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CAPITOLO XIV

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Primordi del regno di Giacomo in Aragona. Raffermata amistà tra Sicilia e Genova. Per quali ragioni allenava la guerra. Fazioni di Ruggiero Loria nel reame di Puglia e in Grecia. Giacomo si volge alla pace. Opinione pubblica in Sicilia; patriotti, Federigo d’Aragona, fazione servile; primi oratori al re. Primo trattato di Giacomo con re Carlo. Celestino V ratifica la pace. Più vigorosamente la procaccia Bonifazio VIII. Pratiche delle corti di Roma e d’Aragona con l’infante Federigo. Nuovi oratori a re Giacomo. Federigo chiamato al regno di Sicilia. Vana prova di papa Bonifazio a impedirlo. Settembre 1291 – gennaio 1296.

Volle re Pietro disgiunti i due reami d’Aragona e Sicilia, che per la distanza di tanto mare, e più per la libertà degli spiriti ed ordini pubblici, mal si potean reggere insieme, nè l’uno avria sofferto la dominazione dell’altro. Però chiamava a succedergli in Aragona Alfonso; Giacomo in Sicilia; quegli per testamento a Port Fangos pria dell’occupazione dell’isola; questi nel parlamento di Messina76: e venendo poi a morte, per fuggir viluppo novello di scomuniche, non fe’ altro lascio delle due corone combattutegli sì acerbamente dal papa; ma probabil è che desse in voce alcun solenne ricordo a tenerle divise per sempre77. Perchè a dieci marzo dell’ottantasei, Alfonso, giovane e ne’ principi d’un regno, piuttosto per compier tale ordinamento politico del padre, che per pensiero ch’aver potesse della morte, istituiva erede Giacomo, sì veramente che lasciasse la Sicilia a Federigo; e dava a Federigo la seconda aspettativa del reame d’Aragona, se Giacomo avesse più a grado la corona dell’isola, o si morisse senza figliuoli; nel qual caso poneva a Federigo ugual legge di risegnar la Sicilia a Pietro, lor ultimo fratello78. Ma Giacomo, che in fatto di principato mai non guardò misura, dapprima rimettea al caso della sua morte senza prole il partaggio delle due corone79; e allontanato di Sicilia, più aperto dinegava quei termini, che non eran legge scritta del padre, nè Alfonso li potea comandare. Non ceduta l’isola dunque; nel coronarsi a Saragozza il ventiquattro settembre del novantuno, protestò ascender quel trono per ragion del suo sangue, non per lascito di Alfonso80. Fortificovvisi con assentir quante più larghe franchezze e guarentige sepper chiedere le corti; con fidanzarsi a una fanciulla di nove anni, figliuola di Sancio re di Castiglia; e fermar di novembre del medesimo anno la pace con questo vicino, stigator delle civili turbolenze d’Aragona81. Raffrenò anco le guerre private; spense i ladroni che infestavano il paese82; spinse suoi maneggi fino a chieder aiuto di danari al soldano d’Egitto, al quale mandò Romeo di Maramondo e Ramondo Alamanno a vantar le sue vittorie e la sua possanza su tutte le corti cristiane della Spagna83: e fin qui rideasi della corte di Roma, fattasi a vietargli, con parole più che fermi colpi, il possedimento dell’Aragona84.

Tornaron vane del pari le pratiche di suscitar Genova a gagliardi aiuti contro la Sicilia, tentate come dicemmo fin dai primi principi di quella guerra, e ripigliate da Carlo lo Zoppo dopo la pace con Alfonso, e or incalzate con maggior calore anche dal papa85. Ma Genova in quel tempo non curava nelle cose temporali l’autorità della cotte di Roma; e quanto alla corte di Francia, se volea tenersela amica per comodo de’ commerci, il medesimo interesse la tirava a restare in pace con Aragona e Sicilia, nè amava una briga con le loro forze navali congiunte e vittoriose, mentre avea a lottare con le rivali repubbliche marittime d’Italia. I guelfi di Genova per vero posponendo, come fanno i faziosi, l’interesse pubblico alle passioni di parte, s’erano indettati con l’Angioino; e privati corsali, in sembianza di far prede su i Pisani, stendean la mano contro i Catalani che con essi navigavano86; e la interruzione de’ commerci tra Genova e Sicilia, avvenuta in questo tempo, mostrava i pericoli della guerra, che l’acume mercantile conosce sì da lungi. Ma come dopo que’ sospetti giunse a Messian un vago romore d’armata allestita in Genova, galee già uscite in corso, prese fatte ne mari di Lilibeo; tutta la Sicilia sen commosse: e rammaricava l’assenza dell’Ammiraglio, inebbriato in Catalogna presso il re87 a comparir primo a corte, cavalcare con grande stuol di clienti, abbattere ne’ tornei le più forti lance di Spagna88. E Federigo, o quegli esperti consiglieri rimasi con esso alla siciliana corte, seppero antivenir questa guerra. Mandano a Genova un oratore, affidato in pubblico a salde ragioni, in segreto alla riputazion dei Doria e Spinola e di tutta parte ghibellina. Il quale nei consigli del comune tornò a mente l’antica amistà con Aragona, con Sicilia; le enormezze della ambizione e avarizia di casa d’Angiò contro Genova: or, mutando gli amici co’ nemici, non credesser pure soggiogar l’isola a un tratto, nè provocar questa guerra senta rovina de’ loro commerci; e pensasser alle avverse bandiere di Venezia e Pisa, che potrebber trovare nuovi compagni. Soverchiata da cotesti evidenti interessi della repubblica ogni briga papale, e venuti allo stasso effetto altri legati del re d’Aragona, si vinse il partito, che rafferma la amistà con Giacomo, si restasse il comune da ogni atto ostile a Sicilia; non fosse lecito a privati armarsi contr’essa sotto quantunque colore89. Per lealtà, e riguardo all’ammiraglio di Sicilia, sì pronto alle vendette, l’anno appresso gli fu resa incontanente una nave carica di grano per Pisa, predata da mercatanti genovesi, con quel pretesto della cerca di merci pisane: e aggiungevi il comune, indennità di lire duemiladugento, ambasciadori a Federigo, che lui e Ruggiero sincerasser della fede genovese. Mantenuta fu questa poi contro la seduzion di larghe promesse, e la riputazione d’un’ambasciata di molti cavalieri di re Carlo, col conte d’Artois e legati della corte di Roma, allo scorcio del medesimo anno novantadue. Perchè i cittadini, sebbene divisi e parteggianti, sì che due anni appresso vennero al sangue, d’accordo rifiutaron ora la lega col re di Napoli, promettendo solo rigorosissima neutralità; tantochè dispettosi, senz’alcun frutto partironsi gli ambasciadori90.

Intanto volgean le cose d’Oriente ad estrema rovina: Acri in primavera del novantuno cadde sotto le armi d’Egitto: e le stragi dei battezzati, gli atroci trionfi degli infedeli91, davano argomento per tutta cristianità a lamentazioni piene di rabbia; correndo le lingue alla corte di Roma, e a’ tesori e al sangue sparsi contro Sicilia nel nome santo della croce. Però fu necessitata la romana corte a gridar addosso a’ maumettisti, tacendo alquanto di noi92. Rattenea ancora il papa un suo segreto pendìo a parte ghibellina, e l’amino tutto posto al vicino intento d’aggrandire i Colonnesi più che alla rimota ristorazione di Sicilia o di Terrasanta. Ed era molto abbassata parte guelfa in Italia, per quelle vittorie di Giacomo e de’ Siciliani93: il reame di Napoli scemo di danari, e di fortuna, e di territorio per le occupate Calabrie, governato da principe non guerriero, e stracco di tanti sforzi, male aiutavasi alla guerra94. La Sicilia non la rincalzava per non averne cagione; ella sicura al di dentro, nè vogliosa d’estender più in terraferma il dominio del suo re. Pertanto in questi due anni, ancorchè fossero corsi i termini della tregua di Gaeta, poco si travagliò con le armi. Turbolente passioni di feudatari, faceano in Calabria or perdere una terra, or un’altra acquistare. Blasco Alagona, capitano per Giacomo, il quale occupata Montalto, e sconfitto e preso Guidon da Primerano, guerriero di nome, già meditava più importanti fatti, per accusa di frode all’erario, tornò subito in Catalogna95. E lo stesso ammiraglio, rivenuto in questo tempo in Sicilia, e uscito a far giusta guerra, la governò debolmente.

Allestite in Messina trenta galee, e sapendo da’ suoi rapportatori nessun armamento farsi ne’ porti di Napoli e di Brindisi, navigò di giugno milledugentonovantadue ver Cotrone, donde Guglielmo Estendard con parecchie centinaia di cavalli era per muover contro i nostri acquisti di Calabria. Il quale, scoperta la flotta, correa co’ cavalli a por l’agguato alle Castella, sotto il capo Rizzuto; e l’ammiraglio addandosene, tolta con seco picciola man di cavalli, spiccò per altra via il grosso delle genti: e sì da due bande assaltarono alla sprovvista l’agguato francese. Estendard, cupidamente cercato a morte da’ nostri, ebbe tre ferite, e il veloce cavallo il campò. Abbattutosi il suo all’ammiraglio mentre incalzava al passaggio d’un ponte, preser tanto fiato i nemici da poter lasciare il campo con minore strage; ma ne cadder molti prigioni; tra i quali un Riccardo da Santa Sofia, che posto a guardia di Cotrone da re Giacomo, l’avea dato agli Angioini, ond’or incontrò il sommo supplizio.

