceva bruna e slanciata, i capelli nerissimi le crescevano di una lunghezza eccessiva, ondulati e pieni di riflessi azzurrognoli; aveva gli occhi enormi, le estremità di una finezza rarissima. Parlava già il francese e balbettava l'inglese. A dodici anni avea letto un romanzo, a tredici un'opera di filosofia, avea ammonizioni per Jela, disegni per sè stessa, risposte per tutti.

Un giorno il suo maestro di storia, lamentando la povera condizione della donna in società, le chiese se desiderasse essere un uomo.

—No.

—Perchè?

—L'uomo non s'innamora della donna,—aveva risposto la fanciulla, accomodandosi un riccio di capelli sul seno, che cominciava a gonfiarsi delle seduzioni della donna. Avea la natura del lusso. Mentre Jela ancora bambina ruzzava alle sottane della vecchia cameriera, ella errava sola e pensierosa pei vasti appartamenti, movendosi come un'ombra nella penombra dei cortinaggi, esaminando ogni mobile, incantandosi dinanzi ai ritratti delle belle dame e degli eleganti cavalieri. Quegli antenati erano come suoi e aveano vissuto la vita dei suoi sogni, giacchè l'orgoglio della fanciulla provava già il bisogno di avere un passato, intanto che i suoi desiderii si precipitavano verso l'avvenire. La luce degli specchi e dei damaschi le piaceva già meglio che la luce del sole e delle acque; la poesia di quelle stanze, composte ad una ignota vita, la commoveva più che la poesia del bosco coi decrepiti ippocastani e le elci melanconiche. Spesso sdraiata le lunghe ore sopra un immenso divano dorato, la testa sopra un cuscino a ricami, i piedi sulla seta, si smarriva di sogno in sogno. La lucida levigatezza delle stoffe aveva per lei misteriose voluttà, i gracili capolavori, che ingombravano i tavolini, incalcolabili ed arcane significazioni; ognuno di essi non poteva occupare se non quel posto, ognuno di essi era necessario, i fiori dei tappeti e le mitologie delle volte, i paracamini e le poltrone, i vasi di maiolica e le porcellane di Sassonia, i ritratti e gli specchi vuoti, che la riproducevano all'infinito, spingendola per una fila interminata di saloni verso il salone fatato, al quale le chimere della sua fantasia cercavano inutilmente una porta aperta.

Più di una volta erano venuti a cercarla in quelle fantasticaggini, ma vi ritornava appena potesse.

Un'altra volta il conte la sorprese abbandonata sopra una poltrona. Avea le gote accese, l'abito le lasciava scoperte le caviglie, la posa le ingrossava il seno. Egli s'incantò come un poeta dinanzi all'aurora di quella donna. Una sottile seduzione, un profumo primaticcio esalavano da quel corpo troppo tenero, ma coi contorni già molli e le finezze indecise. Ella sorrideva nella penombra cogli occhi socchiusi, e quella penombra, che la ingrandiva facendola forse sognare, la rendeva un sogno per un altro.

Il conte ristette sulle punte dei piedi. La fanciulla lo vide, ma s'infinse; forse dubitò, e la vita incomincia dal dubbio.

Ma la vecchia cameriera, d'accordo col prete, non era contenta di Ida, la quale non le pareva una fanciulla come le altre, con quella gentilezza intrattabile nelle proprie voglie e quelle risposte, quasi dicesse sempre il pretesto e non la ragione di quello che faceva. Alla sera, ripetendo le orazioni con Jela, pareva che Ida vi si prestasse per giuoco, mentre evitava costantemente la compagnia del prete per una ripugnanza istintiva. Quella figura servile, sempre in estasi davanti al signor conte, irritava la fanciulla. Talora a pranzo, a qualche dialogo, quando nella riconoscenza della ghiottoneria egli si sprofondava in adulazioni del peggior gusto, Ida gli piantava negli occhi i suoi occhi neri, audaci e profondi, che lo ardevano scrutandolo. Il prete s'impigliava, perdeva il filo delle frasi, col fremito di un solletico per le vene, cercando qualche rimprovero per sacrificarla a Jela; ma Ida si sapeva troppo forte, e vi consentiva di buon grado.

Però una volta egli toccò della sua cattiva posizione in società, e Ida impallidì. Da quel momento la guerra fu dichiarata; la fanciulla, spalleggiata dagli altri maestri, proruppe nella incredulità, sostenendosi così bene colla vivacità dell'ingegno e la molteplicità delle letture, che il prete uscì più di una volta confuso dalla discussione. Jela rideva senza capire, il conte comprendendo, ma spesso allontanava Jela. Eppure Ida aveva un vuoto nell'anima.

In quel ricco palazzo era sola, e non avea alcuno fuori del palazzo. La sua casa al villaggio col babbo e la mamma non era più sua, giacchè vi si sarebbe sentita ancora più straniera. Il padre, che vociava sempre, la mamma, che girellava in pianelle; in tutta la casa non c'era che una specchiera di noce e una poltrona di percallo. Nulla, nemmeno quell'isolamento aristocratico del palazzo, dove i servitori non la incontravano mai senza inchinarsi, e potea aggirarsi nel silenzio, sola, sognando dei sogni da imperatrice, uscendone in carrozza scoperta a farsi ammirare dalla gente. Si accorgeva che i suoi genitori vi sarebbero stati anche più ridicoli, mentre ella vi stava a meraviglia. E fra lei e loro s'insinuava un filo d'acqua che apriva il terreno in fosso, lo allargava in ruscello, lo gonfiava in fiume, ruinava in torrente, cresceva a lago, immenso, come un mare, più di un mare. Era sola, non aveva nulla da lamentare o da desiderare, eppure un malessere la sorprendeva di quando in quando, quasi un ribrezzo, un freddo, che le si rifuggiva nel cuore.

Il conte avea con lei la più perfetta cortesia, non le usava differenza colla figlia, ma nullameno tutti nel castello ne la distinguevano, persino i sopramobili, che si lasciavano infrangere da Jela con una muta ed inalterabile devozione.

Una mattina ella ruppe disgraziatamente un gruppetto di Sassonia, tagliandosi un dito ad una scheggia. Jela dal canto proprio avea fracassato un piccolo specchio di Murano, antichissimo. La cameriera, che sopravvenne, sgridò Jela con una carezza, perchè avea corso pericolo di ferirsi, e rivolgendosi secca secca all'altra:

—Quando la roba non è vostra, bisognerebbe andare più piano,—disse nella sua lingua.

Quella notte Ida invece di dormire pianse.

Ma quella vita e quegli appartamenti la trattenevano. Ne conosceva tutti gli angoli, tutti gli oggetti, tutte le figure; aveva fantasticato su tutto, riempiendo tutto di sè stessa, giacchè gli appartamenti vuoti dalla morte della contessa aspettavano una donna. Ella non avrebbe domandato se non di occuparli per sempre, senza uscirne mai e senza mutarli; ella sola, ma sola davvero come una misteriosa prigioniera o una fata anche più misteriosa delle sue leggende favorite, coi servi muti, il mistero intorno, profondendo l'infinito in quella inutile esistenza senza fiori e senza musica, senza genitori e senza Jela. Ella già donna, ma sempre colle sottane corte, senza far nulla, nutrendosi di quel lusso, odorando i fiori del tappeto, aggirandosi fra la folla dei ritratti, riposandosi ad immense distanze sopra uno sgabello od una poltrona ricamata... finchè un raggio di sole, illuminando l'occhio di un antico cavaliere, la faceva rivolgere, e sotto quello sguardo di un uomo Ida sentiva interrompersi il sogno.

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No

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