Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

Fra Tommaso Campanella, Vol. 2
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Amabile Luigi. Fra Tommaso Campanella, Vol. 2

CAP. IV

CAP. V

CAP. VI

INDICE DEL VOL. II

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I. Al declinare del giorno 8 novembre 1599, le quattro galere provenienti dalla Calabria giungevano in vista di Napoli, e poco dopo un battello spiccavasi dal Regio «tarcenale», come allora si diceva, ed andava ad incontrarle. Nella sera, all'entrare in porto, dalle antenne di ciascuna galera si vide spenzolare un uomo appiccato, e due altri si videro squartare in mezzo alle galere medesime, «per spavento del populo di questa città, concorso in numero infinito alla fama di questi funesti spettacoli»1. L'indomani, i carcerati venivano sbarcati e rinchiusi parte nel Castel nuovo e parte nel Castello dell'uovo.

Ecco come era andata la faccenda di queste esecuzioni: ce ne danno notizie abbastanza precise in ispecie tre documenti autentici da noi raccolti, una lettera Vicereale del 9 novembre rinvenuta in Simancas, e due certificati scritti più tardi da' sacerdoti che avevano assistito alcuni di quegl'infelici, inserti poi nel processo di eresia. Il Vicerè scriveva a S. M.tà: «D. Garzia di Toledo con le quattro galere giunse ieri con Carlo Spinelli e i prigioni di Calabria, de' quali si aveano da giustiziare in Monteleone sei che erano convinti e confessi, e per non trattenere le galere li condussero con gli altri. Prima di sera mi avvertirono di quanto accadeva, e comandai che andassero ad incontrare le galere alcuni Religiosi i quali li aiutassero a ben morire, e che all'entrata del porto ne appiccassero quattro alle antenne e ne squartassero due, come si fece; ma ordinai che dapprima li strozzassero, ed essi morirono molto bene confessando i loro delitti, quantunque uno rimanesse pertinace sino all'ultimo ed infine morisse come gli altri. Oggi i prigioni sono stati posti ne' Castelli» etc.2. Adunque l'ordine delle esecuzioni anche questa volta fu dato dal Vicerè; e da una lettera del Nunzio, come vedremo più sotto, risulta che le galere si fermarono in Nisida per entrare la sera nel porto, od almeno che si era diffusa la voce di questo avvenimento, senza dubbio insieme con la fama del funesto spettacolo, secondo l'espressione del Residente Veneto. Nè fu vero che que' due infelici venissero squartati vivi, siccome dissero di poi il Parrino e il Giannone ed anzi lo stesso Residente, il quale lo riferì al suo Governo del pari il 9 novembre, mostrando bene che tale era stata l'impressione avutane in Napoli; il Vicerè fu tanto caritatevole da pensare non solo a questo, ma anche a far salvare le anime di quegl'infelici coll'invio de' Religiosi, mentre sulle galere non mancavano mai i rispettivi Cappellani, sicchè in Madrid doverono rimanerne edificatissimi. Un certificato appunto del Cappellano della galera denominata S.ta Maria, D. Eligio Marti, che poi con la stessa qualità passò a servire nell'ospedale degl'Incurabili, ed un certificato di Gio. Luca de Crescenzio de' Padri Ministri degl'infermi, o Padri della Crocella com'erano chiamati volgarmente, ci rivelano il resto, mostrandoci a quale ordine di Religiosi il Vicerè fosse ricorso3. Erano allora in gran voga, e giustamente, i Padri Ministri degli infermi: lo stesso venerabile Camillo de Lellis li avea condotti in Napoli nel 1588, ed avea fatto grandemente apprezzare la loro caritatevole istituzione, sicchè ben presto, per le beneficenze di D.a Giulia Castelli, ebbero una distinta casa di