Soddisfatto con questa scaramuccia all’onor dell’armamento, che la Sicilia forniva contro i nimici, Loria voltollo all’Arcipelago, sotto specie di combattere i feudatari francesi della Morea e le armi che teneanvi gli Angioini di Napoli, ma in effetto per saziarsi nelle solite scorrerie96, segnando la strada agli avventurieri che, finita la siciliana guerra dovean flagellare la Grecia con pari valore e avarizia. Corfù, Candia, Malvasia, Scio depredò o messe a taglia, sotto specie che avesser porto aiuto a’ Francesi: tolse a Scio gran copia di mastice; a Malvasia, oltre il bottino, l’arcivescovo, del quale poi ebbe grosso riscatto: e, radendo la Morea, fu a Corone, a Chiarenza; e prima a Modone virtuosamente combattè contro i Greci che gli tesero insidie. Tornatosi a Messina con più riccchezze che schietta gloria, seppe che i corsali di Positano ed Amalfi infestasser le nostre navi mercantesche; ond’ei divisava già con l’infante Federigo, alla nuova stagione portar su quelle spiagge quaranta galee e duemila fanti leggieri, arder barche e ville, e trinceratosi in un monta, dar il guasto a tutta la provincia; se non che trapelò in Napoli il disegno, e del tutto il dileguaro le pratiche della pace97. Perchè Giacomo trovossi in Aragopa nelle necessità medesime d’Alfonso; e alla Sicilia toccò nuovamente ber l’amaro delle dominazioni straniere. Dieci anni d’infelicissima guerra avean provato a’ nimici, che se la Sicilia vincer si potea, si potea soltanto in Ispagna. Ripigliaron dunque i trattati, tronchi dalla morte d’Alfonso; ai quali il re d Aragona tuttavia sforzavano il privilegio dal Valois, l’armi di Francia, le arti di Roma; e vi s’aggiunsero i brogli di Sancio re di Castiglia, che, per fuggir di trovarsi in mezzo a Francia e Aragona guerreggianti, sollecitava gli accordi in palese, a anco nascosamente pe’ partigiani suoi in quell’ultimo reame. Allor Giacomo, fatto accorto dall’espresso voler delle corti e della nazione tutta98, ch’ei tener non potrebbe ambo i regni, pensò lasciar la Sicilia, cagion di tanti travagli, che non rendeagli d’altronde più che l’Aragona nè obbedienza nè danari, pei limiti messi al potere regio, le misurate gravezze, la fatica e spendio della difesa. La morte di papa Niccolò d’aprile del novantadue, la guerra che scoppiò l’anno appresso tra Francia e Inghilterra, la lunga vacanza del pontificato, differirono mi non dileguarono la pace, comandata da interior forza nello stato aragonese. Calovvisi Giacomo più volentieri per profertagli terra e moneta, e soprattutto per isperanza di restar signore dei conquisti sopra Giacomo suo zio, re di Maiorca. Maneggiò il trattato, com’era sua indole, chiuso, ambidestro, dissimulante; sì che ad altri parve che beffasse gli Angioini, lasciando cader la corona di Sicilia dal suo capo su quel di Federigo; ma forse fu il contrario; e certo che avvolgendosi tra le torte vie, n’uscì com’avvien sovente, con infamia e poco guadagno99. La frode ebbe a lottar questa volta con la virtù d’una nazione, che per libertà novella era fatta rigogliosa, non intralciata e discorde; onde fu vinta la frode. La Sicilia, dopo quel felice ardimento, conoscea le sue forze; era piena d’alti spiriti per le guadagnate franchige civili, la nuova prosperità materiale, la provata virtù nelle armi, i molti ingegni esercitati nelle cose di stato quando divenner cose pubbliche. I quali elementi di vigor politico, stavano più nelle città che ne’ baroni; per la riputazion de’ partiti presi da quelle nell’ottantadue, delle grosse forze mandate, per dieci anni interi in oste e in armata, dell’attività e capacità de’ consigli municipali. E per vero le città primeggiarono nella mutazion di stato ch’or maturavasi; ad esse si accostò la più parte dei baroni, non per anco sviata dalla causa siciliana per timori e vizi d’ordine. La generalità dunque della nazione, tenendo alle libertà conquistate nel vespro, e abborrendo dalla dominazione di casa d’Angiò e della corte di Roma, presentava durissimo ostacolo a Giacomo; e tale anco gli era il proprio fratello, l’infante Federigo.

Venne Federigo in Sicilia appena fuor di fanciullo; quivi prestantissimo divenne, non meno all’armeggiare e in ogni esercizio di guerra, che negli studi delle lettere, allora in molto onore appo noi, de’ quali ebbe tal vaghezza, che poetava ei medesimo in lingua romanza, e amico fu dell’Alighieri, pria che lo sdegnoso spirito ghibellino lo sfatasse come dappoco. Ma brioso di gioventù, bello e gagliardo della persona, pronto d’ingegno, di piacevol tratto, a tutti grato ed umano, e fratello di re, caldamente l’amava il popolo, ch’ha femminil andare di passioni; e poteva anco da maturo consiglio augurarsen bene, al vederlo con moderazione e giustizia tener le supreme veci, e con ogni studio procacciare la prosperità del paese, che s’ebbe pace e abbondanza sotto il suo vicariato100. Necessità politica, spesso sentita come da istinto innanzi che netta si divisasse alle menti, fe’ coltivar a Federigo con maggiore studio quelle virtù, e ’l rese più caro al popolo; portandoli entrambi a sperar l’uno nell’altro; e spingendoli a tali termini, che forse niuno si proponeva dapprima. Così la parte patriottica in Sicilia rannodavasi intorno a Federigo, sperando mantenere gl’intenti della rivoluzione del vespro, senza metter giù la monarchia nè la dinastia aragonese; e ne diveniva più solida e più forte.

Contro tal volere della massa della nazione, Giacomo potea trovar sostegno in una sola fazione. Accese le guerre del vespro, gli usciti di terraferma adunaronsi sotto le nostre insegne, massime dopo la esaltazion di re Pietro; cercando fortuna, e sfogo all’odio contro casa d’Angiò, e termine, se si potesse, al doloroso lor bando. Molto con lor pratiche operaron costoro nelle guerre di Calabria; molto stigarono i Siciliani stessi, come nell’eccidio de’ prigioni a Messina nell’ottantaquattro, temendo sempre non allenasse la rivoluzione. Ma più che alla Sicilia, teneano al re, che speravano s’insignorisse della lor patria; e intanto li gratificava di feudi e ufici. In più numero ebbero simile stato in Sicilia uomini catalani e aragonesi, creature della corte, e però, al par degli usciti di Puglia, esosi a’ Siciliani, per gelosia dei premi che gli uni e gli altri usurpavano. A costoro s’univa, perchè non mancano i rinnegati giammai, qualche Siciliano. E con tal fazione servile pensò Giacomo di mercatare la tradigione della Sicilia; a chi profferendo di redintegrarle ne’ beni lasciati in Puglia, senza perdita de’ nuovi acquisti in Sicilia; a chi minacciando lo spogliamente di sue sostante in Ispagna; tutti adescando con promesse, carezze, e inique speranze sotto sante parole. Chi ha appreso il nome di Giovanni di Procida su le novelle istoriche che il danno autor del vespro, maraviglierà a vederlo primeggiare in questa fazione e tener pratiche con lo stesso re di Napoli, s’ignora se di voler di Giacomo, o senza. Ma oltre le parole de’ nostri istorici, ond’ei si scorge pochi anni appresso scopertamente sorto contro i patriotti siciliani e Federigo, e oltre i documenti della restituzion de’ suoi beni nel reame di Napoli, pattuita espressamente tra Giacomo e Carlo II101, avvi, monumento di vergogna al suo nome, uno spaccio di Carlo al siniscalco di Provenza, dato il venti marzo milledugentonovantatrè, perchè libero mandasse a corte di Napoli il siciliano Pietro di Salerno, inviato a Carlo dal Procida, e fatto prigione in Marsiglia102. Cimentato quel gran nome con le forze che ha in oggi l’istoria, sen dileguano i vanti della prima congiura: gli resta la sola feccia di questa seconda contro la Sicilia.

Entrando il novantadue, re Carlo e ’l papa mandarono oratore a Giacomo, Bonifacio di Calamandrano, maestro degli Spedalieri gerosolimitani di qua dal mare103, famoso in arme e assai destro ne’ maneggi di stato. Col quale il figliuol di re Pietro, discepolo di Procida, temporeggiò104 per la sopravvenuta morte del papa; rispondendo, che per essergli i Siciliani compagni nei dritti politici, non soggetti impotenti, ad essi ne riferirebbe: e in vero pensò che, non assentito da loro, rimarrebbe in carte ogni accordo. Inviava dunque a tentar gli animi Gilberto Cruyllas, cavalier catalano, che approdato in Messina il due aprile del novantatrè, conturbò d’ansietà dolorosa tutti i Siciliani. Vagamente spargeasi, divisato pace con Francia e re Carlo, e di riaver la grazia della Chiesa; ma spiegavan queste scure e compilate parole la disarmata flotta, i mercenari licenziati senza pure sgravar le collette, sopra ogni altro, gli stormi di frati stranieri che, chiudendo gli occhi i governanti, svolazzavan sinistri per tutta l’isola, a spiare, novellare, cercare i penetrali delle coscienze, ingerirsi appo nobili e cittadini. Ondechè adunato al venir di Gilberto un parlamento, apparve manifesto il voler della nazione. Pochi vollero assentire; negaron la pace i migliori, com’evidente magagna: e si deliberò che ambasciadori s’inviassero a intender espresso l’animo del re. Furon trascelti a nome di tutto il sicilian popolo, tre Messinesi, Federigo Rosso e Pandolfo di Falcone cavalieri, e Ruggiero Geremia giurisperito, e tre Palermitani, Giovanni di Caltagirone e Ugone Talach cavalieri, e Tommaso Guglielmo. In Barcellona appresentaronsi a Giacomo.

