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CAPITOLO XV

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Coronazione di Federigo II di Sicilia. Novelle costituzioni, per le quali è ridotta nel parlamento gran parte della sovranità. Federigo porta la guerra in Calabria, Principi della discordia tra il re e Loria. Presa dì Cotrone; fazioni in Terra d’Otranto; combattimento del ponte di Brindisi. Papa Bonifazlo spinge Giacomo contro 11 fratello. Ambasceria di Giacomo. Parlamento di Piazza. Battaglia di Ischia. Viene Giacomo a Roma. Chiama a sè Loria. Ribellion di costui da Federigo. La regina Costanza il porta via di Sicilia, con Giovanni di Procida. Primavera del 1296 alla primavera del 1297.

D’ogni luogo di Sicilia cavalcavano alla volte di Palermo, all’entrar di primavera, gli ottimati ecclesiastici e civili, i sindichi delle città, e insieme privati borghesi, e plebe, e vassalli, con frequenza non più vista, per trovarsi a quel nuov’atto di libertà, la coronazione di Federigo. Indi la sera innanzi la pasqua di resurrezione, erano sparse di mirto le vie della capitale, i portici, i tempî, i palagi parati in mille bizzarre guise a drappi di seta e oro; le luminarie davan chiaro di giorno per le contrade; la cattedrale, festeggiandosi il vespro del sacro dì, ardea dal baglior d’infiniti torchi di cera, grandi, scrive Speciale, al par di colonne; il fracasso di trombe, corni, taballi, come simbol della guerra soverchiante i diletti della pace, vinceva l’armonia de’ più dolci stromenti, e i lieti canti del popolo, che tutta spese in tai sollazzi la notte. Al nuovo dì che fu il venticinque marzo milledugentonovantasei, nella cattedrale fu unto e coronato re di Sicilia Federigo; ricondotto al palagio tra plausi non comuni, a cavallo, con vestimenta regie, diadema in capo, scettro alla man sinistra, pomo alla dritta. Ei stesso armò cavalieri meglio che trecento giovani di nobil sangue; creò conti; die’ feudi ed ufici: fatti Ruggier Loria grand’ammiraglio; Corrado Lancia gran cancelliere, in iscambio del Procida; capitani dell’esercito Blasco Magona, frate Arnaldo de Poncio disertor di Calabria, Guglielmo di Casigliano e altri provati combattenti. Si passò ai giochi pubblici, adatti al secolo e al guerresco atteggiamento del paese, cavalcare, trarre al segno, giostrare; al palagio tennersi mense imbandite a chiunque, Così per due settimane si tripudiava145. In quel tempo, forse in quel primo brio, e con l’alacrità di chi avea gittato il dado a grande impresa, detta Federigo una poesia provenzale, indirizzata al suo fedel Ugone degli Empuri, che gli rispose nello stesso metro e rima: e i versi d’entrambi attestano con qual franco animo il giovin re andava incontro alla guerra; come fidava nella nazion siciliana; sperava negli aiuti degli avventurieri spagnuoli; e sospettava del re d’Aragona, dubbioso tra gl’interessi di famiglia che ’l tiravano a favorir Federigo, e le profferte e minacce de’ nemici che spingeanlo dal lato opposto. Federigo sfidava quasi gli uomini e la fortuna a trarlo giù dal trono, se potessero: Ugone par che credesse più nel coraggio, che nella capacità e nella mente del nuovo principe: ambo i componimenti, se non han pregio di poesia, servono alla istoria, perchè fedelmente dipingono l’animo di Federigo e le sue condizioni politiche146. S’innovò insieme la costituzione dello stato. Avean Pietro e Giacomo ristorato le buone leggi normanne, riformato abusi, temperato gravezze; ma Federigo, consigliato o sforzato da’ tempi, passò a sviluppare, ben oltre il confine normanno e svevo, i dritti politici della nazione, in guisa che, se non mutaronsi i nomi, si vantaggiò tanto negli ordini pubblici, da restar alla Sicilia premio non indegno del vespro. Nel proemio delle costituzioni, promettea Federigo, e non a ludibrio, di osservar la giustizia e liberalità comandate dall’Onnipotente ai re della terra. La colpa di Giacomo, gl’incerti passi ch’ei medesimo, Federigo, già diede con Bonifazio dopo essersi indettato co’ Siciliani, or lo strinsero a sacramentare su la sua fede e ’l terribil giudizio di Dio, che manterrebbe a tutto potere il presente stato della Sicilia; nè cupidigia di nuovo acquisto, nè altra ragione lo spunterebbe dalla difesa; nè farebbesi a domandar dalla romana sede scioglimento da cotali promesse, com’era pessima usanza di quell’età. A guarentigia di ciò, si strinse Federigo d’un altro vincol più duro: che nè con la Chiesa romana, nè con altri potentati, farebbe unquemai lega, pace, guerra, se nol consentisse la nazione. Slmilmente partì co’ rappresentanti della nazione il poter legislativo. Stanziò, che s’adunasse ciascun anno il dì d’Ognissanti generale parlamento de’ conti, baroni, e sindichi de’ comuni (nè qui si fa menzione di prelati), che insieme col re provvedessero alla cosa pubblica; e il re fosse tenuto, come ogni altro, dalle leggi decretate col parlamento. Data a questo la censura su i magistrati e uficiali pubblici; e che i sindichi accusassero, tutto il parlamento punisse. Tutto il parlamento, non esclusi i sindichi delle città, ebbe la scelta annuale di quella che noi diremmo alta corte de’ pari, cioè di dodici nobili siciliani, che giudicassero inappellabilmente, indipendenti da ogni altro magistrato, le cause criminali de’ baroni; importante privilegio de’ tempi normanni, ristorato or che montava l’autorità de’ nobili e del parlamento.

Confermò Federigo largamente le franchezze e privilegi degli Svevi e de’ suoi predecessori aragonesi, con ciò che nei casi dubbi s’interpretassero a favor dei soggetti. Nè terminò quest’ordine di leggi politiche, senza riforma in quelle sopra i delitti di maestà, ch’a gran pezza dipendono dalle politiche, e secondo l’indole del reggimento, or portan mite freno, or cieca ed efferata vendetta. Ondechè fu tolta a’ privati l’accusa di fellonia; riserbata al principe; lasciata ai rei la scelta del giudizio, come lor fosse a grado, secondo il dritto comune, le costituzioni dell’imperador Federigo, o le usanze larghissime di Barcellona. Volle il re in fine, che su i beni confiscati per alto tradimento, si rendesse alle mogli quanto lor dava la civil ragione, o ad esse e alle figliuole si porgessero sussidi per vivere. E intendendo nel principio del suo regno a cancellar ogni ombra di parte, vietò severamente le parole di fellone, guelfo, o ferracano, divenute ingiurie in questo tempo, in cui l’opinione pubblica e gl’intendimenti del governo non discostavansi un passo. Fu questo il primo libro delle costituzioni di Federigo147.

Contengonsi nel secondo poche riforme di abusi su l’amministrazione della giustizia148, perchè Giacomo ci avea provveduto appieno; ma notevol è lo statuto, che fossero Siciliani, nobili, e ricchi, da scambiarsi in ogni anno, e stipendiati dall’erario, i quattro giustizieri, deputati a conoscer le cause criminali per tutta l’isola, fuorchè in Palermo e Messina, che avean privilegio di speciali magistrati149. Sonvi ancora statuti ch’or diremmo di polizia, tra i quali si legge l’ordinamento de’ sortieri, ossia guardia cittadina, ne’ comuni demaniali, e che fosse multato d’un agostal d’oro tutt’uomo trovato per le strade senza lume, appresso il terzo tocco della campana150. Si diè maggior passo in altra parte d’amministrazione civile, decretando l’unità di peso e misura, se non per tutto il reame, ben in ciascuna delle due regioni in cui divideasi la Sicilia, a levante e a ponente del Salso151; e che nella prima si adoprassero il tumolo di Siracusa e il quintal di Messina; nella seconda que’ di Palermo152. Quanto innanzi sentivano in economia pubblica i Siciliani di quel tempo, si scorge altresì dalla legge ch’obbligò le chiese a vendere o concedere ad enfiteusi, entro un anno, i poderi ad esse pervenuti per lasciti o quantunque altro modo; talchè la incuria delle mani morte, come si chiamano, non nocesse all’industria del paese. Gli ecclesiastici, su i beni di lor patrimonio privato, andaron soggetti, come ogni altro cittadino, alle pubbliche gravezze: e si pose più giusta proporzione tra i contribuenti delle collette in ciascun municipio, che altra riforma non restava, dopo quella di Giacomo, nell’ordinamento delle entrate pubbliche153. S’aggiunse che gli uficiali dell’erario fosser tutti Siciliani, capaci, e obbligati ad esercitar gli ufici in persona: e stabilironsi i modi e i tempi in cui rendessero ragione di lor portamenti154.