Noviziato di rimpetto al Castello dell'ovo (alle Crocelle), oltrechè s'istallarono negli ospedali dell'Annunziata, degl'Incurabili, di S. Giacomo, venendo poi anche il De Lellis pel servizio corporale degl'infermi all'Annunziata; solo più tardi, col crescere della loro fortuna, preferirono il servizio spirituale, onde finirono per mantenersi in riputazione principalmente con la volgare credenza che avessero una speciale preghiera per abbreviare l'agonia degl'infermi accelerandone la morte! Più Religiosi di quest'ordine andarono a confortare quelli che doveano essere giustiziati, e al De Crescenzio toccò di confortare Gio. Battista Vitale, «il quale fu all'hora affocato dalli ministri di giustitia sopra uno schiffo e poi squartato in mezzo alle dette galere»; ma «in quel medesimo tempo che stava per morire, publice et in presentia nostra, e del fiscale sciarava, che si ritrovava in dette galere con detto Carlo Spinello, dichiarò, che quello che esso havea detto contro quelle persone da lui nominate nelle sue depositioni, e specialmente contro monaci, tanto in materia di Ribellione, quanto in materia di heresia non era vero, ma che il tutto havea detto per dolori de' tormenti datili dal predetto fiscale sciarava». Al Marti poi toccò di udire la stessa dichiarazione, durante il viaggio, non solo dal Vitale ma anche dai Caccia e dal Pisano, e da ultimo toccò di trovarsi presente ed aiutare a ben morire «apparandosi detto acto di giustitia sopra la detta galiera S.ta Maria» per Gio. Battista Vitale e per Gio. Tommaso Caccia, i quali ad alta voce innanzi al fiscale Sciarava là presente ripeterono la dichiarazione e volevano che fosse scritta; «qual dechiaratione da loro facta, fu eseguita la detta giustitia, et furono li predetti Gio. Battista et Gio. Thomaso affoghati sopra uno schifo, et poi squartati in mezo di dette Galiere». Intanto come mai il Vicerè non disse nulla su tale proposito, e parlò invece della temporanea pertinacia irreligiosa mostrata da uno di questi infelici? Verosimilmente essi fecero dichiarazioni di discolpe, ma parziali, avendo in realtà rivelato per atroci torture più di quello che conoscevano, e noi l'abbiamo fatto avvertire a suo tempo, nè il Vitale potè smentire ciò che avea rivelato in materia di eresia, mentre non era stato mai interrogato su tale materia; quanto poi alla pertinacia di uno di loro, la cosa fu vera ed accadde appunto in persona del Vitale. Difatti si ebbe in sèguito la testimonianza di Maurizio, il quale sul punto di morte narrò a' Delegati del S.to Officio che suo cognato «che fu giustitiato qua in Napoli sopra, il molo dentro mare… non si voleva convertere, perchè diceva havere inteso da fra Dionisio che non ci era Christo, ciò e, che non ci credeva»4. Si ebbe poi anche, nel processo di eresia, la testimonianza del Barone di Cropani, il quale a detto altrui, giacchè soffrendo il mal di mare non vide nulla, disse che «tre che furo giustificiati sopra la galera», dove egli si trovava, gridavano essere stato loro estorto co' tormenti quanto aveano rivelato intorno alla ribellione, aggiungendo che «un Gio. Battista de Nicastro quale fu giustificato non si voleva convertire, ma disse che voleva andare a casa del diavolo, et ivi aspettare don loyse sciarava, si ben ala fine si ridusse et morì devotamente»5. È facile ravvisare che si alluderebbe qui propriamente a Gio. Battista Bonazza, il quale come vedremo or ora dovè essere giustiziato del pari; se non che in quanto alla pertinacia irreligiosa da lui mostrata probabilmente il Barone equivocò, confondendolo con Gio. Battista Vitale.