Il quale fe’ loro lieta e famigliare accoglienza, condottili nelle più segrete sue stanze: e parlava, esser cresciuto tra i Siciliani; da loro aver tolto pensieri, costumi, usanze; pensassero s’altro potea bramare che il ben del paese; ed ecco che non da principe, ma come un altro cittadino, con essi triterebbe il negozio, divisato a onore ed util comune. E gli ambasciadori, non presi alle blandizie del re, si guardavan l’un l’altro. Ma il Falcone, accorto e bel parlatore, venne alle prese. Giustizia, dissegli, e verità che l’è compagna, voglionsi nel trattar le sorti de’ popoli: e dolce è ad ogni uomo la parola di pace; ma grossolana favola assai questa, che Roma e casa d’Angiò, dopo dodici anni d’oltraggi, di paure, di sangue, or lasciasser di queto la Sicilia. I sospetti poi toccò di que’ provvedimenti del governo regio in Sicilia; l’aperta frode del profferire all’infante Federigo l’uficio di senator di Roma, per trarlo dall’isola. Nè sperasse il re ferma pace in Aragona, in prezzo de consegnar legato mani e pie’ un generoso popolo; nè sperasse cansar da infamia il suo nome. Se pure, ei ripigliò, il gravava questo combattuto regno, perchè non lasciarlo provveder a sè da sè stesso, dando la corona a Federigo, non per dritto di successione, ma per elezion del popolo, lietissimo auspicio a chi unquemai la Sicilia reggesse? E se tremassero Giacomo e Federigo e tutti i reali d’Aragona, chiamerebbero i Siciliani un altro Federigo, rampollo della casa di Svevia; troverebbero i più disperati partiti, pria che abbassar le aquile dianzi agli abborriti gigli105: e se Iddio non benedicesse le armi loro, affranti alfine e debellati, vibrerebbero gli ultimi colpi ne’ petti de’ propri figliuoli e delle donne; sè stessi con quelle care vittime scaglierebbero nelle fiamme delle città. Ma Giacomo non se ne mosse. Lodò i legati di zelo; lodò i suoi propri maggiori di fede ai popoli: ei, nato di quel sangue, non che non abbandonar la Sicilia, combatterebbe per lei finchè gli restasse spirito di vita106. Con questo focoso parlare accomiatolli: e non andò guari che di novembre, abboccatosi tra Junquera e Paniças con re Carlo, fermò i patti, a sè più avvantaggiosi, verso la Sicilia più rei, che que’ d’Alfonso, maladetti da lui medesimo, tre anni prima. Tennersi in segreto grandissimo; aspettando a ultimarli in buona forma, che fosse rifatto il papa, e raggirato, col popol di Sicilia, anco l’infante Federigo107, cresciuto di potenza, perchè come i nostri videro più da presso la minaccia del giogo angioino, la perfida morbidezza di Giacomo, prendendone sempre in maggiore abborrimento la dominazione straniera, che sotto Carlo li avea calpestato sì orrendamente, sotto il re d’Aragona macchinava tal tradigione, vennerne al fermo proposito di rifarsi indipendenti; e più s’accostaron gli animi a Federigo.

Allor sopravvenne la elezione del nuovo pontefice, tardata oltre due anni per Discordia de’ cardinali, precipitata come per caso, a dì cinque luglio del novantaquattro, col tristo spediente di chiamare un uom dappoco; ma sotto ogni pochezza nelle cose mondane fu Pietro da Morrone, romito abbruzzese, che per vita povera, e straziata d’austerità, avea già riputazione di santo108. La quale esaltazione come fu nota a corte d’Aragona, Giacomo affrettavasi a ultimare il trattato. Inviò in Sicilia a diciotto di luglio Raimondo Vlllaragut, che ritentasse di trarre al suo intento Federigo, e la madre, e gli nomini di maggior seguito. Volle tor dal fianco di Federigo, Corrado Lancia e Blascoq Alagona, intrinsechi del giovane; ai quali il re comandava che di presente venissero in Catalogna. A Corrado surrogò un uom suo, Ramondo Alamanno, sì nell’uficio di gran giustiziere e sì nel comando del castel di San Giuliano109. E intanto la guerra, condotta fin qui assai debolmente come finita nell’animo de’ governanti, posava del tutto in una tregua110. Carlo II, per pratiche, racquistava Cotrone in Calabria111; e a darsi riputazion di munificenza, largiva immunità a questa e quell’altra terra, travagliata per l’addietro da’ nimici112.

Celestino V, tal nome prese Pier da Morrone, volle tra’ suoi Abbruzzi in Aquila consagrarsi: entratovi per umiltà sur un asino; ma l’addestravano due re, Carlo II di Napoli, e Carlo Martello d’Ungheria, fattisi, tra per pietà e ambito, a corteggiarlo assai strettamente. Preso alle quali arti, non ostante che vi ripugnasse forte il sacro collegio, Celestino fissò la sede in Napoli; creò molti cardinali di nazione o parte francese; e fuor da’ consigli e dagli usi della romana corte tanto uscì di via, che religiosi scrittori del tempo, scherzando sulle formole, il proverbiavano: da pienezza di semplicità, non di potestà, decretar Celestino113. Ma portato dalla corte di Napoli, ben per la Sicilia fe’il papa.

Con lo stracco pretesto di Gerusalemme, e di volere far pianta di quella guerra la nostra isola, ratificò a primo d’ottobre milledugentonovantaquattro il trattato di Junquera. Nel quale Carlo promettea d’impetrare per Giacomo e il suo reame, piena assoluzione dalle scomuniche, piena remission d’ogni offesa che i reali di Aragona e que’ popoli e i popoli di Sicilia recato avessero a casa d’Angiò e alla santa sede, e la restituzione del reame d’Aragona, in que’ dritti e termini medesimi in che il tenea re Pietro pria delle sue scomuniche; al qual effetto re Carlo procacciasse la rinunzia del re di Francia, e di Carlo di Valois. Restituiva Giacomo a Carlo tutti gli statichi; restituiva le Calabrie, e le isole adiacenti a Napoli. Stipulava rimetterebbe la Sicilia con Malta e le altre isole adiacenti, in poter della Chiesa nel termine di tre anni dal primo novembre del novantaquattro, a patto che la Chiesa tenessela un anno, nè la cedesse ad alcuno senza saputa di Giacomo. E vergognosa conseguenza ne fu l’altro patto, che resistendo i Siciliani, ei s’adoprerebbe con la forza a domarli114. Assentiti questi accordi, largheggiò Celestino a re Carlo per la difesa del suo reame e ’l racquisto dell’isola, le decime ecclesiastiche delle province francesi per quattro anni, e per un anno quelle d’Inghilterra e d’altre regioni di là dai mari. Poco stante chiamò Giacomo stesso ad Ischia: scissegli apponendo a grave peccato, per cagion di parentela, il matrimonio con la Isabella di Castiglia; e mandavagli che fuggisse quelle nozze per menar una figliuolia di re Carlo, a lui congiunta ancora di sangue115. A tai scandali ne venne il pio Celestino; nè pur fu destro a servirsene, perchè prese termine sì lungo all’affare di Sicilia, e non assicurò punto la sommissione de’ popoli, non compose del tutto le differente tra Francia e Aragona116; onde il trattato a nulla tornava.

Questo inchinò Carlo alle ambizioni di Benedetto Gaetani da Anagni, salito in riputazione da avvocato nella curia papale, fatto indi notaio del papa, e cardinale; uom procacciante, superbo, capacissimo nelle civili faccende il quale poc’anzi a Perugia era venuto ad aspre parole col re, ed or guadagnosselo con dirgli preciso; che Celestino avea voluto e non saputo aiutar casa d’Angiò; ei vorrebbe, e potrebbe, e saprebbe. E a Celestino gravava il papato, per coscienza e per sentirne mormorare ogni dì i cardinali; onde il tranellarono al rifiuto; e perfin si legge che ’l gaetani grossolanamente fingesse al semplice romito chiuso nella sua stanza, voce del Cielo che gl’imperava spogliarsi il gran manto. Ond’ei lasciollo, non ostanti le preghiere, veraci del popolo di Napoli, infinte della corte. Per la possanza di lei, indi a pochi dì, la vigilia del Natale del novantaquattro, in Napoli fu rifatto pontefice il Gaetani; quel famoso Bonifacio VIII, che salì da volpe, da lione regnò, e da cane morì, secondo la sentenza profetica, foggiata da poi e data a Celestino, come se a lui medesimo la dicesse nella prigione, ove per comando di Bonifacio fu chiuso, e finì in poco tempo, non senza sospetti di morte violenta. Ed or congiunto, scrive Speciale, il potere all’astuzia, si die’ tutto Bonifacio a scior quell’inviluppato nodo della siciliana lite117. Oltremonti gli ambasciadori di Giacomo e di Francia, con la riputazion del novello papa, ristringeansi un’altra volta a spianar gli ostacoli rimasi tra loro118; Bonifazio serbò il più grave a sè stesso, quasi per provarvi il suo ingegno. Avuti o richiesti, poco appresso la esaltazion sua, legati di Federigo, che furono Manfredi Lancia e Ruggiero Geremia, raccolseli umanamente il papa, li rimandò con grandi promesse, e l’importanza della cosa maneggiar volle da sè con Federigo; cui, non potendolo trar di Sicilia con forza, avean mostrato per l’addietro la dignità di senatore di Roma o altra debol’esca; ma Bonifazio pensò abbagliarlo profferendo una bella sposa e un impero. Mandogli un suo cappellano con breve dato il venzette febbraio del novantacinque, richiedendolo che venisse a corte di Roma con Giovanni di Procida, Ruggier Loria, e i primi d’ogni siciliana città, muniti di pien mandato de’ popoli. Portava i salvocondotti il medesimo nunzio. Federigo, proponendosi obbedire, immantinenti alle città nostre ne scrisse.