Ma volgendosi nel terzo libro alla feudalità, s’ingaggiava a riconcedere i feudi che fossero caduti nel demanio regio; e più gratificava a’ baroni derogando alle leggi dell’imperator Federigo, anzi a tutt’ordine feudale, col permetter che si alienassero i feudi, pagata sì la decima al fisco, con lievi altre condizioni. Confermò, anzi estese alquanto, i capitoli di Giacomo per la successione de’ collaterali, e i discreti termini del militar servigio; migliorò le condizioni de’ marinai dell’armata155. Ebbe dunque la nazione, dritto di pace e di guerra e di dar leggi, moderate gravezze, più spedita e benigna amministrazione di giustizia, sicurezza pubblica, favore a’ commerci e alla agricoltura: nè merita poca lode, secondo i tempi, quella legge dell’alienazione de’ feudi, che, qualunque fosse stato il suo scopo, rendea più libere le proprietà. Federigo giurò solennemente l’osservanza di queste costituzioni; dienne perpetuo attestato nell’ultimo capitolo. Poco appresso confermava ai Catalani mercatanti in Sicilia i tre privilegi di Giacomo; rendea comuni a tutti sudditi spagnuoli del fratello que’ dati specialmente ai cittadini di Barcellona. Talmentechè è una mirabile somiglianza tra i primordi delle due dominazioni di Giacomo e di Federigo, per trovarsi ambo nelle medesime necessità in Sicilia, e sperar dall’interesse privato dei sudditi in Aragona, gli aiuti che quindi lor contrastava l’interesse del re156.

Poi si volse Federigo alia guerra. Tenne in Palermo l’ultima adunanza di quel parlamento; ove sedendo gli ottimati a destra e a manca del trono, a fronte i sindichi de’ comuni, il re con modesta parola, chiamando ogni suo potere da Dio, aringava; conchiudendo che rimbaldanziti i nimici, strignenti d’assedio Rocca Imperiale in Calabria, era uopo incalzarli per ogni luogo in terraferma; per pochi giorni più che si sudasse sotto le armi, i Siciliani asseguirebber premio di ferma pace; ei già li vedea azzuffantisi, vittoriosi, bagnati di novello sangue nemico. I quali detti fur tanto ne’ commossi animi, che non aspettato il fine, non serbato ordine o modo, prorupper tutti in un grido di: «Guerra al nemico, guerra per la libertà;» e deliberossi per acclamazione. Il popolo applaudendo con maggior foga, chiedeva le armi; agguerrito, non stanco in quattordici anni di guerra157.

Cavalcando il re per Messina, lo stesso amore il festeggiò a Polizzi, Nicosia, Randazzo, e per ogni luogo; e più a Messina, gareggiante con Palermo, allor solo in virtù. Quivi per lungo tratto fuor la città si faceano incontro al principe, con bandiere e pennoncelli e signorile abbigliamento, gli uomini di legge, onoratissimi in quel culto popolo; i nobili vestiti di seta, su cavalli ricoperti a drappi di oro; il clero venia salmeggiando; più presso alla città si trovaron brigate di matrone e donzelle, ricchissime di vesti, di gemme, di profumi orientali. Entrò Federigo per le strade parate e sparse di fiori; sotto un pallio portato da nobili uomini; precedendo un araldo che gridava le sue lodi; rispondendo il corteggio e il popolo; e gli stessi bambini, dice lo Speciale, facendo plauso in braccio alle madri. Smontato al palagio, la madre, la sorella che sì l’amava, la prima volta il salutarono re. Confermò ai cittadini messinesi la libertà di mercatare per tutta la Sicilia portando o traendo derrate, ch’era gran privilegio tra’ sistemi proibitivi di quell’età, e loro l’avea dato l’imperador Federigo, l’ultim’anno del secol duodecimo158. Loria allestì l’armata con mirabile prestezza in quest’alacrità della nazione. Nè andò guari che il re, spiegando la prima volta in guerra, l’insegna delle sveve aquile nere in campo bianco inquartate con l’addogato giallo e vermiglio di casa d’Aragona, passò lo stretto, con fortissim’oste, e fu accolto in giubilo a Reggio159. Perchè questa e altre città di Calabria eran rimase in fede della nazione siciliana, non ostanti gli ordini di Giacomo. Più se ne eran perdute; a ridur le quali non bastava, per aver poche genti, il pro Blasco Alagona; ma le tenea in sospetto, e stringeva Squillaci.

Su questa marciò dunque Federigo, poich’ebbe fatta la massa a Reggio. E al primo scorger la postura di Squillaci, domanda s’abbia altre acque che delle due riviere a pie del colle; e sapendo che no, fatte venir le genti dell’armata, le sparge sulla ripida costa che dalla città pende sul fiume, occupa intorno tutti i passi. Dondechè i terrazzani sitibondi, brucianti, che guardavan dall’alto la limpida corrente del rivo, e lor era vietata, disperatamente uscirono ad azzuffarsi co’ nostri; ma rotti da Matteo di Termini, e rincacciati entro le mura, per non trovare altro scampo al morir dalla sete, s’arresero a Federigo160. Lasciata Squillaci, ei sostò alquanto presso Rocchella, per deliberare i movimenti della guerra contro il conte Pietro Ruffo, che s’era afforzato in Catanzaro, ubbidito alsì da tutta la provincia.

Quivi s’accese tra i nostri capitani una lagrimevole discordia. Perchè Ruggier Loria, grandissimo di fama, d’avere e d’orgoglio, pensava troppo d’essere primo o solo sostegno del nuovo principato: e allettandolo le arti di Giacomo e de’ nemici, che profferian alto stato a lui e a Giovanni di Procida e a tutt’altri stranieri gittatisi nella siciliana rivoluzione, tanto teneva ormai l’ammiraglio per Federigo, quanto questi e ’l reame di Sicilia si reggessero del tutto a sua posta. Per le medesime cagioni gli altri baroni, valenti anco in guerra, invidiavan profondamente l’ammiraglio, ed eran più grati a Federigo. A questi umori non mancò presta occasione. Volea il re oppugnar Catanzaro, avvisando che con essa cadrebbe tutto il paese: Loria, al contrario, congiunto di sangue col conte, lo dipingea fortissimo; però si lasciasse stare, s’occupasser le altre facili terre, Catanzaro si avrebbe per fame. In tal disparere, gli altri capitani non osavano in consiglio dir contro Ruggiero, perchè non li conficcasse di rimbrotti in qualche sinistro; non voleano lasciar passare non malignata la sua sentenza; ma con gesti e mormorar tra i denti, fean peggio che con parole. Federigo colse il cenno, e risoluto comandò di marciare su Catanzaro; l’ammiraglio apprestasse le macchine per lo assedio. Ed egli tacque e ubbidì.

Messo il campo al castello, parve a Federigo assaltarlo dal Iato ov’era fabbricato sul piano; e volendo colmar di tronchi e fascine il fosso, con molto ardore egli stesso conducea le genti al vicin bosco; di sua mano dava con la scure per gli alberi; talchè fornita l’opera in poche ore, grande massa di legname si ammontò sullo spalto. S’udiron tutta notte squillar di qua e di là le trombe; stettero in arme gli assediati per timore, i nostri per impazienza del saccheggio, che promettea il re. Al far dell’alba, appena dato il segno, appianato in un attimo il fosso, le genti di mare leste scalavano. Ma un dispettoso comando le arrestò. Il conte, con l’acqua alla gola, chiama l’ammiraglio, mescolatosi, com’ei solea, tra i combattenti; gli offre darsi a patti, raccomandandosi a lui per lo comun sangue: e l’ammiraglio, fattogli cenno a tacersi, che non udissero i soldati, comandò di far alto, prima a suon di tromba, poi con voce e minacce egli stesso, galoppando qua e là sotto i muri; perchè i nostri, per tener già la vittoria, non sapeano spiccarsene. Corse indi Loria al re; n’ebbe una prima ripulsa, ma non restandosi per questo, e tirando seco altri baroni, tanto disse che, fremendone tutta l’oste, impetrò alfine l’accordo: si rendesser Catanzaro e le altre terre della contea, non avendo soccorso dal re di Napoli tra dì quaranta. Con giuramento e statichi il conte ratificò. Entrò nella tregua tutta la Terra Giordana, fuorchè Sanseverina, renduta ostinatissima alla difesa dall’arcivescovo, per nome Lucifero, che per lo suo gregge, Speciale dice, si giocava l’anima; e non ostia, ma umani corpi, non mistico vino, ma uman sangue offriva al Cielo. Federigo accampossi, per l’amenità del luogo, sotto Cotrone, ingaggiata dall’ammiraglio ne’ medesimi patti di Catanzaro161. E tenendo appresso di sè dodici galee, mandò l’ammiraglio col rimagnente della flotta e trecento cavalli su’ confini di Basilicata, a sovvenire Rocca Imperiale, duramente battuta dal conte Giovanni di Monforte162.

