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LIBRO PRIMO
CAPITOLO III

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Mentre San Gregorio gittava le prime fondamenta della potenza temporale dei papi, un giovane pien di virtù meditava in Arabia su i principii d'una novella religione. La gente ond'ei nacque era in via d'uscire dalla barbarie. Aveva avuto, per vero, l'Arabia, in tempi remotissimi, un periodo di potenza e anco d'incivilimento. Questi s'erano sviluppati, a dispetto della natura, tra un clima ardente e un suolo penuriosissimo d'acque, sì che v'era impossibile ogni agricoltura, fuorchè in qualche lista di terreno; impossibile il soggiorno di grosse e raccolte popolazioni; negato alla più parte degli abitatori tutt'altra vita che la nomade. Donde non è maraviglia se la potenza politica si dileguasse dall'Arabia forse in tempo assai breve, come poi avvenne a quella fondata da Maometto. Dello incivilimento rimase qualche avanzo, nelle sue sedi principali: a settentrione cioè e tra ponente e mezzogiorno, ov'è più fecondo il terreno e l'Oceano tempera l'aere e agevola il commercio. Scomparvero fin anco quegli antichi popoli; dei quali altri emigrò come i Fenicii, altri decadde e menomò, altri, sterminato per violenta catastrofe, lasciò vaghe rimembranze di umana superbia, di abominazioni, di provocata vendetta del cielo.

Così durante il corso delle due civiltà greca e romana, e infino al settimo secolo dell'era volgare, l'Arabia fu poco tenuta in conto tra le nazioni. In questo periodo veggiamo nella penisola due schiatte principali. La più antica, detta di Kahtân dal vero o supposto progenitore, forse il Iectan della Bibbia, occupava le parti meridionali, ossia l'Arabia Felice degli antichi e principalmente l'angolo tra ponente e mezzodì, il Iemen, come il chiamano gli Arabi. Era schiatta mista, parlante due lingue, l'una delle quali analoga all'arabo, e l'altra no; divisa tra la vita nomade e la vita stabile: e le popolazioni stabili, dove date all'agricoltura, dove raccolte in cittadi e intese al commercio, alla navigazione, ad industrie cittadinesche; la parte più opulenta della nazione per molti secoli soggetta dove a piccioli principi, dove ad unica monarchia, in ultimo a due successive dominazioni straniere. Varie tribù erranti di cotesta schiatta, dopo soggiorno più o men durevole nell'Arabia di mezzo, come se lor indole le sforzasse ad accostarsi alla civiltà, se ne andarono verso il settentrione. Quivi fondarono due Stati: l'uno in Mesopotamia che si addimandò il reame di Hira, prima tributario, poi provincia della Persia; l'altro presso la Siria. E questo ebbe per sede Palmira; si illustrò coi nomi di Odenato e Zenobia; e, distrutta Palmira, le tribù, senza soggiornare altrimenti in grosse città, furono note sotto la appellazione di Ghassanidi: comandate alsì da un principe; soggette sempre all'impero romano, il quale occupò anche qualche città della Arabia settentrionale, Petrea, come la dissero i dominatori. L'altra gente prese il nome da Adnân, tenuto discendente di Ismaele. Più compatta della prole di Kahtân, parlava unica lingua; tenea l'ingrato e vastissimo terreno delle regioni centrali. Pastori nomadi o mercatanti di carovana, gli Ismaeliti non ubbidirono a principi; vissero nella rozza franchigia della tribù, anche que' ch'ebbero stanza ferma là dove il luogo ne concedea. Gli stranieri non s'invogliarono giammai di soggiogarli; nè essi l'avrebbero sofferto, se non che alcuna tribù riconobbe, di nome e per poco, i monarchi del Iemen, o i Persiani.