Il che è prova non dubbia della importanza che ritenea o ripigliava in tal frangente l’elemento municipale e popolare, ristorato dalla rivoluzione; il valor del quale d’altronde risplende assai nobilmente nell’epistola, che il comune di Palermo drizzò a Federigo, e rincalzò con la viva voce di tre inviati, Niccolò di Maida cavaliere, Pier di Filippo, e Filippo di Carastone giudici. Ricordavasi all’infante per queste lettere la romana corte qual fosse: il sommo Iddio aver giudiccato tra lei e la Sicilia, con quella serie di strepitose vittorie de’ pochi contro gli assai; tranquillasse gli agitati animi de’ cittadini; non desse in questo laccio dell’andata al papa, onde null’altro che danno incor gliene potrebbe119. Ma Federigo, com’è timida l’ambizione di chi siede sull’alto, e ama piuttosto lasciarsi raggirar dai potenti che fondare in su i popoli combattuta ma grande fortuna, ostinossi all’andare. Montato sulla flotta con Procida che il tirava alla via più ignobile, e con Loria, e molti altri rinomati nella guerra o nei civili consigli, approdava negli stati della Chiesa sotto il monte Circeo, poc’oltre il dì assegnato dal papa; e non trovando Bonifazio, a lui andava a Velletri.

Atteggiossi allor Bonifazio a paternal carità. Inginocchiatosi dinanzi a lui Federigo, il rialza, prendegli il capo con ambo le mani, il bacia affettuosamente; e veggendolo balioso e svelto portar l’armatura, prese a lusingarlo: «Gentil garzone, ben par che da fanciullo reggevi quel duro peso.» Poi volto a Loria, senz’ira il domandò, s’ei fosse quel nimico della Chiesa, noto per tante sanguinose battaglie; e Loria a lui: «Padre, i papi il vollero!» Da queste accoglienze si passava ai consigli. In pregio d’abbandonar la Sicilia, promesse il papa a Federigo la giovane Caterina di Courtenay, figliuola di Filippo, in titolo imperador d’Oriente; e con lei i dritti a quella dominazione, e, per l’impresa del racquisto, aiuti di gente, e in quattro anni centotrentamila once d’oro. E in ver sembra che Bonifazio s’appose; e che il giovane allettato da grandi parole, e da beltà da lui non vista con gli occhi, si piegava a lasciar in balìa de’ nemici quel popolo, con cui era già entrato in legami più stretti che di vicario del principe. Ma da cauto, volle termin breve all’adempimento de’ patti, che fu il settembre vegnente120. Pien d’allegrezza tornò in Sicilia; abboccatosi pria ad Ischia con Gilberto Cruyllas e Guglielmo Durford, inviati di Giacomo121. A corte di Roma lasciò, o rimandò a praticare per esso, Manfredi Lancia e Giovanni di Procida122.

In questo modo parendo a Bonifazio avere in pugno Federigo e la Sicilia, ultimava gli accordi. Tra i principi che v’ebber parte le due forze venate a patti eran l’Aragona e la Francia. L’una di queste corti possedea la Sicilia; l’altra il dritto su l’Aragona, com’or si confessò aperto, messo da canto il nome del Valois123; e per questo la Francia avea sparso tanto danaro e tanto sangue, sovvenuto a’ bisogni di Giacomo re di Maiorca124, ed or era tenuta a negoziare per lui. Acquistava il papa una maggiore autorità; Carlo II, la Sicilia; Giacomo d’Aragona, la pace e la vergogna; Giacomo di Maiorca, l’impunità alla ribellione contro il fratello; Carlo di Valois, il baratto d’un vano titolo con un picciol patrimonio125; e niente la Francia, fuorchè l’onore di ristorar casa d’Angiò a tutta la dominazione ch’avea avuto una volta. Convenuti diansi al papa in Anagni gli ambasciatori d’Aragona, Napoli e Francia, a dì cinque giugno del novantacinque rinnovavano i patti ratificati da Celestino; mutando sì i termini della dedizione di Sicilia e Malta alla Chiesa, che fosse pronta; e che a domar i popoli, essendone uopo, facesse Giacomo ogni piacimento del papa. In cambio di ciò, s’era già fatta in mano del pontefice, la rinuncia del Valois e del re di Francia a ogni dritto sopra Aragona. Guadagnonne ancor Giacomo, che non fosse tenuto a rendere i trentamila marchi d’argento, dati da Carlo ad Alfonso con le altre sicurtà al tempo della sua liberazione; che Carlo, con la sua figliuola Bianca, dessegli in dote centomila marchi. Guadagnonne per capitol segreto la investitura di Corsica e di Sardegna, liberalmente donategli da Bonifazio che non aveaci alcun dritto. Al perdono largheggiato pei fatti della rivoluzione o della guerra siciliana, s’aggiunse quel degli usciti da’ tempi di Carlo I, e che si godessero quantunque or possedeano in Sicilia. Per un altro capitol segreto, Giacomo s’obbligò a fornire forze navali agli stipendi di Francia contro Inghilterra. La redintegrazione dello stato preso al re di Maiorca, instando gli ambasciatori di Francia e non avendo gli Aragonesi autorità a stipulare, differissi alquanto; ma poi si ultimò, come anco una lite di confini tra Francia e Catalogna126.

Ratificava Bonifazio a dì ventuno giugno; dispensava alla consanguineità per le nozze tra Giacomo e Bianca; riconcedeva a re Carlo le decime ecclesiastiche per lo racquisto dell’isola; e il dì di san Giovanni, tra i riti del divin sagrifizio, promulgava in un con la pace, scomunica a chi contrastassela. Per novelli sospetti ribadì con più forti pene questi anatemi il dì ventisette giugno, poichè furon ripartiti alla volta di Sicilia Lancia e Procida. Accomandò loro un frate de’ predicatori, inviato a raffermar negl’intenti del papa la regina Costanza; indirizzò a Federigo il novello arcivescovo di Messina, con autorità di ribenedir l’isola e ultimare ogni cosa. Ei medesimo scrive intanto a Caterina di Courtenay, aver promesso con re Carlo la sua mano al valente Federigo; disponga, dicea il papa, la mente e l’animo a queste nozze; ascolti i consigli dell’abate di san Germano e d’un altro prelato, apposta a lei spacciati dalla paterna cura del pontefice; e tosto si metta in viaggio per venirne in Italia alle braccia dello sposo. Sollecitò anco Filippo il Bello a farsen mezzano. E di tutte queste pratiche ragguagliava minutamente Federigo, perchè sempre più inchinasse l’animo alla obbedienza e alla pace127.

Volle infine indettare nel nuovo ordin di cose l’ammiraglio; il quale, fatto ricchissimo e tra potente per concessioni de’ re aragonesi in Sicilia e in Valenza, e propri acquisti di prede, riscatti, baratterie, commerci, e per la gloria nelle armi, e per lo terrore di quell’animo impetuoso, era forse il primo tra’ grandi che salvar poteano o inabbissar la Sicilia in questo frangente128. Con costui dunque trattando, prima in persona, poi per Bonifazio di Calamandrano, il papa concedettegli in feudo della Chiesa l’isola delle Gerbe, ch’egli acquistò con le armi di Sicilia, e or volea farne un nuovo principato cristiano, o nido di corsali in levante, da potersi render formidabile per la guerriera virtù dell’ammiraglio e de’ soldati dell’armata di Sicilia, che a lui sarebbersi rannodati129. Da un lato dunque tiravan Ruggiero i poderi in Ispagna, la sovranità delle Gerbe, la potentissima lega che minaccerebbe la Sicilia resistente; dall’altro le sue facultà in Sicilia, l’onor del suo nome, il tedio della pace, la cupidigia di preda, l’amore a un popolo ch’era prode e per dodici anni avean pugnato e vinto insieme, sopra ogni altro i fomiti dell’ambizióne; che, s’ei non chiedeva il titolo, aspirava alla potenza di re di Sicilia, e sapea che l’avrebbe rompendosi nuovamente la guerra, perch’ei sarebbe principal sostegno di Federigo. Perciò l’ammiraglio ascoltava le profferte di minore stato nella pace; ma era pronto a turbarla, e accomunar le sue sorti con la Sicilia e Federigo.