Col solito ardire quivi sbarcò Ruggiero; avvicinossi al campo nemico; poi, accozzate le forze con frate Arnaldo de Poncio, prior di Sant’Eufemia, che combattea in quelle regioni per parte aragonese, vittovagliarono la rocca una notte, con sacchi di grano portati in groppa da’ cavalli, in ispalla da’ pedoni, in improvvisa fazione sugli assedianti. Di lì l’ammiraglio percote d’un altro assalto Policoro, presso alla foce dell’Acri; vi prende i viveri dell’oste di Monforte, e cento cavalli che stavano a guardia. E tornavane al campo di Cotrone tutto lieto, se un caso non facea divampar tra lui e il re la rattenuta ira163.

Perchè durante la tregua, i terrazzani di Cotrone, venuti un dì alle mani co’ Francesi del presidio per private cagioni, e avutone il peggio, chiaman soccorso dal nostro campo, di là ov’era attendata la fiera gente delle galee; la quale, rapite in furia quelle armi che il caso offrì, salta dentro, rinnova la zuffa, e rifuggendosi i Francesi nel castello per postura fortissimo, entravi rinfusa con essi, pone ogni cosa a sacco ed a sangue. Intanto levandosi il romore nel campo, Federigo che meriggiava, desto dal sonno, così com’era senz’arnese, afferrata una mazza, lanciossi a cavallo, spronò al castello; e il trovò sforzato, e i suoi ch’uscivano col bottino. Ond’ei crucciosamente proruppe a rampognarli della rotta fede, nè si ritenne dal trucidar di sua mano i men presti a fuggirgli dinanzi. Poi comandò fosse resa tutta la preda; pagato dalla cassa regia ciò che non si rinvenisse; dati due prigioni, francesi per ognuno morto nella mischia: e fe’ scusa della tregua violata, ma non rendè la fortezza. Fe’ imbarcare il capitano francese, Pietro Rigibal, con tutto l’avere de’ suoi, e lettere drizzate all’ammiraglio, narrandoli il successo, e commettendo ch’avviasse Rigibal coi renduti prigioni al re di Napoli, poichè altra riparazione non restava.

Ma l’ammiraglio all’intendere il caso, infellonito diessi a gridare: «Son io, son io la cagione!» e affrettatosi al campo, assai superbamente parlava a Federigo, delle sue geste, dell’incontaminata fede guerreggiando fin co’ barbari e gl’infedeli; questa esser macchia incancellabile sul suo nome. «Mai più, conchiuse, mai più non sarò ludibrio di chi sta e susurra perfidi consigli agli orecchi del re. A man giunte, dalla rocca di Castiglione, vedrommi il fine di questa guerra. E tempo verrà che i ribaldi calunnianti or me in corte, tremeranno in faccia al pericolo.» Federigo, contenendosi appena, con un sogghigno gli rispondea: non ricantasse que’ servigi, noti e pagati a soperchio: essersi fermati a nome del re i patti di Cotrone, al re toccava mantener la sua fede; e a tutta possa aveal fatto; ma non saper soffrire l’orgoglio; andasse pur via dall’oste a sua voglia: e montato a cavallo, il piantò. Corrado Lancia, fidatissimo di Federigo, cognato dell’ammiraglio, tramezzatosi a riconciliarli, salvò almen le apparenze. Sì che per questa volta l’uno e l’altro si davano a sfogar sopra i nimici gli animi grossi e tempestosi164.

Prosperamente avanzavano in terraferma le armi nostre. Avuti i messaggi del conte di Catanzaro, re Carlo, esausto di danari, dopo molta deliberazione, avvisò munir le città marittime di Puglia, senza affaticarsi a impotenti aiuti nelle Calabrie; onde scorsi i dì quaranta, vennero in poter di Federigo tutta la contea di Catanzaro e la Terra Giordana. Il re con l’esercito, Loria con l’armata, venuti in questo sopra il conte di Monforte, lo fean levare dall’assedio di Rocca Imperiale. Poi l’uno, cavalcando ambo le Calabrie vittorioso, piegò agli accordi il feroce arcivescovo di Sanseverina; occupò, dato il guasto al contado, Rossano fortissima di sito, e le terre d’attorno; e inanimito da’ successi, minacciava le province di sopra. L’ammiraglio, valicato il golfo di Taranto, assaltava Terra d’Otranto. Dapprima innoltratosi sull’asciutto fino a Lecce, d’improvviso assalto di notte, la sorprese e depredò. Rientrato in nave, presentasi ad Otranto; senza fatica se n’insignorisce, mentre gl’irresoluti cittadini nè difendeansi, nè venieno a’ patti; e perchè gli parve comodo il porto, la rafforzò di torri e di mura, lasciovvi tre galee e scelta gente di presidio165. Dopo ciò tentava un colpo su Brindisi.

Ma perchè vel prevennero secento cavalli francesi, Ruggiero, posti in terra i suoi, trinceossi alla Rosèa con pali e corde intorno, a sua usanza; e non potendo assaltar la città, dava il guasto al paese. Avvenne un dì, che conducendo egli stesso la cavalcata infino al ponte di Brindisi, i fanti che ’l seguiano, spinsersi oltre il fiume in cerca di verzure e più limpid’acque, in un luogo che l’ammiraglio non tardò a riconoscer atto ad insidie: ond’ei sopra un ronzino corse lor dietro, gridando che tornassero. Ed ecco una torma di cavalli francesi, uscita dall’agguato, a corsa drizzarsi al ponte. Voltò la briglia Ruggiero; a mala pena guadagnò il ponte; gridò che gli recassero il suo destrier di battaglia; e ansando facea montare gli uomini d’arme: perchè nella difesa del ponte stava la salvezza de’ suoi, sparsi e pochi incontro al grosso stuolo nimico. Già il capitano, Goffredo di Joinville, con un altro nobil guerriero, trasvolavan oltre l’arco di mezzo; eran perduti i nostri, se Peregrino da Patti e Guglielmo Palotta, cavalieri siciliani, non si gittavan soli sul ponte. Costoro a’ due Francesi fecer testa, indi a tutta la torma accalcatasi allo stretto varco: bagnati di sangue da capo a piè, coperti di ferite, tennero il ponte finchè l’ammiraglio sopravvenne co’ suoi, gridando: «Loria, alla riscossa!» Allora si strinse più aspra la zuffa. Sotto i colpi delle spade e delle mazze volavano, scrive Speciale, in pezzi le armature; fronte con fronte, petto con petto, cozzavano i guerrieri. L’ammiraglio e Joinville per caso affrontansi: e alza questi la mazza per ferire; Ruggiero al tempo, gli vibra una punta tra corazza ed elmo; ondechè il Francese, avvampando di vendicarsi, immerge gli sproni ne’ fianchi del cavallo per gittarlo addosso al nemico; e gittossi a morte, perchè l’agil animale, spiccato un salto, precipitava giù dal ponte. Nè finì la tenzone a questo; dura e ostinata si travagliò, finchè i balestrieri siciliani, bersagliando la massa de’ nemici serrata sul ponte, laceraronla, diradaronla e volserla in fuga. Molti, fitti nella melma del fiume, restarono uccisi o prigioni; i fuggitivi non inseguì Loria co’ suoi, laceri e ansanti poco men che i nimici, per la disuguale battaglia. Indi non s’ebbe dalla vittoria altro frutto166. Ma la virtù di Peregrino da Patti e di Guglielmo Palotta, che ricorda per la somiglianza del caso, illustri esempi antichi e recenti, degnissima è della nostra memoria. Speciale la registrò nelle istorie siciliane; poi l’hanno obbliato i più, perchè tutto quaggiù, anche la gloria, vien da fortuna. E maggior mancamento mi sembra che nel toccar questi fatti, pochi scrittori e vagamente, s’innalzavano alla considerazione politica, che travagliandosi in guerra i due reami di Sicilia e di Puglia, il primo vinse per lo più il secondo, ch’è tanto maggiore di territorio: e nella state del novantasei, non che difendersi, conquistava tutto il paese dalla punta di Reggio al capo di Roseto167; infestava Terra d’Otranto; e più addentro portava le armi, se non ch’entrovvi di mezzo l’interesse degli altri potentati d’Europa.