Considerati così gli abitatori dell'Arabia secondo il legnaggio, i due tronchi parranno dissimilissimi l'uno dall'altro; si comprenderà perchè si oltraggiassero a vicenda; perchè la nimistà della schiatta durasse fin sotto la potente unità dell'islamismo, fino alle remote spiagge dell'Atlantico, ove le portò insieme la vittoria. Ma se si riguardi ai costumi piuttosto che al sangue, si troveranno da una banda i soli cittadini e agricoltori del Iemen, dall'altra il rimanente di Kahtân e tutta Adnân; il grosso della nazione arabica, non ostante l'antagonismo di schiatta, comparirà ridotto ad unica stampa dalla vita nomade. La qual condizione sociale, immutabile come i deserti ove errano le tribù, è notissima per tanti ricordi univoci, da Giobbe infino ai viaggiatori d'oggidì: libri sacri, poesie, istorie, romanzi, osservazioni di dotti europei. E vuolsi da noi studiare, perchè, conoscendo gli ordini delle tribù, si spiegheranno agevolmente le vicende della nazione arabica in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

La tribù nomade, o, come dicon essi, beduina, che suonerebbe appo noi campagnuola, è saldo corpo politico senz'altri legami che del sangue, senz'altra sanzione penale che la vergogna e il timore dell'altrui vendetta e rapacità. Quivi l'unità elementare delle società non è l'individuo, ma sì la famiglia; nè risiede vera autorità che nel capo della famiglia. Ei comanda assoluto ai figliuoli e a lor prole; agli schiavi fatti in guerra o comperati; ai liberti che rimangono in clientela; agli affidati, uomini stranieri e liberi venuti a porsi sotto la sua protezione: ei li nutrisce, li difende dall'altrui violenza, e, quando ne recassero ad altrui, ripara il torto o affronta la vendetta. Nel numero e zelo de' suoi sta la forza del capo; la ricchezza nei servigii loro, negli utensili e negli armenti: nè è mestieri autorità di legge a mantenere insieme tal corpo.

Fuori dalla famiglia cominciano le associazioni: volontarie al tutto; ma seguon anco la parentela. Così varie famiglie fanno un circolo, come lo chiamano gli Arabi dall'uso di piantare in cerchio lor tende; al quale è preposto uno sceikh, o diremmo noi anziano, più tosto che eletto, designato senza forme di squittinio dalla riputazione della persona e importanza della famiglia; talchè l'ufizio spesso diviene ereditario per molte generazioni. È capo fittizio della parentela: magistrato senza impero sopra i privati; senz'arbitrio nelle cose comuni del circolo, nelle quali dee seguire il voto dei padri di famiglia. Infine lo sceikh rappresenta, come oggi direbbesi, il proprio circolo nella tribù. La quale unisce insieme varie parentele di un medesimo legnaggio; ordinata alla sua volta come il circolo, guidata da un capo, che vien su tra accordo e necessità come quello del circolo, e regge le faccende comuni della tribù: mutare il campo, far guerre o leghe; sempre con l'assentimento degli sceikhi, fors'anco di altri potenti capi di famiglia. Suole altresì capitanare gli armati della tribù nelle scorrerie e zuffe; ma talvolta, e più spesso oggi che nei tempi andati, il condottiero è scelto a posta.

Tale è loro gerarchia, politica insieme e militare, chè mal si distingue appo i Beduini. Ordini civili, che meritino il nome, non ve n'ha. La forza mantiene la roba quando non vi basti il credito della famiglia; e se la forza non può, il furto divien legittimo acquisto. Un po' più efficace la guarentigia delle persone; perchè il circolo e la tribù vi si sentono tenuti in onore, e più volentieri pigliano le armi a vendicare il sangue, o contribuiscono con le facoltà a pagare il prezzo di quello ch'abbia sparso alcun de' loro. Il quale compenso, assurdo e iniquo in una civiltà, umano nella barbarie, è in uso da antichissimi tempi in Arabia, come nel medio evo in Europa, ove il portarono i nomadi del Settentrione; ma gli Arabi, men pazienti di freno che non sieno mai stati i popoli germanici, non soleano accettare il prezzo del sangue se non che esausti dopo lunga vicenda di omicidii. Le multe per omicidio, troppo gravi ad una sola famiglia, troppo fastidiose a tutta la tribù, si soglion fornire dal circolo; il quale indi si direbbe società di assicurazione scambievole nei misfatti: e può cacciar via gli uomini rotti; ond'essi rimangono senza mallevadore nè protettore, veri sbanditi.