Le sorti della Sicilia che pendeano sul precipizio, per tal abbandono del re, del luogotenente, dell’ammiraglio, di tutti i grandi, poteano tornar su per novello empito del popolo; ma ristorolle con men sangue l’interesse di Filippo il Bello, o il caso, che spinse la giovane di Courtenay a rifiutar le nozze di Federigo, rispondendo al papa, che una principessa senza terra non dovesse maritarsi a un principe senza terra. Ostinata resse Caterina alle repliche del papa130: e Federigo, fatto accorto dell’inganno, tutto si volse a quelle ben più salde e vicine speranze che gli offriva la Sicilia; dove, trapelando le nuove de’ trattati, s’era con più furore ridesto il turbamento d’animi del novantadue, per esser più certo e imminente il danno, e scorgersi la perfidia che il dissimulò. Indi l’infante diessi a prendere il regno; ma volea parere sforzato, ritenendol anco il sospetto della fazione degli stranieri, mascherati di lealtà a Giacomo, e tradenti per turpe guadagno il paese che li nudriva. Costoro, come aperti apparvero gl’intendimenti di Federigo, la focosa volontà del Sicilian popolo, diersi dapprima a gridare che la rinunzia del re fosse favola di Federigo volto a usurpar la cotona. Per darsi riputazione, fecero lor capo il solo che operava forse da coscienza e lealtà, Ramondo Alamanno gran giustiziere; e si notavano inoltre i nomi del Procida, di Matteo di Termini, di Manfredi Chiaramonte e di più altri. Vedendo tornar vane le arti, ai chiusero in lor castella, minacciando già la guerra civile.

La regina Costanza l’ovviò col ripiego, che novelli oratori si deputassero in Catalogna a intender la mente di Giacomo; dondechè adunato un parlamento, questo elesse Cataldo Rosso, Santoro Bisalà, e Ugone Talach131; e nel medesimo tempo Federigo, vedendo ormai vane le coperte vie, s’ingaggiò in parlamentò co’ patriotti, che svelerebbe ad essi quantunque risapesse de’ trattati di Giacomo coi nemici. Lasciò dunque coloro che si dicean leali, chiusi dalle lor mura e dall’universale sdegno del popolo; ed egli, con nome ancor di vicario e opere maggiori, andò in giro per tutta l’isola, ad accrescersi parte e riputazione, con opportune riforme, amministrazion vigilante, e volto benigno132. Giunser gli oratori siciliani in Catalogna, quando ratificati già dalle corti i capitoli della pace, re Carlo e il legato pontificio con la sposa veniano a Perpignano e Peralada, e Giacomo si facea loro all’incontro per Girona e Villa Bertram; i quai luoghi, straziati d’ogni più atroce eccesso nella guerra, or s’allegravano per lusso de’ grandi venuti al seguito de’ due re, e per frequenza di plebe che festevole ne venia chiamando Bianca «Regina della santa pace» e anelando lo scioglimento degli anatemi di Roma133. Il ventinove ottobre a Villa Bertram, sendo poche miglia discosto il corteo della sposa, raggiunser Giacomo i nostri legati: pallidi e severi gli si apprestarono a sconfonderlo tra tanta allegrezza, dinanzi tutti i nobili del reame. Esposta la domanda del sicilian parlamento, il re senza vergogna confessava il trattato. A che Cataldo Rosso: «O voi, sclamò, o voi passaggieri, sostate; oh dite se v’ha duolo ch’agguagli il duol mio134!» e dopo tal biblica lamentazione, in un coi compagni e i famigliar! della siciliana ambasceria, stracciaronsi i panni indosso, ruppero a dimostrazioni d’angoscia disperata, e a Giacomo gridavano: «Non più udita crudeltà, che un re desse leali sudditi a straziare a’ nimici!» Ma poich’ebbero così aggravato il biasimo del principe, ricomposti a dignità ed alterezza, protestarongli in piena corte: come la Sicilia abbandonata, disdicea tutti i dritti di lui alla corona; scioglieasi da ogni giuramento, fede ed omaggio; si tenea libera a prendere qual governo più bramasse. Fu forza al re quella protestazione accettare; e ne voller diploma gli ambasciadori, e l’ebbero. Lo stesso dì, vestiti a bruno, volgean le spalle all’infida corte straniera. Ma pria Giacomo ebbe fronte a dir loro, ch’accomandava ai Siciliani la madre e la sorella. «Di Federigo nulla parlo, aggiugnea, perch’è cavaliere, e ciò che fare ei sel sa, e voi il sapete anco.» Almen così Federigo propalò poi in Sicilia. Incontraron gli ambasciadori, sciogliendo per l’isola, fierissima fortuna di mare, che dilungò il ritorno, e ’l tolse a Santoro Bisalà, sbalzato sulle costiere di Provenza, e tenutovi prigione finchè nol ricattarono i suoi Messinesi concittadini135. E in Catalogna il trenta ottobre Giacomo fu ribenedetto dal legato pontificio, egli e ’l reame; bandì nelle adunate corti d’Aragona il fine della gran lite di Sicilia; lo stesso dì Carlo II a lui e alla madre e a Federigo e a Piero con tutta lor baronia e amistà rimettea le offese fatte, le robe occupate a sè ed a suoi ne travagli della guerra. La dimane, portatosi Giacomo a Figueras, rese a Carlo i tre figliuoli e gli altri statichi; tolse la sposa; e celebrò le nozze il primo novembre136.

Ansiosi in questo tempo pendeano tutti gli animi in Sicilia. Ma alla prima certezza di quelle nuove, ed anzi che tornassero gli ambasciadori, Federigo, sostando d’un tratto dal viaggio per val di Mazara, adunò in Palermo conti, baroni, cavalieri, e i sindichi delle città di qua dal Salso: ai quali, come per tener le promesse di Milazzo, palesava la non dubbia cessione dell’isola; la compiuta pace; la risposta a’ legati. Allora il fatto, soprattenuto per salvar le apparenze, pieno si consumò. Il parlamento di Palermo, a dì undici dicembre, ritirò la rivoluzione a’ suoi principi con esaltare a una voce Federigo; ma, da riverenza all’universal voto della nazione, il chiamò solamente signor dell’isola, volendo più solenni comizi per dargli nome di re; onde disse generale adunata in Catania il dì quindici gennaio, e che non solamente i sindichi vi si trovassero, ma giusto numero dei primi d’ogni terra e città, per facultà, sapienza e riputazione, con pien mandato a partecipare in quel principalissim’atto di sovranità. Federigo protestando la santità della causa, e affidarsi in Dio e nei Siciliani, accettò il dominio; si votò con persona e facultà a difenderli. Cominciava allora a intitolarsi signor di Sicilia. Il dì appresso promulgava unitamente le novelle di fuori, le recenti deliberazioni, e richiedea le municipalità di sceglier tosto i deputati al parlamento di Catania137.

In questo generale assentimento fu agevole ridurre i baroni recatisi in parte. A Ramondo Alamanno, afforzatosi nel castel di Caltanissetta, andavano Ruggier Loria e Vinciguerra Palizzi, con molti altri grandi del regno; ed ei cominciando a mostrar l’animo con liete accoglienze, sincerato della rinunzia, piegossi, e tutti gli altri con esso138. Poco stante venner ordini di Giacomo, che richiamava di Sicilia i Catalani, e gli Aragonesi, e comandava l’abbandono delle fortezze; compiuto a nome del re dall’Alamanno e da Berengario Villaragut, con questo rito, che gli uficiali, fattisi alla porta, gridavan alto tre fiate: se fossevi alcuno che prendesse la fortezza per la santa romana Chiesa? e niun rispondendo, si ritraeano col presidio, lasciavano schiuse le porte, appese le chiavi; e le municipalità incontanente se n’insignorivano a nome di Federigo139. Tornarono in patria quelli e altri cavalieri spagnuoli. Molti altri restarono in Sicilia a seguir la fortuna di Federigo; tra i quali eran primi Ugone degli Empuri e Blasco Alagona, che dopo la rinunzia di Giacomo, era fuggito dalla sua corte: e altri nobili avventurieri aspettavansi di Spagna, a dispetto anco di Giacomo, che secondo il dritto pubblico di quel reame non potea lor vietare che militassero per cui lor piacesse. Così Blasco, confortando i suoi compagni, ricordava che lor nazione, libera sopra ogni altra ch’avesse re, non ubbidiva a voler di principe, ma a giustizia e ragione. Filavan indi il creduto testamento di Pietro, l’espresso d’Alfonso; che Giacomo potea risegnare alla Chiesa il proprio diritto al reame di Sicilia, non già l’altrui; che ben se insignoriva Federigo140. Con questi argomenti mal colorivano di legittimità quel reggimento per sè legittimissimo. Nè badavano che per dritto di successione potea il trono appartenere alla sola Costanza; e che nè Piero, nè Giacomo altrimenti v’ascesero, che, come or Federigo, per la elezione del popolo.

E già la Sicilia a questo solenne atto metteva il suggello, ad onta della romana corte, di Napoli, Francia, e Aragona, contro lei congiurati. Il dì quindici gennaio milledugentonovantasei, nella cattedral chiesa di Catania, s’assembrarono frequentissimi i rappresentanti della nazione, con quanti nobili catalani e aragonesi sperassero ventura qui, più che in lor patria. Ruggier Loria primo parlò; poi Vinciguerra Palizzi, prestante per forza d’ingegno e di parola; e seguendoli ogni altro, d’un accordo gridavano re Federigo; decretavano si fornisse la coronazione in Palermo141. Fu secondo di questo nome in Sicilia; ma s’intitolò terzo, per esser terzo de’ figliuoli di Pietro, o dei reali d’Aragona qui dominanti, o per errore diplomatico piuttosto, credendosi secondo di Sicilia Federigo lo Svevo, che fu secondo degl’imperadori, primo tra nostri re142.