Perchè papa Bonifazio, vedendo torcer Federigo dalle sue vie, più si ristrinse con Giacomo, per lanciarlo contro il fratello. E prima a ventuno gennaio del novantasei, col titol sonante di gonfaloniere, ammiraglio e capitan generale della santa sede, condusse il re di Aragona ai suoi soldi; da combattere in Terrasanta, e quest’era il pretesto, o altrove, e quest’era l’effetto, contro qualunque nimici e ribelli della Chiesa, con sessanta galee, armate da lui, pagate dal papa; e n’avesse Giacomo la metà della preda, l’investitura di Corsica e di Sardegna, del rimanente gli acquisti fossero della Chiesa o degli antichi signori cristiani168. Poco appresso il sollecitò Bonifazio a venir, com’avea promesso, a Roma169. E punto al vivo da Federigo, che tentava in questo tempo gli animi dei Napolitani, praticava con usciti lombardi e toscani, e fin co’ romani Colonnesi già disposti a ribellione contro il papa, più gravemente scaricò i colpi spirituali il dì dell’Ascensione; cassò l’atto del coronamento del re di Sicilia; scomunicato lui, co’ popoli e loro amistà; dato termine a pentirsi il dì di san Pietro, nel quale rinnovò le maledizioni170. Intanto spandea le indulgenze a chiunque portasse armi contro Sicilia; aiutava Carlo con le decime ecclesiastiche del regno e di Provenza171. Talchè il re di Napoli, non ostante que’ rovesci, volendo ritentar la guerra, o farsen pretesto a cavar moneta da’ popoli, bandi general parlamento a Foggia, pel dì venti settembre; disse di nuova impresa sopra la Sicilia172, ingiungendo ai feudatari che venissero in armi o pagassero173. Giacomo s’apprestava anch’egli al combattere; ma, ritenuto da pudore, e dalla briga che davangli in casa le guerre di Murcia e Castiglia174, volle tentar prima nuovi ammonimenti a Federigo.

Al cader della state, guerreggiando Federigo in Calabria, giunsegli messaggio del re di Aragona Pietro Corbelles, de’ frati predicatori, parlando blandizie di pace; e finiva con minacce, che Giacomo, fatto or capitano della santa sede, non starebbe in dubbio tra quella e il proprio suo sangue; nel petto della madre, nelle viscere de’ figli immergerebbe la spada a’ comandi del santo pontefice; aprisse pur gli occhi Federigo, a ciò il fratello il richiedea d’un abboccamento ad Ischia. Ma Federigo, nulla mosso, palesava l’ambasceria ai suoi baroni; e vistili balenare, con generose parole li confortò. Riferissi del negozio al general parlamento, secondo i freschi patti fondamentali; e perchè pensava che troverebbevi spiriti più generosi. Lasciato dunque luogotenente in Calabria con giuste forze, Blasco Alagona, ei tornato di fretta in Messina, dà giorno e luogo al parlamento; richiama Loria con l’armata175. Costui pe’ narrati sdegni, o perchè pareagli disperato il caso di Federigo, avea già in Terra d’Otranto ascoltato pratiche de’ nemici. Bartolomeo Machoses di Valenza, inviatogli da Giacomo in agosto, sotto colore d’ingiunger che risegnasse il feudo di Gerace in Calabria, l’avea indettato forse a tradigione: e anco si sospettò che se ne fossero allacciate le prime fila, fin dal tempo della esaltazione di Federigo, quando i baroni aragonesi leali a Giacomo si partiron di Sicilia. Altri messaggi in tutto questo tratto il re di Aragona avea spacciato alla madre, allo stesso Federigo, alle città di Palermo, Messina, e altre prime dell’isola176. Talchè l’ammiraglio, tornato immantinente a Messina, e abboccatosi col frate spagnuolo che stava ad aspettar la deliberazione, non fu senza speranza di avviluppare il vicin parlamento, che si calasse agli accordi. Convenuti in Piazza, di mezz’ottobre, i baroni e’ sindichi delle città, scopertamente diessi ad aggirarli, far partigiani, sparger terrori e promesse. Ma Vinciguerra Palizzi e Matteo di Termini, con più caldo s’adoprarono per lo contrario effetto; speser la notte innanzi l’adunata, girando qua e là a scongiurare che non si lasciasse partir Federigo. Indi forte si combattè in parlamento.

Esposta l’ambasceria, si dava liberissimo voto a ciascuno; e pendeano i più alla ripulsa, per amor di Federigo o di sè stessi, temendo Giacomo noli seducesse, allorchè Loria col pianto sugli occhi, quasi per pietà del paese, s’alzava ad orare: «Non ingannassero sè medesimi; sarebbero irresistibili le congiunte forze di Giacomo e di Carlo; ripiglierebbero le Calabrie in un batter d’occhio; porterebbero in Sicilia fame, incendi, stragi; pagherebbe di molto sangue la Sicilia questo insensato ostinamento, All’incontro, qual danno nell’andata di Federigo? e forse, per l’amor che gli porta, si volgerà a noi il re d’Aragona. Ma s’ei verrà da nimico, pensate quanti Catalani e Aragonesi mancheranno alle vostre bandiere. Posson essi prender le armi per chi lor piaccia, ma son traditori se combattono contro le bandiere del re d’Aragona177.» Gran bisbiglio seguì a questo parlare, vergognando gli stessi partigiani dell’ammiraglio ad assentir con parole, ma chinavano il capo; e gli altri altamente dicean contro: onde dopo lunga contesa, nulla deliberavasi.

Il dì seguente tolse ogni dubbiezza il re, surto egli stesso a concionar l’adunanza. «Non ripeterò, disse, le parole che si son fatte, che sono pur troppe. Io penso che dal trattare, altro non tornerebbe che più fuoco d’ira, tra Giacomo, soldato de’ vostri nimici, e me, che tutto alla Sicilia sonmi giurato: e tra la Sicilia e’ suoi nimici non è via di mezzo; o libera com’oggi, o calpestata oltre ogni antico strazio di servitù. Su questo partito deliberate dunque, non sull’andata del vostro re ad Ischia. Ma tu, Ruggier Loria, che parlavi misterioso di leggi e usanze d’Aragona, ricorda che io son re in Sicilia quanto Giacomo altrove: che s’ei mi porta ingiusta guerra, non sarà traditore se non chi me tradisce! E quanto a’ pericoli dipinti sì atroci, richiama al tuo cuore l’antica virtù; pensa che Iddio combatte contro gl’ingiusti e i superbi.» Coronò tal generoso parlare il decreto del parlamento, che vietò l’andata all’abboccamento con Giacomo. Il fece intendere Federigo all’ambasciadore; accomiatollo178; e cominciò ad apparecchiar la Sicilia a validissima difesa.