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Poco dopo, o tutt'al più contemporaneamente, venne fuori la Difesa del Campanella scritta dal De Leonardis: e in sèguito di essa una Replica di D. Gio. Sances. Ad entrambi questi Atti possiamo facilmente assegnare la data delle prime settimane di marzo, poichè certamente durante il marzo le difese doverono essere discusse: vedremo infatti esservi state negli ultimi giorni di marzo e primi di aprile le feste di Pasqua, e poco dopo, il 12 aprile, la richiesta del Sances a' Giudici di venire alla spedizione della causa. La Difesa scritta dal De Leonardis mostra che pel Campanella non ci furono nè documenti nè testimoni a discarico: nulla di simile vi si trova citato, e chiaramente vi si scorge che l'Avvocato sentiva di scrivere per una causa persa, giacchè il Campanella non poteva non dirsi convinto e confesso qual capo della congiura o tentata ribellione101. Fin dall'esordio della Difesa l'Avvocato non potè fare a meno di riconoscere una criminosa cospirazione contro la Real M.tà; se non che goffamente magnificò la clemenza e la bontà di Filippo III, per avere ordinata questa Difesa, ed affermò che da parte sua avrebbe voluto dilaniare e fare a brani con Neronica voluttà «simili facinorosi delinquenti», e dichiarò che per obbedienza agli ordini del Vicerè presentava al Nunzio e al De Vera «dottissimi e religiosi Giudici Apostolici» le ragioni che gli parevano favorevoli alla causa. Due questioni egli vide nella causa: la 1a, se il Campanella, dato che fosse reo di tale delitto di lesa Maestà, potesse consegnarsi alla Curia secolare, e siffatta questione egli dovè riconoscere già sciolta col Breve Papale, che ne avea dato larga facoltà a' Giudici Apostolici; la 2a, se il Campanella avesse commesso tale delitto di lesa Maestà, che dovesse consegnarsi alla Curia secolare, ciò che equivaleva a condannarlo alla morte, e sopra tale questione egli stimò aversi a considerare le circostanze del fatto e la qualità della persona. Notò quindi che il Campanella non gli pareva «legittimamente convinto» giusta i termini del Breve, poichè tutti i testimoni erano socii del delitto, i quali bastavano a provare la congiura, ma non bastavano a far condannare alla pena di morte, massime in persona di un Clerico in sacris, contro il quale occorreva sempre una forma più privilegiata che nel Laico; oltracciò tutti i testimoni lo aveano detto capo della congiura, e per esservi congiura avrebbe dovuto esservi concerto di molti a fine di sovvertire lo Stato, ma i testimoni medesimi aveano detto che doveano fatalmente avvenire rumori e rivoluzioni nel Regno, ed allora egli avrebbe sottratta la Provincia alla potestà Regia, ma allora si era già verificata la sovversione dello Stato. Non gli pareva poi nemmeno confesso di congiura e per questo legittimamente convinto, mentre dalla sua confessione non risultava «una così grande ed acerba cospirazione quale era stata asserta da' testimoni», perchè appunto egli voleva far la repubblica quando fatalmente succedessero rumori e rivoluzioni, e non aveva mai approvato l'aiuto de' turchi. Aggiunse inoltre che la congiura non doveva avere una esecuzione prossima ed immediata, e poteva anche non verificarsi o poteva verificarsi in un senso buono, essendo preferibile nel caso di grossi trambusti, che si costituisse la repubblica dall'inquisito con la volontà del Papa e del Re, rimanendo impedita la conquista a' nemici invasori. In somma trattavasi della preparazione ad un mutamento in caso di un futuro evento dubbio, e l'inquisito non era suddito del Re e non avrebbe quindi dovuto mandarsi a morte come se il delitto fosse stato consumato o vi fosse stato disegno di uccidere il Re; non era poi l'inquisito nemmeno tale da poter sovvertire uno Stato, e quindi la pietà e l'equità de' Giudici Apostolici poteva fargli scansare la morte, «salvo sempre il più sano giudizio e l'autorità della Sede Apostolica», in servizio della quale e del Re Filippo egli, l'Avvocato, avrebbe voluto volentieri morire se fosse stato necessario! – Messe da parte le goffe ampollosità del tempo, rimane che il De Leonardis cercò, per quanto potè, di salvare il Campanella dalla morte: tutti i suoi sforzi furono concentrati su questo punto, riuscendo impossibile negare ciò che fra Tommaso avea confessato, e parecchie osservazioni dell'Avvocato, che i lettori vorranno senza dubbio più minutamente conoscere percorrendo la Difesa da lui scritta, offrono tutti gli elementi di una critica di quel Breve Papale che avea tanto largamente concesso di rilasciare alla Curia secolare gli ecclesiastici legittimamente convinti o confessi «di ribellione o prodizione, o altri delitti di lesa Maestà», senza tener conto di alcuna delle circostanze restrittive ammesse dalla giurisprudenza del tempo. Una sola cosa a noi profani in giurisprudenza apparisce imputabile al De Leonardis, la mancanza dell'argomento che i testimoni nella più gran parte non erano stati esaminati o ripetuti nel foro competente, e però non potevano dirsi capaci di legittimamente convincere: ma bisogna pur riconoscere che si era fatta una inestricabile confusione di fori, mentre da' «Giudici Apostolici», e segnatamente dal Nunzio, si era tollerato che figurassero nel processo, e quindi ne' Riassunti, come elementi del giudizio, perfino le deposizioni raccolte da fra Marco e fra Cornelio, ed anche dal Vescovo di Gerace, nel foro di S.to Officio; così la mancanza del detto argomento non potè davvero influire in nulla. Avremo poi a vedere che il Campanella medesimo, nella Difesa sua propria, venuta in luce più tardi ed inserta nel processo di eresia, non trovò argomenti migliori di quelli del De Leonardis, e distinguendo il crimen volitum e il crimen patratum (distinzione che ne' delitti di lesa Maestà non giovava) concluse doverglisi dare piuttosto la pena del carcere perpetuo e non la pena di morte. Assai più tardi poi, nella sua Narrazione, scrisse che il suo Avvocato «più presto avvocò contra per diventar Consigliero»: ma anche questa volta bisogna riconoscere, che le necessità sue l'abbiano spinto a scrivere senza alcun ritegno tutto ciò che potè sembrargli utile a farlo uscire da una tristissima posizione.