Ma come Bonifazio riseppe que’ primi passi del parlamento di Palermo, non essendo in punto a usar la forza, non lasciava intentato alcun mezzo di frode. A Federigo scrisse il due gennaio, ricordando le pratiche dell’anno innanzi, la sollecitudine a trovargli terreno e sposa; che negava Caterina, ma non resisterebbe a nuovi preghi; e sì richiedealo, e lo scongiurava con ogni più efficace parola, che desistesse dalla usurpazione del regno. Al medesimo effetto ammonì la regina Costanza. Lo stesso dì «ai Palermitani e agli altri Siciliani» drizzò un breve pien di mansuetudine: come la romana Chiesa, or che Giacomo le avea risegnato questa bella Sicilia, volea consolar le sue afflizioni, fare il ben pubblico, governarla dassè per un cardinale; vedessero i Siciliani tra’ fratelli del sacro collegio qual più lor fosse a talento, quello il sommo pontefice manderebbe. E con tali missioni inviò il vescovo d’Urgel, e quel Bonifazio Calamandrano, che da quattro anni correa per tutta Europa in questi maneggi, come li chiamavan, di pace. Facean assegnamento altresì sulla fazion d’Alamanno e di Procida, non sapendola per anco spenta: e con tali speranze il Calamandrano a Messina approdò, poco innanzi o poco appresso il parlamento di Catania143. Il pratico negoziatore parlava ai cittadini di maravigliose prosperità lor preparate dal papa, ingeriasi, brigava; alfin vedendo grossa la piena per Federigo, tentò l’ultimo argomento, mostrando pergamene bianche col suggello della corte di Roma; dicea, consultassero i Siciliani tra loro, e assoluzioni, perdonanze, immunità, franchige, dritti, usanze, patti, quantunque vorranno, ei scrìverà sulle pergamene, assentiralli il sommo pontefice. Ma i Messinesi, non che dar dentro la grossolana rete, sen beffavano; rincalzati da Loria, da Palizzi, e dagli altri primi. E Pietro Ansalone, prudente e ornato dicitore, al Calamandrano ne andò senza molte parole. «Sappi, gli disse, che i Siciliani non ubbidiranno a dominazione straniera; sappi che vogliono Federigo per loro re: e vedi qui! (aggiunse sguainandola spada) i Siciliani da questa aspettan la pace, non dalle tue carte bugiarde! Sgombra su dalla Sicilia, se morir non ami!» Il Calamandrano, scrive Speciale, incontrar non volle il martirio per servire a mondane ambizione. Tornato a Bonifazio, il fe’ certo non restare altra speranza che nelle armi144.

76

Veggasi i cap. VIII e IX e in particolare la not. 1 alla pag. 226, t. I.

77

A questo supposto ci conducono i testamenti di Alfonso e di Giacomo citati qui appresso, e il vario linguaggio degli storici intorno le ultime disposizioni di Pietro. Veggansi il Montaner, cap. 185; Bartolomeo de Neocastro, cap. 124, ove si legge: Non enim quod pater decrevit in ultimis, etc.; e Niccolò Speciale, lib. 2, cap. 7 e 17: Quod si testamentum patris in suis viribus consistebat, ex tunc regnare debuisset in Sicilia Fridericus.

78

Diploma nel Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 3.

Scurita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 120.

79

Testamento di Giacomo, dato di Messina a 15 luglio 1291, in Bofarull, tom. II, pag. 251, citato da Buchon, edizione di Montaner, 1840, pag. 388.

80

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 123.

81

Ibid., cap. 124; Bartolomeo de Neocastro, cap. 118.

Mariana, Storia di Spagna, lib. 14, cap. 15.

82

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap 125.

Montaner, cap. 177, 178.

83

Diploma dei 10 agosto 1292, in Capmany, Memorias, etc., tom. IV, docum. 8.

84

Raynald, Ann. ecc., 1291, §§. 53, 55.

Un’altra bolla di Niccolò, data il 13 dicembre 1291, concedea al vescovo di Carcassonne, e all’abate di S. Germain di ribenedir gli scomunicati d’Aragona, per favorire il Valois. Questi, per un diploma del 13 ottobre 1292, diè larga autorità a perdonare e ricevere omaggi in Aragona a Eustachio di Conflans, governatore di Navarra e a Giovanni di Burlas; negli archivi del reame di Francia, J. 715, 15, e J. 587, 17.

85

Raynald, Ann. ecc., 1291, §. 59; e 1293, §§. 15 e 16.

86

Annali Genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 601.

87

Bart. de Neocastro, cap. 119.

88

Montaner, cap. 179.

89

Bart. de Neocastro, cap. 119.

Raynald, Ann. ecc. 1292, §. 14 a 19.

Questa deliberazione della repubblica non si legge negli annali genovesi; ma gli altri fatti che vi si narrano la rendon probabilissima e forse necessaria, come la riferiste il Neocastro, aggiugnendo con grande esattezza gli stessi nomi del podestà e de’ capitani che son registrati ne’ detti annali sotto quell’anno.

Nel Capmany, Memorias, etc., tom. IV, docum. 6, si leggono le istruzioni date da Giacomo di Barcellona a 3 Aprile 1292, a Oberto di Volta suo legato in Genova. Il re d’Aragona si lagnava di armamenti fatti contro di lui, di qualche ostilità commessa in mare, e de’ commerci interrotti con la Sicilia; e chiedea che si assicurassero le amichevoli comunicazioni. Copie di queste istruzioni furon mandate a cinque fratelli Doria, tre Spinola, due Volta, due Escatrafico, Niccolò Fiesco, e Manuele Zaccaria.

90

Ann. genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 603, 604, 605.

91

Bart. de Neocastro, cap. 120.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 145.

92

Raynald, Ann. ecc., 1291, §§. 56, 58, 59.

93

Gio. Villani, lib. 7, cap. 119, 121, 151.

94

La penuria di danari e debolezza del governo di Napoli in questo periodo, si scorgon da parecchi diplomi del 1292–94, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 91, 102. 111, 115, 131, 132, 149.

Carlo chiedea danari per la guerra o col pretesto della guerra. Levò una nuova colletta che si chiamava il Terzo. Ibid., pag. 91 a 131.

95

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 18.

96

Bart. de Neocastro, cap. 121, 122, 123.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 19.

Montaner, cap. 159, 160, non senza anacronismi e altre differenze. Ei scrive queste scorrerie dianzi l’impresa di Giacomo nel 1289; fa depredar prima delle Isole e della Morea, anche Tolomitta e i mari d’Egitto, e poi Patrasso e Cefalonia, di che non fan motto gli scrittori siciliani. Costui e Speciale portano in Terra d’Otranto l’affronto con Guglielmo Estendard, che il Neocastro dice avvenuto alle Castella, ed io così anche ho scritto, per parermi il Neocastro diligentissimo in questo periodo. Delle minacce della nostra flotta su le coste pugliesi nella state del 1292, portan testimonianza tre diplomi nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 95, 98.

97

Bart. de Neocastro, cap. 123, 124.

98

Si ritrae da tutti gli autori citati in questo capitolo; e assai vivamente dal soprannome di regina della santa pace, che dier gli Aragonesi e’ Catalani a Bianca, figliuola di Carlo II, quando si maritò con Giacomo per effetto di questo bramato accordo. Montaner, cap. 182.

99

Queste occulte cagioni, che trascinarono Giacomo divenuto re d’Aragona ad abbandonare o tradir la Sicilia collegandosi co’ suoi nimici, si ritraggono qua e là da tutte le autorità citate nel presente capitolo; e massime dal Surita, Ann. d’Aragona, lib. V, cap. 1 a 10.

100

Bart. de Neocastro, cap. 118.

Alle parole di questo istorico do piena fede quanto all’ottimo governo di Federigo luogotenente, perch’egli avea interesse a mostrarsi giusto e zelante del ben pubblico; e che il fosse stato, il provano ancora il fatto del popolo che lo esaltò al trono, e i suoi medesimi atti nei primi tempi del regno. Non mi è parso ricordar la lapide di Girgenti del 1293, pubblicata dal Testa, op. cit., docum. 4, ove Federigo è chiamato Juris amator, perchè i grandi, o buoni o pravi, non patiron penuria mai di si fatte parole, nè v’ha testimonianza istorica più fallace che le lodi a principi contemporanei.

Per le poesie di Federigo l’Aragonese si vegga il Quadrio, Storia e ragione d’ogni poesia, correggendolo solo in questo, che attribuisce tai versi a Federigo III di Sicilia detto il Semplice, non a Federigo II. Veggasi ancora il docum. XLIV.

101

Veggasi un diploma di Carlo II, dato di Napoli il 29 settembre 1300, pubblicato dal Buscemi, Vita di Giovanni di Procida, docum. 8, cavato dal r. archivio di Napoli, nel quale si legge per Giovanni di Procida: Sane per conventiones inhitas???? super reformatione pacis inter nos et magnificum principem dominum Jacobum Aragonum regem illustrem, nunc filium nostrum carissimum, tunc hostem pubblicum, nobisque molestum tamquam per duces belli inter alia fuit conventum: Quod Joannes de Procida rebus tunc humanis perfruens ad certa bona stabilia in regno Sicilie que per culpe contatagium contra majestatem, etc… perdiderat restitueretur in integrum ex nostro beneficio principali, etc.

102

Diploma del 20 marzo 1293, dal r. archivio di Napoli, registro dì Carlo II, segnato 1290, A, fog. 164, citato ne’ Discorti di D. Ferrante della Marra, Napoli, 1641, pag. 155.

Sì può sospettare che non ad altro effetto fossero stati mandati in Sicilia, sotto specie di consultare con Giovanni di Procida per gravi lor malattie, quasi mancando al tutto i medici nel reame di Napoli, Gualtiero Caracciolo e Manfredo Tomacello, come si scorge da’ diplomi del medesimo archivio, citati dal Marra nello stesso luogo.