Ma non son da pretermettere gli altri atti di questo parlamento di Piazza, non sì scosso dal grave partito politico, che non pensasse, quasi posando in pace, a molti statuti, trasandati in mezzo alle leggi fondamentali del parlamento di Palermo, o suggeriti da novella esperienza, o portati dallo sviluppo di novella forza civile. Ed in vero si favorì tanto sopra l’aristocrazia l’elemento municipale, che se ne scorge evidentemente la preponderanza della parte popolana, e l’intendimento di Federigo a fondarsi in su quella, più che sul baronaggio, fattosi torbido e parteggiante; e s’ha valido argomento che la parte popolana, alla quale, com’avviene, accostavansi anco parecchi nobili, fosse stata quella che vinse il partito della guerra in questo parlamento, e sostenne Federigo e la rivoluzione. Certo quegli statuti danno a vedere, secondo i tempi, assai civiltà. Decretavasi: i castellani non s’ingerissero nelle faccende de’ vicini municipi; non i nobili nelle elezioni de’ magistrati comunali; i feudatari non pretendessero dritti sul passaggio degli armenti; non levassero a lor posta gabelle sulle grasce; non frodassero i vassalli nella misura de’ poderi soggetti a terratico; nè terratichi nuovi riscuotessero su i feudi conceduti testè dal demanio: si vietò l’alienazione de’ feudi oltre i termini della recente legge; si die’ obbligo a’ baroni di soggiornare in Sicilia o tornarvi in corto tempo: e che il principe solo potesse assentire i matrimoni delle lor figliuole co’ figli de’ nemici allo stato179. Altri statuti, proclamando che i deboli non debban soggiacere ai potenti, studiavano nuovi argini ai radicati abusi degli uficiali sull’avere dei privati180; innalzavano in ogni comune un ministero pubblico di tre cittadini, obbligati per giuramento a denunziare tutti gli aggravi de’ giustizieri e uficiali qualunque, e sì i misfatti contro la sicurezza delle persone; i quali, dal sacramento che davano, si appellaron giurati181. Fu decretata libertà universale d’importazione ed esportazion di vini e altre derrate; inibito di prender le persone o i letti, o diroccar le case pei debiti delle collette; francati da queste i militi182. Si rinnovi il divieto d’ingiuriar altrui con gli odiosi nomi di guelfo o ferracano: riabilitati agli ufici i sospetti di queste opinioni politiche, non rei di alcun fatto183. La quale benignità di principi s’osserva non meno nei molti ordinamenti sopra gli schiavi saraceni e greci, che numerosissimi erano in Sicilia per causa del corseggiar nelle ultime guerre: statuti tendenti a procacciar la conversione de’ primi alia fede di Cristo, de secondi a’ dommi ortodossi, o mantenere il pubblico costume; ma si fe’ divieto ai cristiani di usar con giudei; a costoro di tenere ufici ed esercitar la medicina184. Scagliossi pena del capo contro gli avvelenatori, stregoni, indovini, incantatori, che spargon, dice lo statuto, profani errori, e ingannano i popoli con empie fallacie185: talchè nè corsero quegli antichi nostri legislatori all’atroce e usato supplizio del fuoco, nè mostrarono prestar fede a negromanzie, ma puniron solo la frode e il disordine civile. A questo medesimo effetto con molto studio vietaronsi i giochi di sorte, non di destrezza; e si commendaron que’ d’esercizio nelle armi186. Allo zelo di religione e morale, ch’appar da cotali ordinamenti, s’aggiunse un particolare statuto contro la usurpazione de’ beni ecclesiastici; un divieto di portar armi, ferro, o legname a paesi d’infedeli; ma si pagò il tributo a’ tempi con lasciar salva alla santa sede la riforma; e non si dice sol delle leggi per le quali poteano vedersi incerti i limiti tra il sacerdozio e l’impero187. Su questi capitoli di Piazza, perchè essi contengono più numero di sanzioni penali che niun degli altri anteriori di Federigo stesso o dì Giacomo, noteremo, ch’eccetto il sommo supplizio contro i maestri di veleni e malie, le pene son pecuniarie o di privazione; poche di carcere a tempo; e pei giochi vietati s’aggiungono in un caso le battiture. Riserbossi il principe di gastigare ad arbitrio alcuni abusi degli uficiali, e dichiarar secondo i casi la qualità del carcere detto dinanzi188. Talchè possiamo anco dir mite e non troppo disuguale il penal sistema che si tenne di mira.

In questo tempo, reggendosi sempre Ischia per noi, Pier Salvacoscia con cinque galee vi combattè bella fazione, assalito da nove teride smisurate, zeppe di armati, che i Napolitani mandavano a acquistar l’isoletta, vergognanti del tributo ch’indi si levava su i vini navigati per lo golfo. Appiccata la zuffa senza curare il disugual numero, vinsero i nostri; ogni galea cattivò una terida; fuggendo le quattro rimagnenti, i cui capitani re Cario fe’ mettere a morte, uscito questa fiata dall’indole sua dolce189: e come disperando delle armi, cavalcò per Roma a ripregar Bonifazio. Costui indi punse nuovamente Giacomo che venisse a Roma; diegli le decime ecclesiastiche d’Aragona per l’armamento190. Giacomo, apparecchiandosi, di febbraio del novantasette mandò per ultimo avviso al fratello il vescovo di Valenza e Guglielmo di Namontaguda, insistendo per l’abboccamento ad Ischia. Ma perchè quei rispondea che ne riferirebbe al parlamento, gli oratori replicarono, che Giacomo anco ubbidirebbe al papa; e Federigo a loro, ch’ei perciò non terrebbe nimico il fratello, e molto meno la nazione catalana e aragonese; e farebbe anco richiamo alle corti. Partiron dunque scontenti gli ambasciadori spagnuoli: Federigo mandonne in Ispagna, e senza miglior frutto; perchè piaceva a que’ popoli, sì come al re, la pace con Francia, fors’anco lo stipendio del papa191. Speso in tali vane pratiche il verno, allo scorcio di marzo del novantasette si trovò Giacomo in Italia; senza armata, perchè volea più certo e largo il prezzo del muover guerra al fratello. Ebbelo da papa Bonifazio, che incontanente porgeagli la bolla d’investitura di Corsica e Sardegna192, sol riserbandosi un anno a ritrattarla se fosse uopo al negozio di Sicilia193: manifesto disegno di un baratto con Federigo. Nondimeno prendea Giacomo la corona delle due isole; dava il giuramento per lo supremo impero delle armi della Chiesa194; e ottenne dal papa, che nell’assenza sua di Spagna, il reame stesse sotto la protezion della santa sede, e, che legati di lei, n’avessero cura i vescovi d’Ilerda e Saragozza195, ed esortassero i popoli alla siciliana impresa. Poco appresso si fe’ dare indugio alla restituzione di Maiorca a Giacomo suo zio196: fidanzò la sorella, Iolanda, a Roberto erede presuntivo della corona di Napoli: fe’ stretta lega con Carlo II per ridur la Sicilia. Nè preparava per anco le forze, ma per messaggi fitto praticava con Loria.

Il quale risoluto a spiccarsi da Federigo perchè nol potea governare, operava sempre più baldanzosamente. Un dì cavalcando il re con Corrado Lancia per la spiaggia di Musalla a Messina, fattosi tra loro, mostrava lettere di Giacomo che il chiamavano a un abboccamento; prometea di adoperarvisi per Federigo, e tornare. E il re, incauto o superbo, a’ conforti di Corrado gli dava il commiato; assentivagli ancora due galee per andare in Calabria a munir sue castella in questi nuovi pericoli di guerra. Ma quando l’ammiraglio ritornò in Messina per prender il viaggio di Roma, trovò il giovan principe, che suscitato dalle parole de’ cortigiani, avea rugumato su tal dimestichezza di Loria co’ nimici, su queste genti, armi, vittuaglie che adunava nelle sue castella; tra i quali pensieri dubbiando Federigo, ch’animo avea generoso con poca mente, tenne la peggior via: nè accarezzar quel grande, nè spegnerlo; ma l’offese. Porsegli ei stesso il pretesto che l’ammiraglio cercava per salvarsi dal biasimo di tradigione, nel che riuscì tanto appo i contemporanei, che qualche istorico in tal sembiante il tramandava alla posterità. In piena corte, fattosi quegli a baciar la mano al re secondo usanza, Federigo ritira a sè la mano sdegnosamente, e a Ruggiero che drizzavasi a domandar perchè tal oltraggio? brusco risponde: «Perchè trami co’ miei nimici»; e seguì più acceso; e finì comandandogli non movesse pie’ dalla sala. Seguitonne uno spaventoso silenzio. Niuno stendea le mani sull’ammiraglio; ei, soprappreso dall’ira del re, non osava partirsi: dispettoso e fremente si trasse in un canto. Ma Vinciguerra Palizzi e Manfredi Chiaramonte, che non amavan forse Ruggiero, ma nè anco l’esempio d’un tal grande spento fuor dagli ordini delle leggi, fecersi a parlare per esso, con dolcezza che poi tornò sì dannosa alla patria. Mitigato da loro, il re li accettò mallevadori dell’ammiraglio; e questi, ch’era già notte, fu lasciato partir dal palagio, libero e ingiuriato.