Sembra ancora che tra la famiglia e la tribù talvolta si trovino parecchi gradi d'associazione intermediaria, per cagion della disuguaglianza grandissima che v'ha nel numero degli uomini delle tribù: chè se ne conta di poche centinaia, ovvero di migliaia, quasi popolazione d'una provincia. Il corpo politico indipendente che noi diciamo tribù, o, per prendere una similitudine molto ovvia, il ramo staccato dall'albero, si appella in arabico con nomi diversi,138 secondo che si discosti più o meno dal tronco l'inforcatura ov'è tagliato il ramo: poichè ogni frazione di tribù consanguinea si accompagna alle altre o se ne spicca a suo piacimento nei liberi campi del deserto.

Non è mestieri aggiugnere qual divario corra tra le famiglie in punto di ricchezza; consistendo questa in proprietà mobili, e di più mal difese contro gli uomini e peggio contro i fenomeni della natura. La disuguaglianza del numero di uomini, avere, valore e riputazione delle famiglie in una nazione che sta sempre in su la guerra e osserva con tanta religione i legami del sangue, porta necessariamente la nobiltà ereditaria. V'ha inoltre la riputazione di nobiltà di una tribù, o circolo sopra gli altri, poichè tra loro quella che noi diremmo cittadinanza si confonde con la parentela. La forma di governo della tribù torna all'aristocrazia, ma larga; temperandola il nome comune, la familiarità patriarcale, il bisogno continuo che i grandi hanno della gente minuta, la agevolezza di sottrarsi a un governo troppo duro, la semplicità e rozzezza dell'ordinamento sociale. Perciò di rado si vede degenerare in oligarchia e quasi mai in principato.

Gli ordini della tribù nomade informano le popolazioni stanziali, nate quasi tutte da quella, poste in mezzo ai Beduini, costrette a comporre con essi per danaro o sopportare le scorrerie, e avvezze a chiamare in lor divisioni quegli agguerriti vicini. Le abitazioni fisse dell'Arabia centrale sono stanze di commercio o ville di agricoltori; concorronvi uomini di altre schiatte arabiche, concorronvi stranieri, e il reggimento talvolta si riduce nelle mani di pochi e anco vi prevale un solo: effetto necessario della proprietà più certa, delle plebi vili e mescolate, della fatalità della umana natura che si stempera quando sta in riposo. Nondimeno sendo le armi in mano delle tribù libere, la servitù non può allignare troppo tra i cittadini.

Per le medesime cagioni le fattezze e costumi, ancorchè diversi, pur in molti punti si rassomigliano. I figli del deserto hanno alta statura, corpi robusti, asciutti, puri lineamenti della schiatta caucasica in volto, barba non troppo folta, bellissimi denti, sguardo sicuro, penetrante; avviluppati la persona in ampie vestimenta, coperti la testa e il collo con bizzarra foggia di cuffia,139 chè da loro par ne venga tal voce; vanno alteri al portamento, maneggian destri le armi, padroneggiano i cavalli, animale amico loro più che servo; traggono vanto dalla rapina; impetuosi nell'ira, tenaci nell'odio, ospitalissimi, leali alle promesse; ardenti nell'amore che merita il nome; son contenti per lo più d'una sola moglie, la comprano, la ripudiano, ma li ritiene di maltrattarla troppo il rispetto della parentela di lei; nè tengon chiuse le donne, nè appo loro la gelosia vieta le oneste brigate con donzelle, nè i teneri canti e i balli. Tra la libertà della parola, l'uso alla guerra e la compagnia del sesso più delicato, si comprende perchè i Beduini sentano sì altamente in poesia. La gente delle città, meno schietta di sangue, anco per cagion dei figliuoli che han da schiave negre, men forte, usa turbanti e fogge di vestire più spedite e di pregio, e con ciò non pare svelta nè elegante al par de' Beduini; unisce le passioni violente con la frode; le tenere non conosce, ma la libidine; usa poligamia, divorzii, concubine; sprezza e tiranneggia le femine, quando il può senza pericolo; sempre le allontana da' ritrovi; cerca in vece gli stravizzi: in ogni cosa mostra il predominio dei piaceri materiali sopra quei dell'animo. Tali i cittadini i cui costumi più discordino dai nomadi. Ma v'ha gradazioni tra gli uni e gli altri. Le popolazioni mercatantesche, stando sempre in cammino, partecipano del valore e sobrietà dei Beduini. Similmente le famiglie nobili delle città amano a imitare i guerrieri della nazione; e alcune usano mandare a balia i figliuoli appo le tribù del deserto, nelle quali sono educati fino all'adolescenza. Son poi virtù comuni a tutta la schiatta arabica la liberalità, l'ospitalità, il coraggio, l'audacia delle intraprese, la perseveranza; vizii comuni la superstizione, la rapacità, la vendetta, la crudeltà; tutti han pronto ingegno, arguto parlare, inclinazione alla eloquenza ed alla versificazione.