Venendo all'Allegazione del Sances in risposta a quella del De Leonardis, abbiamo poco da dire102. Egli, rivolgendosi allo Ill.mo Presidente e al dottissimo Magistrato, stimò del tutto naturale che il Campanella, «legittimamente convinto e confesso» del delitto di lesa Maestà, dovesse «essere attualmente degradato e consegnato alla Curia secolare, tanto per disposizione del dritto, quanto in forza del rescritto di commissione del SS.mo Padre». E confutando le ragioni dell'Avvocato, fece notare che, circa la qualità della persona, trattavasi di un frate di mancata vita monastica, assiduo co' malfattori, già condannato ad abiurare, cospiratore contro gli Stati del Re Cattolico per menare vita lussuriosa e seminare eresie, autore e capo di tutto, convinto da testimoni come il Franza, il Cordova e due altri già carcerati col Pisano (sicuramente il Gagliardo e il Conia), i quali, sebbene socii nel delitto, in questo di lesa Maestà per una speciale disposizione del dritto provavano; che inoltre era confesso, come essi medesimi i «Padri» lo avevano udito, di avere eccitato a prendere le armi e procurare amici, confesso di formata macchinazione, soggetto ad essere degradato e consegnato alla Curia secolare anche per un rescritto espresso del Papa, il quale volle mostrare quanto difendesse e proteggesse gli Stati di S. M.tà. Nè egli faceva istanza che fosse condannato perchè avea già cacciato il Re e fatta la Repubblica, ma per avere macchinato e sedotto a farla le persone che si erano mostrate pronte, dovendosi nel delitto di lesa Maestà, per dritto, punire con la stessa pena così la volontà come l'effetto; la macchinazione era seguìta, e i Giudici poteano degradare questo clerico ribelle alla Maestà Divina ed umana, causa della perdita della vita, de' beni e dell'onore, per tanti infelici, e de' beni e della patria per molti contumaci, costituiti anche in pericolo di vita, essendo stato lui di ogni cosa duce, autore e capo.

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