Vola alle sue case, lieto in volto; convita a cena i molti amici adunatisi a complir del ritorno di Calabria; e mentre s’imbandiscon le mense, precipita per una scala segreta; monta a cavallo con tre fidatissimi; e a spron battuto prende la via di Castiglione. Giungevi all’ora terza del dì, con felice consiglio: perchè già Federigo, levato su dai nimici dell’ammiraglio, tornando allo sdegno, aveal fatto appellare alla sua presenza. Pericoloso ondeggiamento, che mosse tutta la Sicilia. Assai partigiani di Ruggiero, deliberati a correr con esso quantunque fortuna, vanno a trovarlo armati: ei rafforza con estrema prestezza le castella di Novara, Tripi, Ficarra, Castiglione, Aci, Francavilla, e altri luoghi che tenea in feudo: e minaccioso e fiero si stava. Quando i due mallevadori vennero a richiederlo che tornasse alla ubbidienza, e gli offrian sicurtà dalla parte del re, Ruggiero, per sentirsi in colpa o mosso da superbia, con molte ragioni il negò: alfine pagò del suo la enorme somma della malleveria; e tennesi sciolto da ogni vincolo d’onore. Tuttavia nè mosse guerra, nè chiese pace al re. E questi, dopo i primi errori, fatto senno, non osò assaltarlo, per non accender una guerra civile con le armi straniere alle spalle. Ma poco minor pericolo gli era l’indugio197. Di tal frangente il tirò la regina Costanza, con quella medesima riputazione ch’avea due anni prima ammorzato lo scisma di Giovanni di Procida. La regina, chiamata a Roma dal maggior figliuolo per menar a nozze la Iolanda, vinse sè stessa a lasciar Federigo; sperando pure metter pace tra gli sdegnati animi, e guadagnarne alla propria coscienza col rientrar in grembo della Chiesa. Volle per tal andata, con mirabil modestia, la permissione di Federigo: e sotto specie di chiederli compagni al viaggio, levò di Sicilia, con onor del re e loro, l’ammiraglio, pronto da un dì all’altro a romper guerra, e Giovanni di Procida, sospetto al par di costui, o peggio. Loria, avuta da Federigo sicurtà fino all’imbarco, non lasciò le sue fortezze, senza pria comandare a tutti i vassalli che stessero saldi, e quando Giovanni Loria nipote di lui andrebbe in Castiglione, l’ubbidissero in ogni fortuna. Indi la regina e la principessa, spiccatesi con molto dolore da Federigo, seguite dal vescovo di Valenza e dai due baroni uscenti in esilio sì minacciosi, da Milazzo con quattro galee partivano alla volta di Roma. Come furo in alto, chi favellava, chi adagiavasi, sperando, qual più qual meno, ne’ novelli destini; la sola Costanza, dice Speciale, immota sulla poppa della nave, affisava i monti di Sicilia che fuggiano, gonfia gli occhi di pianto, pensando a Giacomo, a Federigo, e a’ disastri imminenti. Compironsi a Roma le nozze; strinsersi, non ostante il pregar di Costanza, i consigli della guerra; Giacomo ripartì per Catalogna ad allestir la flotta. Loria al medesimo effetto ritornava, amico e ammiraglio di re Carlo, a que’ porti del reame di Napoli ove per quindici anni s’era tremato al suo nome. E prima Giacomo il creò ammiraglio a vita in tutti i suoi reami con grande autorità, gran lucro, e campo illimitato alle rapine; si stabilì il matrimonio di Beatrice sua figliuola con Giacomo d’Exerica, principe del sangue reale d’Aragona. Il papa gli diè in feudo la terra e il castel d’Aci in Sicilia, che tenean dal vescovo di Catania; lo ribenedì insieme con Giovanni di Procida198. Costui fu redintegrato ancora nel possesso dei suoi beni nel reame di Napoli, secondo i primi patti di Giacomo e Carlo199. Così lasciavan insieme la Sicilia, ambo da nimici, i due regnicoli sì famosi nella rivoluzione del vespro, legati strettamente dalla comune fortuna e dalla comune ambizione, compagni nell’esilio, nelle speranze, nella fazione della nuova dinastia in Sicilia, e finalmente nella tradigione. L’uno, allevato infin da fanciullo a corte di Pietro, fu uomo di animo smisurato, di altissimo intendimento nelle cose di guerra, il primo ammiraglio de’ tempi, gran capitano d’eserciti; ma sanguinario ed efferato, avaro, superbo, insaziabile di guiderdoni. Ristorò la riputazione delle armi navali in Sicilia; educò i Siciliani alle vittorie; fu sostegno potentissimo al nuovo stato. Gli si volse contro quando ebbe rivali nel potere; non veggo se più invidioso o invidiato; ed è un’altra macchia al suo nome, che abbandonò Federigo quando parea precipitare la sua fortuna. Portò con seco la signoria de’ mari; e pur non serbò lungi da noi l’antica gloria, perchè, se talor vinse in battaglia i vecchi compagni siciliani, talor anco fu vinto da essi; e appena chiusa con la pace di Caltabellotta la sanguinosa scena di che era stato parte principalissima, or con l’una or con l’altra delle fazioni guerreggianti, come se quel genio sterminatore non avesse più che fare al mondo, trapassò di malattia in Valenza; e le sue ossa andarono a riposare, com’egli avea ordinato molto prima, in un sepolcro posto a piè di quello del re Pietro200. Minore di lui di gran lunga fu Giovanni di Procida, e pur la capricciosa fortuna in oggi fa suonare assai più questo nome. Di ministro abilissimo del re d’Aragona, le corrotte tradizioni istoriche l’han fatto liberator di popoli, l’han posto a canto a’ Timoleoni ed a’ Bruti, han dato a lui solo quel che fu effetto delle passioni e della necessità di tutto il sicilian popolo; alle virtù ch’egli ebbe, sagacità, ardire, prontezza, esperienza ne’ maneggi di stato, hanno aggiunto le cittadine virtù ch’ei non ebbe, che violò anzi, tramando pria co’ nemici, poi brigando sfacciatamente contro la siciliana rivoluzione, quando la ristorò Federigo. Oscuro morì in Roma costui in sull’entrar dell’anno milledugentonovantanove201, innanzi che per prezzo d’infamia e per clemenza degl’inimici tutto riavesse il suo stato in terra di Napoli202.

Tra questi e quanti altri o sudditi o principi furon grandi ne’ fatti nostri di quel tempo, sospinti da ambizione a vizi non senza glorie, spicca per una candidissima fama la regina Costanza, avvenente della persona203, bellissima d’animo, per le care virtù di donna, e madre, e credente nel vangelo. La fine di Manfredi avvelenò il fior degli anni suoi; poi, se vide punito lo sterminator del sangue svevo e libera la Sicilia, ebbe a tremare ad ogni istante pe’ suoi più cari; pianger la morte di due figliuoli, la nimistà degli altri due; nè troppo la poteano far lieta le nozze della figlia nell’abborrita casa d’Angiò. Nacque e fu educata in Palermo204: tornata in Sicilia per sì strane vicende, la governò dolcemente dopo la partenza di Pietro; dettò alcuna legge che infino a noi non è pervenuta; fu amorevole coi sudditi, fino con la insopportabile Macalda. Non ebbe ambizione, lasciando prima a Pietro, poi a’ figliuoli, la corona di Sicilia, ch’era sua per dritto di sangue: nè tal moderazione nacque da pochezza d’animo in costei, che ben seppe in pericolosissimi tempi provvedere alla difesa della Sicilia; e due fiate con assai destrezza salvar Federigo dalla fazione nimica a’ siciliani interessi. Quetata la coscienza con la benedizione papale; posate poco appresso le tempeste di Sicilia, l’anno medesimo milletrecentodue finì i suoi giorni in Barcellona, ove attendeva a fabbricar munisteri e ad altre opere che nella vecchiezza le suggeriva cristiana pietà. Ma in tutto il corso di questa virtuosa e infelice vita, forse non soffrì maggiore strazio, che nel tempo di cui sospendemmo per poco il racconto; vedendo allora, senza alcun chiaro di speranza, l’un contro l’altro armati Giacomo e Federigo205.

145

Nic. Speciale, lib 3, cap. 1.

Anon. chron, sic., cap. 54.

Montaner, cap. 185.

Dall’Anonimo pare che Giovanni di Procida fosse stato confermato nell’uficio di gran cancelliere. Ma in due diplomi del 3 aprile e 15 maggio 1296, pubblicati dal Testa., Vita di Federigo II, docum. 8 e 15, è segnato Corrado Lancia gran cancelliere. Il nome di lui si trova similmente in un altro diploma di concessione feudale a Federigo Talach, dato il 12 dicembre 1296, ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q, q. G. 1, fog. 187. Ed è più naturale che Federigo avesse dato quell’uficio a un suo fidatissimo partigiano, che al Procida, il quale gli si era scoperto contrario.

146

Docum. XLIV.

147

Capitoli del regno di Sicilia, costituzioni di Federigo II, lib. 1, dal cap. 1 al 6. Per la parola ferracano, veggasi il cap. III del presente lavoro.