Riducendoci adesso al secolo che corse avanti la nascita di Maometto, si ponga mente a ciò, che la popolazione stanziale era meno frequente nell'Arabia di mezzo e men corrotta forse che in oggi; che la popolazione nomade vivea a un di presso nelle medesime condizioni presenti; e ch'entrambe riscoteansi insieme per quell'influsso che par sorga di epoca in epoca a rinnovare le nazioni. Lo suol rivelare al mondo il canto dei sommi poeti. Lo ravvisa la storia, nell'alacrità e brio universale d'una generazione innamorata d'ogni forma del bello; aspirante alle vie del sublime vere o false che fossero; arrivata a squarciare qua e là la ruvida scorza della barbarie che pur le resta addosso. La storia poi facendosi a spiegar così fatto commovimento non può trovar cagioni che appieno le soddisfacciano, e se ne sbriga con parole: ora il moderno gergo di avvenimenti provvidenziali e uomini provvidenziali, or la metafora della vita umana applicata bene o male allo sviluppo dei popoli.

Varii fatti par ch'abbian portato tal periodo in Arabia. Prima operò lentamente la industria dei mercatanti, i quali soleano trasportare le derrate dell'Affrica meridionale alle ricche contrade bagnate dallo Eufrate e dal Tigri, o quelle dell'India alla Siria; in guisa che lor carovane tagliassero in croce la penisola arabica da ponente a levante e dal mare di mezzogiorno a' confini del deserto a settentrione. Andavano, com'eravi men penuria d'acqua, lungo le due catene di montagne, l'una parallela al Mare Rosso, l'altra perpendicolare che si spicca dalla prima nell'Hegiaz, provincia ove sursero la Mecca e Medina. Verso il sesto secolo, sia per la decadenza dell'impero romano, e però della navigazione nel Mare Rosso ch'era stata aumentata dai Romani, sia per le vicende delle guerre che difficultassero i traffichi in su l'Eufrate, il commercio dell'India trovò più agevole che la via dei due golfi il lungo e faticoso tragitto dell'Arabia. Si accrebbero indi i guadagni dei mercatanti dello Hegiaz, le comunicazioni con popoli più inciviliti, la popolazione e attività del paese. Da un'altra mano gli Stati arabi d'Hira e di Ghassan, intimamente uniti l'uno alla Persia, l'altro a Costantinopoli, apprendeano molte parti di civiltà; e se ne spargea qualche barlume nelle tribù dell'Arabia centrale, comunicanti con Hira e Ghassan, e anco a dirittura coi due imperii, mescolandosi talvolta nelle continue guerre di quelli. A mezzo il sesto secolo accelerossi tal movimento per le relazioni di Giustiniano con l'Abissinia, i conquisti di Cosroe Nuscirewan, e la venuta degli Abissinii nel Iemen: poi il maraviglioso progredimento materiale dello impero persiano, l'occupazione del Iemen, resero popolare in tutta l'Arabia il nome dei Sassanidi e l'ammirazione di loro possanza e civiltà. Ma da tempo più lontano varie colonie ebree avean cominciato a venire in Arabia or fuggendo la dominazione straniera, destino implacabile di lor sangue, or attirate da quel fino lor sentimento dell'utilità commerciale. Gli Ebrei recavan seco loro il genio dell'industria, i ricordi d'un antico incivilimento e le teorie d'una religione spirituale; e, contro lor costume, davan opera a far proseliti per mettere radice nel paese. Notabili anco furono i progredimenti del cristianesimo. Non portava colonie, se non che qualche mano di ostinati spinti dalle chiese ortodosse a cercare asilo in estranei paesi. Ma scuoteano gli animi fortemente quel focoso zelo dei missionarii, quei principii sì efficaci a dissodare ogni terreno inculto, e la virtù della parola di che son lodati parecchi Arabi cristiani; sopra ogni altro il vescovo Kos, vivuto alla fine del sesto secolo e passato in proverbio come il più eloquente oratore della nazione. Il cristianesimo si sparse molto più nella schiatta di Kahtân e nelle due estremità della penisola, che nel centro e presso la schiatta di Adnân.