Duolmi non aver potuto nè pubblicare nè leggere per tenore il detto importantissimo diploma del 20 marzo 1293, perchè quel registro fu distrutto in una delle sommosse che recaron tanto guasto agli archivi pubblici di Napoli. Per altro non è da dubitare della esattezza della citazione, quando se ne trovano fedelissime mille e mille altre del Marra, e io stesso studiando que’ registri, ho veduto una infinità di diplomi segnati certo da lui, perchè toccavano uomini della propria famiglia o d’altre affini. Costui, che avrebbe potuto fabbricare una base saldissima alle istorie della alla patria, durò sì penosa fatica per tesser la genealogia di tutte le famiglie nobili imparentate con la propria!

Danno argomento di somiglianti pratiche in Sicilia nel 1294 altri diplomi, l’uno dato d’Aquila a 3 ottobre ottava Ind. anno 10 di Carlo II, ch’è salvocondotto per quaranta di ad Arnaldo de Mairata, almugavero catalano, venuto testè di Sicilia, e disposto a far ritorno, pro certis suis negotiis; e l’altro dato di Napoli a 16 novembre ottava Ind. salvocondotto al frate Rinaldo de Poncio, prior degli Spedalieri in S. Eufemia, per recarsi in Sicilia. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1294–1295, A, fog. 28 a t. e 54 a t.

103

L’ufficio di costui nell’ordine Gerosolimitano, ch’è stato argomento di dubbio tra i nostri istorici, si legge precisamente nel diploma del 10 ottobre 1294, citato in questo medesimo capitolo, pag. 62, in nota.

104

Bart. de Neocastro, cap. 114.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 20, 24.

Montaner, cap. 181.

Un diploma di Carlo di Valois negli archivi del reame di Francia, J. 587,18, dato d’aprile 1293, annunzia che si dovea fare un abboccamento tra i legati di Carlo II, Filippo il Bello e Giacomo di Maiorca, con que’ dei tre fratelli Giacomo, Federigo, e Pietro; e promette rinunziare alla concessione del reame d’Aragona, se fosse mestieri per la pace.

105

Così leggiamo nel Neocastro, dal quale è tolta tutta la diceria del Falcone, ch’ei forse udì raccontare dall’oratore medesimo.

106

Bart. de Neocastro, cap. 124.

La più parte de’ nostri istorici, non escluso il Testa, confondendo questa con l’altra ambasceria del 1295, ne portano una sola, mettendo insieme i nomi degli oratori dell’una e dell’altra. Non attendon essi che il Neocastro assegna a questa ambasceria la data del 1293, e riporta che Giacomo negasse il trattato; che lo Speciale e i diplomi mostran l’altra seguita d’ottobre 1295, e che il re confessasse il trattato: nè che son diversi i nomi degli oratori. Ad Accorgersi dell’errore sarebbe ancora bastato il riflettere su le parole del Neocastro, dalle quali si vede espresso ch’egli scrivea durante ancora il regno di Giacomo in Sicilia; quando ognun sa che esso ebbe fine con la seconda ambasceria, e che questo istorico ci abbandona appunto alla prima risposta del re, senza parlare di Celestino V, nè di Bonifazio VIII, nè degli altri uomini o fatti che precedettero il trattato d’Anagni. Però sono evidentemente diverse le due legazioni.

107

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 8, il quale par che l’abbia cavato da documenti, scrivendo con la usata diligenza, che il 4 novembre 1293 si stabilì l’abboccamento, e seguì nel corso di quel mese.

108

Raynald, Ann. ecc., 1294 §. 3.

Gio. Villani, lib. 8, cap. 5; e tutti gli altri contemporanei.

109

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 8.

110

Ciò non dice alcun cronista, ma lo fa supporr il silenzio loro intorno i fatti della guerra, e il provano fuor di dubbio i seguenti diplomi del tempo:

Diploma dato di Capua a 26 ottobre ottava Ind. (1294), a Pietro de Rigibayo milite, perchè rendesse a un terrazzano di Castell’Abate once trenta, presegli per riscatto contro i patti della tregua; di che avea scritto al governo dì Napoli Federigo d’Aragona. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1294–1295, A, fog. 34.

Diploma dato di Napoli a dì 8 novembre ottava Ind. anno 10 del regno di Carlo II, perchè, secondo la tregua, si rendesse a Zaccaria di Roberto e Bernardo di Mili da Messina, una lor nave carica di grano, spinta da fortuna di mare a Gaeta. Ibid., fog. 49.

Diploma del 23 novembre, su la restituzione della medesima Ibid., fog. 65.

Diplomi dati di Napoli a 1 e 11 dicembre ottava Ind., per l’omicidio di alcuni d’Ischia in Gaeta, del quale sollecitava la punizione Federigo, figliuolo di Pietro una volta re d’Aragona. Ibid., fog. 64 a. t. e 79 a t.

111

Diploma dato di Aquila a 7 settembre 1294, ottava Ind. anno 10 di Carlo II. Cotrone era tornata in fede per opera d’un Ugone, detto Rosso di Soliaco. Ratificava il re quantunque costui avea permesso a favor di quella città: dava perdono, e assicurazione de’ beni in piena forma, e anco, per quattro anni, franchigia dalle collette, taglie e sovvenzioni, dritto di legnare ne’ boschi, e altri simili favori. Nel r. archivio di Napoli, reg seg. 1294–1295, A, fog. 11.

112

Diploma dato d’Aquila a 14 settembre ottava Ind. (1294). Franchigia per 10 anni dalle imposte, accordata agli uomini di Castro Simero in Calabria, in mercè de’ danni sostenuti nella guerra. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1294–1295, A, fog. 3 a t. e 4 a t.

Diploma dato di Napoli a 21 novembre ottava Ind., che fa parola de’ danni che nella presente guerra avean sostenuto gli uomini di Positano. Ibid., fog. 65.

Diploma dato di Napoli a dì 11 dicembre ottava Ind. Franchigia accordata a que’ di Scala, Sorrento e Ravello per la miseria in cui li avea gittato la presente guerra. Ibid., fog. 78 a t.

113

Iacopo da Varagine, parte 12, cap. 9, in Muratori, R. I. S., tom. IX.

Francesco Pipino, lib. 4, cap. 10, in Muratori, ibid.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 29 a 32, in Muratori, R. I. S., tom. XI.

Gio. Villani, lib. 8, cap. 5.

114

Bolla di Celestino, in Lünig, Codex Ital. dipl., tom. II, Napoli e Sicilia, num. 63; e in Raynald, Ann. ccc., 1284, §. 15.

È da avvertire che il Giannone (Storia civile del regno di Napoli, lib. 21, cap. 3, addiz. dell’autore) porta questo trattato con la data del 14 novembre 1293, citando una bolla di Celestino, in Raynald, Ann. ecc., tom. XV, in appendice. Questa citazione, che mi è costata grandissima fatica al riscontrare, è inesatta. In quel luogo dei Raynald, segnato dal Giannone sulla edizione di Roma per Mascardo, che nella più corretta edizione di Lucca 1749, da me adoperata sempre nel presente lavoro, risponde al §. 15 dell’anno 1294, non si legge data degli accordi tra Giacomo e Carlo che vi sono inseriti. Forse il Giannone tolse questa data da Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 8; e pure errò, perchè quegli porta il 14 novembre come il giorno in cui si stabilì di far poscia un abboccamento tra i due re, seguito, come aggiugne il Surita, nel corso dello stesso mese.

115

Brevi del 1, 2, 5, 7, 8 ottobre 1294, in Raynald, Ann. ecc, 1294, §. 15.

116

Questo, oltrechè si scorge da’ trattati successivi, è anche provato dalla frequenza de’ messaggi che Carlo II mandava a Giacomo per trattar la pace, non solamente dopo gli accordi di Junquera, ma ancor dopo la ratificazione di papa Celestino, come il dimostrano questi documenti:

Diploma dato d’Aquila a 19 settembre ottava Ind. (1294). È il passaporto ad alcuni messaggi del re per Catalogna. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1294–1295, A, fog. 4, a t.

Diploma dato d’Aquila il 2 ottobre ottava Ind. Tre religiosi sudditi di re Carlo, Ruggier di Salerno, Rodolfo di Granville, e Roberto di Pilaneto, mandati dal papa in Francia per negozi del re. Ibid., fog. 17,, a t.

Diploma dato d’Aquila a dì 3 dello stesso mese, al podestà e consiglio di Lucca. Sovente occorrendo mandare e aver messaggi tra il re e Giacomo d’Aragona perchè s’ultimasse la pace, il re chiedeva al comune di Lucca, che nel transito non molestasse gli oratori di Giacomo. Simile diploma lo stesso dì ad Amerigo signor di Narbonne, e ad Amerigo figliuolo di lui. L’uno e l’altro, ibid., fog. 27, a t.

Diploma della stessa data e oggetto agli officiali del re di Francia. Ibid., fog. 28.

Diploma della stessa data al podestà e consiglio di Lucca, per Giuglielmo Lulio, e Bertrando d’Avellano da Barcellona, trattanti questa pace. Ibid., fog. 28.

Diploma del 10 ottobre ottava Ind. Salvocondotto e raccomandazioni per lo vescovo di Valenza e Bonifazio di Calamandrano, Magistrum Hospitalis Sancti Joannis Hierosolimitani in partibus cismarinis, messaggi del papa a Giacomo. Ibid., fog. 84, a t.

Diploma della stessa data e oggetto a Giacomo re di Malora. Ibid.

117

Gio. Villani, lib. 8, cap. 5 e 6,

Francesco Pipino, Chron., lib. 4, cap. 40, in Muratori, R. I. S., tom. IX.