148

Per le difense e l’asportazion delle armi, cap. 9. Per le inquisizioni giudiziali, cap. 10. Eccezione per la falsità de’ pesi e misure, cap. 11. Esazioni sui carcerati, cap. 12. Malleverie nei giudizi criminali, cap. 13. Divieto delle esazioni negli stessi giudizi, cap. 14. Simili pei notai o piuttosto officiali dell’erario, cap. 15. Perdita dell’uficio ai magistrati che prolungasser le cause oltre due mesi, cap. 18. Divieto a diroccar le case, o guastare i poderi per misfatti dei proprietari, cap. 25.

149

Cap. 7 ed 8.

150

Cap. 17. Il cap. 16 è anche statuto di polizia, permettendo ai conti, baroni e militi di portar la spada e il pugnale. Il 19 disobbliga i cittadini d’accompagnare i carcerati.

151

L’antico fiume Gela o Imera.

152

Cap. 20.

153

Cap. 24, 22, 21. Il cap. 23 è regolamento per le greggi transitanti. Il 26 di pena d’infamia, privazione d’uficio, e ristorazione de’ danni al doppio, contro i magistrati e officiali trasgressori di questi capitoli.

154

Cap. 31, 32.

155

Gap. 27, 28, 29, 30, 33. Il cap. 34 rimette ai famigliar! e cortigiani del re il dritto del suggello delle concessioni, che per avventura ricevessero dalla corte.

Il di Gregorio, Considerazioni sulla Istoria di Sicilia, lib. 4, cap. 4, suppone che l’alienazione de’ feudi fosse veleno dato al baronaggio in una coppa inzuccherata. Questa sarebbe in vero una lode di altissimo intendimento a’ nostri legislatori di quel tempo; ma è da considerare, che per lo meno non fu felice il trovato. Le condizioni del commercio e delle altre industrie appo noi in quel tempo, non eran tali che dal detto statuto potesse nascere una divisione di proprietà, e indebolimento della casta de’ baroni. Infatti i peggiori abusi di feudalità che ricordin le nostre istorie, seguirono dopo tal legge, nel secolo xiv.

156

Diploma del 3 aprile 1296, pubblicato dal Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 8.

Non ho fatto parola della descrizione generale dei feudi, che sembrerebbe compiuta da Federigo in questo tempo, se fosse vera la data del diploma che pubblicò il di Gregorio, Bibl. aragonese, tom. II, pag. 464 e seg. La data è del 1296, ma si dee senza dubbio portare oltre il 1303, leggendovisi il nome della regina Eleonora, la quale sposò Federigo II di Sicilia appunto in quell’anno.

157

Nlc. Speciale, lib. 3, cap. 2.

158

Diploma dato di Messina il 15 maggio 1296, pubblicato dal de Vio, Privilegi di Palermo, fog. 35, e dal Testa, Vita di Federigo II, docum. 15.

159

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 3 e 4.

Anon. chron. sic., cap. 55.

160

Nic. Speciale, lib. 5, cap. 5.

161

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 6.

Tali accordi, fatti da capitani di castella quando credeano che il lor signore non poteali aiutare, non furon molto rari in questa guerra. La forma di essi e le condizioni, che a un di presso doveano esser le medesime, si veggono nel diploma di Carlo II, dato il 7 marzo duodecima Ind. (1299), docum. XXVI.

162

Fu costui il capitan generale di Carlo II, come si scorge da molti diplomi del r. archivio di Napoli, nel 1291–1293.

Veggasi ancora Elenco delle pergamene del r archivio di Napoli, tom. II, pag. 82, 91, 99, 131. Poi gli fu surrogato Guglielmo Estendard, per diploma del 30 aprile 1295, ibid., pag. 156. Nel 1299 fu rifatto capitan generale ad guerram in Calabria, Val di Crati e Terra Giordana, diploma del 29 giugno duodecima Ind., nel r. archivio sud. reg. seg. 1299, A, fog. 117.

163

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 7.

164

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 8, 9.

165

Nic. Spedale, lib. 3, cap. 9, 10, 11.

166

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 15 e 16.

167

Anon. chron. sic., cap. 55.

168

Raynald, Ann. ecc., 1297, §§. 19 a 24, porta questa bolla dell’anno precedente.

Gio. Villani, lib. 8, cap. 18.

169

Raynald, 1296, §. 11, breve del 5 febbraio.

170

Bolla, In Lünig, Cod. Ital. dipl. Nap. e Sicilia, num. 65; e presso Raynald, 1296, §§. 13, 14, 15.

Le pratiche di Federigo coi Colonnesi, sono rinfacciate da Bonifazio nel manifesto contro questa famiglia, in Raynald, 1297, §§. 27 e 28.

171

Raynald, 1296, §§. 13 e 15.

172

Diploma del 28 agosto 1296, nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 171.

173

Ibid., pag. 172, 177, diplomi di sett., 1296, e febb., 1297.

174

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 20, 21.

175

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 12, 13, 14.

176

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 17.

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 21, 23.

177

L’ultimo concetto dell’orazione di Loria, riferita da Niccolò Speciale sembrerebbe triviale e superfluo pei noti principî del dritto comune e feudale. Ma ove si ricordi il dritto pubblico degli Aragonesi e dei Catalani, si vedrà ch’esso era per lo meno assai dubbio intorno il presente caso, cioè di combattere in paese straniero contro i comandi del proprio monarca, e forse contro le sue stesse armi che militassero da ausiliari.

178

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 17 e 18.

Questi dice espresso che il re, tornando repente di Calabria per quell’ambasceria, chiamò subito il parlamento a Piazza, e vinse il partito; poi tornato a Messina, rimandò l’ambasciadore con la risposta. Nei nostri capitoli del regno si leggono le costituzioni decretate in parlamento a Piazza il 20 ottobre, promulgate dal re a Messina il 25 novembre 1296, come ben il mostra il comentatore monsignor Testa. Dopo tuttociò non so comprendere come il Testa, nella Vita di Federigo l’Aragonese, porti deliberate in quel parlamento le sole costituzioni, e tenutone un secondo a Messina per quella principalissima faccenda dell’ambasceria, ch’è contro la chiara testimonianza dello Speciale, e contro la probabilità; non potendo supporsi che nel parlamento convocato così in fretta si deliberassero tranquillamente nuove regole di amministrazione pubblica, e si rimettesse ad altro tempo la vital quistione della pace e della guerra. Se il secondo parlamento fosse stato convocato, perchè nel primo non si era potuto conchiuder nulla sull’oggetto principale, nel primo si sarebbero tutto al più prese deliberazioni di poco momento, non quelle riforme a favor dell’elemento municipale che mostrano l’azione d’un partito preponderante. Due cose io credo abbian tratto in errore il Testa. La prima, aver seguito nello Speciale (cap. 18) la lezione, Fridericus Messanam egreditur, anzichè la più naturale di regreditur, ritenuta dal di Gregorio. La seconda sorgente di errore fu l’error del Surita, il quale avendo per le mani la cronaca di Speciale, che non porta date, e non i nostri capitoli del regno, ma alcuni diplomi riguardanti un’ambasceria di Giacomo a Federigo in febbraio 1297, pensò porre questa innanzi il parlamento di Piazza; e narrò che Federigo, avuti i messaggi, rispose che ne riferirebbe al parlamento, e que’ non vollero attendere. Il Testa in parte seguendo Surita, e in parte correggendolo come que’ che avea sotto gli occhi la vera data del parlamento di Piazza, compose quel secondo di Messina. A me par chiaro, che nel parlamento tenuto in Piazza il 20 ottobre 1296 si deliberarono insieme, come afferma Speciale, la risposta all’inviato aragonese, e, come il provano i capitoli del regno, le novelle costituzioni anzidette. Tengo ancor vera la legazione di febbraio 1297, perchè Surita certo la trasse da diplomi. E questo fatto, collocato così a luogo opportuno, riesce verosimile: perchè Giacomo insistè dopo la prima ripulsa; Federigo se ne rimise al solito al parlamento, e gli oratori aragonesi, avendone istruzione del re, o comprendendo che riferirsi al parlamento era un prender tempo a una seconda ripulsa, andaron via senz’aspettarla, come afferma il Surita. Indi si vede più chiaramente l’errore del Testa, che, togliendo al tutto da Surita questa legazione di febbraio 1297, fa tener poi il parlamento in Messina, quando al creder di Surita, lib. 5, cap. 26, fu convocato dopo la partenza de’ legati, e in Piazza.

179

Cap. 45, 57, 37, 40, 42, 43, 44, 50, 51, 52, 54.

180

Cap. 36, 38, 39, 46, 47, 48, 58.

181

Cap. 45.

182

Cap. 55, 41, 56.

183

Cap. 53.

184

Cap. 59 infino al 75.

185

Cap. 76.

186

Cap. 77 infino ad 84.