Per tal modo nascea tra la rude aristocrazia degli Arabi una età eroica che non impropriamente si è detta di cavalleria. Cominciano ad apparire atti di magnanimità nella guerra; alcune tribù si danno giorno e luogo al combattere; cavalieri escon dalle file a singolar tenzone: nella rotta, nelle più crude nimistà, offron asilo inviolato ai vinti le tende degli stessi vincitori; spesso in vece di mettere a morte il nemico abbattuto, i forti gli tosano i capelli della fronte e lo mandan via; le compensazioni degli omicidii, dopo provato il valore, più volentieri s'accettano; è consentita una tregua di Dio in certi tempi dell'anno. E allora le tribù nemiche seggono insieme al ritrovo di Okâz e altri di minor fama, fiere annuali insieme e accademie di poesia; quivi alcuna volta i guerrieri depongono le armi presso un capo, perchè lor indole impetuosa abbia meno incitamento alle risse; e quegli, vedendo non poter evitare la rissa, la prima cosa si affretta a rendere le armi ai nemici della propria tribù. Altrove quattro valorosi fanno tra loro un giuramento di difendere gli oppressi dall'altrui violenza, senza guardare a persona; e chiamasi dai nomi loro la lega dei Fodhûl: egregio esempio imitato poscia alla Mecca. Così la forza cominciò a parteggiare pel dritto. E, maggiore progredimento, si rinunziò tal volta all'uso della forza: famiglie rivaleggianti nel principato delle tribù, anzichè correre alle armi, venivano sostenendo lor nobiltà con dicerie e versi; rimetteano il giudizio ad arbitri stranieri, come nelle corti d'amore del medio evo.