Ferreto Vicentino, ibid., pag. 966, 967, 968, e 969.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1203.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 20.

Raynald, Ann. ecc., 1294, §§. 20 e 23, e 1295, §§. 11 a 15.

Guardai, e vidi l’ombra di colui,

Che fece per viltate il gran rifiuto.


Dante, Inf., c. 3.

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio,

Per lo qual non temesti torre a ’nganno,

La bella donna, e di poi farne strazio?


Inf., c. 19.

E comento di Benvenuto da Imola, che nota in questo luogo le stesse tradizioni istoriche degli altri contemporanei da me citati.

118

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 9.

119

Diplomi inseriti nell’Anonymi chron. sic. in di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 163, 168.

120

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 21.

Anon. chron. sic., cap. 53, loc. cit.

Geste de’ conti di Barcellona, in Baluzio, op. cit., pag. 578.

Il termine di settembre si legge in un breve di Bonifazio a Caterina di Courtenay, dato a 27 giugno 1295, in Raynald, Ann. ecc., 1295, §§. 29, 30.

121

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 6, cap. 12.

122

Breve di papa Bonifazio, in Raynald, Ann. ecc., 1295, § 32.

123

Atto del 20 giugno 1295, pel quale i legati di Francia e di Carlo di Valois rinunziarono in mani del pontefice l’investitura, che qui senza formole si dice accordata al re di Francia. Negli archivi del reame di Francia, J. 587, 19.

124

Diploma dato di Parigi il 12 gennaio 1295, col quale Giacomo di Maiorca si dichiara decaduto dal sussidio accordatogli dal re di Francia, nel caso che per sua colpa si sturbasse la pace. Il sussidio era 30,000 lire tornesi picciole in tempo di guerra, e 20,000 in tempo di tregua. Ibid., J. 598, 8.

125

Di gennaio 1296, Filippo il Bello donò al Valois la sua casa de Fligella in Parigi. Carlo II oltre la dote della figlia, gli avea accordato a 2 marzo 1293 le sue case anche in Parigi. Ibid., J. 377, 1 e 2.

126

Questi particolari del trattato leggonsi in Surita, Annali d’Aragona, lib. 6, cap. 10, il quale dice anche la data, e dà a vedere aver letto i documenti. Similmente il Feliu, Anales de Cataluña, lib. 12, cap. 4, annunzia tutte le condizioni dette da me nel testo, e per tutte cita in generale i documenti dell’archivio di Barcellona, aggiugnendo che i patti si tenner segreti per ingannare i Siciliani. Ma è da avvertire che non si parla della Sicilia nel trattato di Giacomo con Filippo e il Valois, conchiuso in Anagni alla presenza del papa il 20 giugno 1295, dal vescovo d’Orléans e l’abate di Saint–Germain–des–Prés, legati di Francia, e Gilberto Cruyllas, Guglielmo Durford, Pietro Costa, e Guglielmo Galvani dottore in legge, legati d’Aragona. Questo trattato è pubblicato dal Capmany, Memorias, etc., tom. IV, docum. 10, e negli archivi del reame di Francia, J. 589, 10, avvene una copia in buona forma. Non si parlò in esso della restituzione della Sicilia, la quale forse si stabilì in trattato segreto; perchè Giacomo avea ben ragione di coprire le sue brutture. Nei medesimi archivi di Francia, J. 587, 19, leggasi la rinunzia alla concessione dell’Aragona, fatta in mani del papa lo stesso giorno 20 giugno dai legali di Filippo il Bello e di Valois. Nella bolla di Bonifazio del 21 giugno, non si riferiscon tutti gli accordi, ma che inter caetera si era stabilita la cessione della Sicilia. Della quistione de’ confini, della ristorazione del re di Maiorca, ancor s’istruisce un breve di Bonifazio a Filippo il Bello, dato a 20 giugno, in Raynald, Ann. ecc., 1295, §§. 26, 27, 28.

Ricordisi la nota in questo stesso capitolo, sopra la restituzione dei beni a Giovanni di Procida.

Non ho citato intorno questa pace il Villani, che ne scrive nel lib. 8, cap. 13, perch’egli è poco informato e pieno di anacronismi.

127

Raynald, Ann. ecc., 1295, §§. 24 e 29 a 36, dove si leggono i diplomi di Bonifazio, dati a 20, 21, 27 giugno, e 2, 4, 5 luglio.

Du Cange, Hist. de l’Empire de Constantinople, docum., pag. 36.

Queste condizioni della pace e pratiche con Federigo, si trovano con poco divario e più brevemente nell’Anonymi chron. sic., cap. 51; Niccolò Speciale, lib. 2, cap. 20; Montaner, cap. 181.

128

Ruggier Loria possedeva in Sicilia i feudi di Aci, Castiglione, Francavilla, Novara, Linguagrossa, Tremestieri, San Pietro sopra Patti, Ficarra e Tortorici, come si vede dal cap. 16; e in Ispagna quelli di Cocentayna, Alcoy, Ceta, Calis, Altea, Navarres, Puy de Santa–Maria, Balsegue, e Castronovo, nominati in un diploma di Giacomo dato di Valenza il 5 dicembre 1597, che accordò in quelle terre a Ruggier Loria il mero e misto impero. Leggesi questo diploma nel Quintana, Vidas, etc., tom. II, pag. 192.

Non abbiam contro il grande ammiraglio prove manifeste di peculato, ma fortissimi sospetti; perchè delle due cose è certa l’una, o ch’egli fosse tenuto uomo d’una integrità senta pari, o che fosse conosciuto ladro del danaro pubblico, e tollerato per forza. I due diplomi di Giacomo dati di Barcellona il 7 marzo, forse 1291, e di Roma il 2 aprile 1297, e pubblicati dal Quintana, tom. II, pag. 178 e 180, pongono senza dubbio questa alternativa; perchè il primo scioglie li eredi dell’ammiraglio da ogni responsabilità per la sua amministrazione s’egli prima dì morire non ne rendesse i conti; il secondo, affidandogli un gran maneggio di danari, dice che renda solo un conto finale, da credersi in parola e senza documenti. Per questo diploma Ruggier Loria è eletto ammiraglio a vita in tutti i regni di Giacomo. A lui è data la cura della costruzione delle navi da guerra; l’autorità di far armare infino a due galee e prendere il danaro dalle casse regie senza special mandato del re; e il maneggio del danaro degli stipendi per tutta l’armata. Oltre a questo, gli è dato il dritto di spedire le patenti de’ corsali; la giurisdizion civile e penale su le genti della flotta durante l’armamento; l’autorità di scambiare i comiti, ossia capitani, delle galee; la franchigia di esportazione di qualunque merci lecite, comperate con suo danaro; il soldo di 60 sotbarch al giorno; la persona e le proprietà dello ammiraglio nemico che fosse preso in battaglia; gli utensili non nuovi delle galee prese e parte delle merci; gli scafi inutili delle navi regie; una ventesima parte de’ Saraceni presi, e una decima parte de’ nuovi tributi imposti su’ Saraceni; gli avanzi de’ naufragi; e gli altri dritti soliti degli ammiragli. Queste concessioni, egli è vero, furono in parte il prezzo del tradimento di Loria; ma non par dubbio ch’egli esercitasse in Sicilia, tra dritto e abuso, la più parte di questa autorità e di questi smisurati guadagni che gli si prometteano sotto le bandiere d’Aragona.

129

Bolla di Bonifazio, in Raynald, Ann. ecc., 1295, §. 37.

130

Breve di Bonifazio, ibid., 1296, §§. 8 e 9.

Du Cange, Hist. de l’Empire de Constantinople, ed. 1657, pag. 204, attribuisce il rifiuto ai consigli di Filippo il Bello.

131

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 22.

L’Anon. chron. sic., cap. 68, porta i nomi di Ugone Talach e Giovanni di Caltagirone, confondendoli con quei della legazione del 1293.

132

Manifesto di Federigo, nell’Anon. chron. sic., cap. 54.

Vi si legge espresso fatta quella promessa da Federigo a’ Siciliani in parlamento a Milazzo. Probabilmente fu lo stesso parlamento quello che deputò gli ambasciadori a Giacomo, ancorchè Speciale non dica il luogo dell’adunanza.

133

Montaner, cap. 182, il quale, per onor di Giacomo, non fa punto parola dell’ambasceria de’ Siciliani.

134

Jerem. Threni, cap. I, v. 12.

135

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 22.

Anon. chron. sic., cap. 52 e 54, il quale porta un diploma, che si legge anco in Lünig, Cod. Ital. dipl., tom. II, Napoli e Sicilia, 64.

Geste de’ conti di Barcellona, cap. 29.

136

Diploma citato. Altro del 30 ottobre 1295, in Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 5.

Veggasi anche il Montaner, cap. 182.

137

Diploma del 12 dicembre 1295, nell’Anonymi chron. sic. e Lünig, loc. cit.

138

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 23.

139

Montaner, cap. 184.

140

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 22, 25.

Del ritorno de’ Catalani alla lor patria, fa menzione il Montaner, cap. 184; e a cap. 185, delle supposte ragioni di Federigo.

141

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 23.

142

Tien quell’errore il Montaner, cap. 185, e riferisce gli altri motivi per cui Federigo si chiamò terzo, i quali non meritano che se ne faccia parola.

143

Raynald, Ann. ecc., 1296, §§. 7, 8, 9 e 10.

144

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 24.

Bolla di Bonifazio VIII, data il dì dell’Ascensione, anno 2, in Lünig, Cod. Ital. dip., Sic. e Nap., num. 65.

La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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