187

Cap. 82, 83, 85.

188

Questo statuto pel carcere è nel cap. 84.

189

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 18.

Questa fazione d’Ischia si dee porre tra il 15 settembre e il 20 ottobre 1296, perchè di questa data abbiam due diplomi di Carlo II, l’uno in Brindisi, l’altro in Roma; e Speciale afferma che il re si trovava in Napoli quando tornaron le quattro teride fuggenti.

190

Raynald, Ann. ecc., 1297, breve del 30 dicembre 1296.

191

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 25. Veg. la nota a pag. 96 nel presente capitolo.

192

Surita, ibid., cap. 28.

La bolla è data il 4 aprile 1297, in Raynald, Ann. ecc., 1297, §§. 2 a 16.

Veg. anche Gio. Villani, lib. 8, cap. 18.

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 12.

193

Raynald, ibid., §. 17.

194

Diploma dell’8 giugno 1297, pubblicato dal Testa, Vita di Federigo, docum. 7.

195

Raynald, Ann. ecc., 1297, §. 18.

196

Ibid., §. 25.

197

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 18 e 19.

È gran danno che questo scrittore diligentissimo abbia a sdegno di riportar le date de’ più notabili avvenimenti. In questo di Ruggiero Loria, ancorchè certo si sappia che fin dall’anno precedente ei fosse risoluto a spiccarsi da Federigo, pur importerebbe molto ritrarre appunto il giorno che l’ammiraglio fu sostenuto a corte e poi si fuggi. Perocchè Giacomo a 2 aprile 1297, il creava grande ammiraglio a vita (diploma in Quintana, citato di sopra a pag. 69) e papa Bonifazio il 6 del mese stesso concedeva in feudo a Loria, tornato ad Apostolicae sedis gratiam et mandata, il castello e la terra di Aci, del dominio della chiesa o del Vescovo di Catania, e da lui al presente tenuti (Breve inserito in un diploma di Carlo II, dal registro del r. archivio di Napoli, seg. 1299, C, fog. 14, e pubblicato dal Testa, Vita di Federigo, docum. 10). Or egli è chiaro, che se queste concessioni furon fatte prima della fuga di Ruggiero, costui non tentennava già tra i nemici e Federigo, ma dissimulava la tradigione; e se ne dee conchiudere che Federigo, se errò, errò solo nel risparmiarlo. In ogni modo il nome di Loria e quel di Procida, che prima d’esso s’era gittato alla Via di tradigione, van condannati nel severo giudizio dell’istoria. Il risentimento contro l’invidia de’ cortigiani, potea portarli ad allontanarsi dalle faccende pubbliche e dalla corte, a menar vita privata nelle lor castella, appunto come Loria minaccio a Federigo dopo la presa ti Cotrone; non già a passare a parte nemica, accettar da essa, dignità, beni, carezze. Entrambi abbandonarono Federigo e la Sicilia, perchè non credeano ohe potessero reggere contro le forze di mezz’Europa collegata; e Loria, che avrebbe pur chiuso gli occhi al pericolo se Federigo si fosse lasciato governare da lui, cedè a quell’interesse, quando vide contrariata la sua disorbitante ambizione.

198

Nic. Speciale, lib. 3, cap. 20, 21, 22.

Anon. chron. sic., cap. 56.

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 26 e seg.

Gio. Villani, lib. 8, cap. 18.

Veggasi anche il Montaner, cap. 185, il quale seccamente narra l’andata della regina Costanza a Roma con Giovanni di Procida, ove il re d’Aragona era venuto per trattar pace tra Carlo e Federigo. E per le concessioni a Loria veggansi anche i due diplomi del 2 e 6 aprile 1297, citati nella nota precedente.

199

Molti documenti fornisce il r. archivio di Napoli intorno i beni di Giovanni di Procida, e la restituzione che ne fece il governo angioino dopo la sua, come piaccia meglio chiamarla, conversione o tradigione. Ecco quelli in cui io mi sono avvenuto rifrustando i registri angioini.

Diploma del…Carlo II concedette ad Anselletto de Nigella, valletto della sua corte: In primis, de bonis que fuerant Joannis de Procida, palatium quod dicitur Ferni cum terris adiacentibus eidem palatio circum circa, arbusto de nova plantato, olivato, vinea, avellaneto et castaneis etc. e le rendite di alcuni villani di cui si trascrivono i nomi, ch’eran tenuti a dare al signore una gallina per le feste di san Martino, Natale e Quaresima (carniprivio) e trenta uova per Pasqua. Reg. seg. 1294–95, A, fog. 81, a. t.

Diploma del 28 marzo duodecima Ind. (1299), perchè sulle pubbliche entrate di Salerno si pagassero once 12 annuali a Colino di Ducato, in compenso de bonis quondam Joannis de Procida militis, che il detto Colino avea risegnato alla curia, e questa ai procuratori di Giovanni di Procida. Reg. seg. 1299, A, fog. 30.

Diploma del 16 aprile duodecima Ind., perchè lo stratigoto di Salerno facesse rendere al procuratore de’ beni di Giovanni, ereditati da Tommaso di Procida, alcuni beni burgensatici presi da supposti creditori; e se costoro avesser dritto, il facesser valere innanzi il giudice competente. Ibid., fog. 15, a t.

Diploma della stessa data allo stesso effetto, ibid., fog. 210, pubblicato a docum. XXVIII.

Diploma dato di Napoli a 6 maggio duodecima Ind., per lo quale son resi a Tommaso di Procida alquanti beni, già conceduti ad altre persone, e a queste è assegnato un compenso. In questo diploma è notevole il principio: Sub presentanone promissionis facte per nos magnifico principi domino Jacobo regi Aragvnum filio nostro carissimo de restaurandis Thomaso de Procida militi fideli nostro burgensaticis bonis omnibus que quondam Johannes de Procida pater ejusdem Thomasii discessus sui tempore de regno nostro Sicilie in regno ipso tenuerat, etc. Ibid., fog, 56, e replicato a fog. 119.

Altro diploma della stessa data, per altri beni dello stesso Procida, simile al tutto. Ibid., fog. 56 a t.

Diploma del 18 agosto duodecima Ind., perchè senza strepito di giudizio si rendesse ragione a una vedova, che chiedea il pagamento di un debito che avea contratto con lei quondam Joannes de Procida miles dum erat in gratia clarissime memorie domini patris nostri, Ibid., fog. 213.

Diploma della stessa data del 18 agosto. Compenso di alcuni beni, ch’erano stati di Giovanni di Procida, e i presenti possessori li aveano ceduto al fisco per renderli a Tommaso. Ibid., fog. 137 a t.

Diploma del 29 settembre 1300, cavato dallo stesso r. archivio di Napoli e pubblicato dal Buscemi, Vita di Giovanni di Procida, docum. 8.

200

Quintana, Vidas, etc., tom. I, pag. 170, dice che questo sepolcro si vedea ancora nel monastero di Santa Croce dell’ordine di san Bernardo in Catalogna; e trascrive la modesta iscrizione che vi si leggea ancora, secondo la quale Loria morì il 17 gennaio 1865. Ibid., tom. II, pag. 125, è pubblicata la disposizione testamentaria dell’ammiraglio per la sua sepoltura.

201

Il sac. Buscemi, nella Vita di Giovanni di Procida, porta che finisse i suoi giorni di settembre 1299, argomentandolo dal diploma del 30 settembre 1300, docum. 8, in fin del suo lavoro, nel quale riconcedeasi a Tommaso, suo secondo figlio, il castel di Procida, di cui il primogenito, Francesco, non avea curato di prender l’investitura nel solito termine di un anno e un giorno dalla morte del padre. Gli altri diplomi da me trovati nell’archivio di Napoli e citati nella nota precedente mandano indietro la morte del Procida almeno infino a marzo 1299.

202

Ricordinsi i documenti che ho notato nel cap. precedente a mostrare il tradimento di Giovanni di Procida alla Sicilia.

203

Vadi a mia bella figlia, genitrice

Dell’onor di Cicilia, e d’Aragona.


Dante, Purgat., c. 3.

204

Veg. le autorità allegate dallo Inveges, Palermo Nobile, parte 3. Anni 1260–61–62.

205

In gran parte ho tolto queste riflessioni su la regina Costanza, da Speciale, lib. 3, cap. 20, 21.

Nelle costìt. di Federigo II (capitoli del regno di Sicilia), si confermano tra gli altri privilegi quei della regina Costanza: nec non Aragonum et Siciliae regina sanctissima mater nostra, etc.

Per la morte della regina Costanza veggasi il Montaner, cap. 185.

La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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