Indi si vede che insieme coi costumi più generosi apparivano gli albori della cultura intellettuale. Fa ritorno nell'Arabia centrale la scrittura, che ormai vi si tenea com'arte ignota; ma pochissimi l'apprendono; difficilmente si pratica su foglie di palma, liste di cuoio, ed ossa scapolari de' montoni; si adopera a perpetuare qualche atto pubblico, non a conservare le produzioni dell'ingegno; le quali raccomandansi tuttavia alla memoria dei raccontatori, prodigiosamente rafforzata dall'esercizio, e che parve per lunghissimo tempo più comoda e sicura che le carte scritte. Avanti questa età gli studii degli Arabi, se studio può dirsi il brancolare di barbari ciechi dell'intelletto, non erano altro che le osservazioni degli astri applicate empiricamente alla meteorologia e i ricordi delle genealogie, e geste degli eroi. A poco a poco rischiarandosi ad una medesima luce tutte le regioni intellettuali, la saviezza pratica si affinò in filosofia morale; si cercò dietro le superstizioni qualche idea astratta, fallace forse ma grande; si meditò su le origini e arcane leggi del mondo; s'intese disputare di predestinazione, di libero arbitrio; sursero scettici che rideansi dei numi di lor tribù e della vita futura; si vide il poeta guerriero Imr-el-Kais gittare in faccia all'idolo di Tebala le frecce con che gli avean fatto tirare la sorte. Ed epicureggiavano più che niun altro i poeti: donde seguì un bizzarro contrasto con la letteratura contemporanea dei Greci e Latini, i quali, non sapendo ormai cavare una scintilla di genio da' loro tesori letterarii, dettavano ponderose omelie, o scipiti inni sacri; mentre gli Arabi ignari improvvisavano poesie spiranti la indifferenza filosofica di Lucrezio e il sentimento estetico di Omero e di Pindaro. Perchè prima degli altri esercizii dell'ingegno fiorì appo di loro, come necessariamente dovea, la poesia. Ai poeti classici dell'Arabia, nati in questo tempo, non s'agguagliò nessuno delle età precedenti nè delle seguenti; nè la eccellenza dei pochi imponea silenzio ai moltissimi mediocri. Per tutte le tende suonavano in versi i vanti, così chiamarono la poesia che noi diremmo eroica, vanti di nobil sangue, di valore, di liberalità; si celebravano la bellezza, gli amori, le guerre, le cacce, le corse dei cavalli; o la satira aguzzava il pungolo contro un uomo o una gente. E cento e cento lingue andavan ripetendo i versi del poeta ch'avea il grido: i grandi lo temeano sì da comperarne a caro prezzo il silenzio o la lode; la tribù facea pubbliche feste quando saliva in fama il suo cantore: alla accademia di Okâz il poema coronato, come noi lo diremmo, si trascrive a caratteri d'oro, e si sospende alle pareti del tempio.

Lo studio dell'eleganza nel dire, dalla poesia passò alla prosa; e lo promossero le tenzoni di nobiltà alle quali abbiamo accennato, e i sermoni degli Arabi cristiani; poichè il parlare in pubblico è la vera e unica scuola dell'eloquenza. Seguì ancora il perfezionamento della lingua e si sparse nell'universale un gusto per le bellezze della parola, non raffinato al certo come quello degli Ateniesi nel secolo di Demostene, ma forse non meno caldo e vivace. Così fatta disposizione estetica degli Arabi favorì assai l'apostolato di Maometto. Dagli esempii che ci avanzano, messo anche da parte il Corano, par che i pregii della eloquenza arabica in quel tempo fossero stati la purità della lingua, l'argutezza dei concetti, la vivacità delle imagini, il laconismo. E gli Arabi si vantarono sempre, tanto profonda era la loro ignoranza, di avanzare ogni altro popolo nell'arte della parola!

Tali principii ebbe il risorgimento della schiatta arabica nel secolo avanti Maometto. Al par che in tutte le età eroiche, la barbarie non avea per anco ceduto il campo. Stolide millanterie, brutali oltraggi provocano al sangue ad ogni piè sospinto; e il sangue chiama alla vendetta. Il gioco e il vino non fan rossore agli eroi. Appare stranissima intanto la contraddizione dei costumi nella condizione delle donne, le quali or disputano ai sommi la palma della poesia, reggono una casa col consiglio, e libere e adorate spirano sentimenti da romanzo; or son avvilite da patti di concubinaggio temporaneo, e talvolta venendo al mondo, si tengon peso della famiglia, pericolo dell'onore di quella, e i padri le seppelliscon vive. Allato a tanta abominazione, indovini e sibille; consultati dalle tribù nelle più gravi fortune; presi per arbitri dalle famiglie, anco quando ne va l'onore: l'universale crede al fascino, adopra sortilegii; chi spia il volo degli uccelli, chi legge l'avvenire intrecciando ramoscelli d'alberi, chi sorteggiando frecce senza punta. Donde a leggere i ricordi dell'Arabia in questo tempo si veggono confuse l'una con l'altra le fattezze dei periodi istorici analoghi che meglio conosciamo: dei tempi omerici, dei primi secoli di Roma e del medio evo. Alla cavalleria dell'Arabia non mancarono infine nè la moltiplicità dei protettori celesti, nè una città santa, nè il pellegrinaggio.

Le credenze religiose degli Arabi, ancorchè mal ferme, diverse d'origine, e niente connesse tra loro, davano appicco a un riformatore che imprendesse di ridurle ad unità. Primo avviamento a questo la idea d'un nume supremo; antichissima tradizione semitica, la quale appo gli Arabi mai non si dileguò, quantunque turbata dal politeismo. Credeano a una vasta popolazione d'esseri invisibili come i demonii degli antichi Greci, e chiamavanli Ginn che risponde alla nostra voce genii. Correa tra loro altresì una vaga speranza della immortalità dell'anima, non insegnata da metafisica nè da teologia, ma dalla superstizione, scuola senza dispute: e affermava che dal cerebro del trapassato escisse un gufo, il quale, sendo stata violenta la morte, non cessasse fino alla vendetta di mostrarsi ai parenti gridando: “ho sete, ho sete.” In altre pratiche superstiziose è agevole altresì di scoprire l'aspettativa della risurrezione.

Molti erano gli obietti del culto: idoli di pietra o di legno in sembianze umane, diversi nelle diverse genti; anco il sole, la luna, le costellazioni, simboleggiate da idoli o no; credute angioli, o com'essi diceano, le figliuole di Dio. Ma comechè amassero meglio praticare con cotesti iddii minori, visibili e palpabili, più pronti ad entrar nei particolari, ad ascoltare, a rispondere, ad aiutar l'uomo in ogni aspro caso della vita, pure la unità del culto e del Dio era serbata nella usanza antichissima che portava le tribù al pellegrinaggio della Caaba, la quadrata, come suona tal voce; la casa di Dio, come diceano gli Arabi anco avanti lo islamismo. Vaghe tradizioni ne riferivano la riedificazione ad Abramo e ad Ismaele; la prima fondazione a niuna mano mortale, poichè il rozzo tempio scese intero dal cielo. In prova se ne mostrava, e mostrasi tuttavia, un frammento: la pietra negra incastrata nell'angolo orientale del santuario; e nulla toglie che la tradizione riferisca il vero, e che la sacra pietra sia un pezzo di areolite o prodotto di eruzioni vulcaniche, sapendosi che ne siano avvenute in varii tempi alla Mecca. I mercatanti che fabbricavano questa città presso il tempio, coltivarono la proficua superstizione; istituirono sacerdoti, sagrifizii d'animali e riti di girare attorno la Caaba; e dettervi albergo a tutti gli idoli delle tribù, sì che divenne il panteon della nazione. E invano i cristiani abissinii, conquistatori del Iemen, faceano venire artefici di Costantinopoli, edificavano di marmi la splendida chiesa di Sana', mandavano la grida per invitar le tribù a quel nuovo pellegrinaggio; e fin moveano con un esercito per spiantare il rivale santuario della Mecca. Un miracolo lo salvò: fu esterminato lo esercito cristiano, forse dal vajolo e dalla rosolia che allor comparirono per la prima volta in Arabia. Il culto della Caaba divenne pertanto vero legame nazionale della schiatta arabica, e ne fe' come capitale la Mecca; i cui sacerdoti ordinarono un calendario con le stesse denominazioni di mesi che son rimaste in uso appo i Musulmani; regolarono la tregua annuale, primo passo all'unione della schiatta. E vicendevolmente si ripercossero in quel centro commerciale e religioso, le opinioni che germogliavano per tutta la penisola, recate da culti stranieri: il giudaismo, cioè, e il cristianesimo dei quali ho detto; e due di assai minor momento, cioè il magismo professato da qualche tribù del Golfo Persico, e il sabeismo, mistura d'una pretesa rivelazione e del culto de' corpi celesti, credenza antichissima che dura fin oggi, ma par non abbia giammai saputo accendere di zelo i settatori. Dond'egli avvenne che mentre l'universale degli uomini aspirava al perfezionamento morale e intellettuale appartenente ad età eroica, alcuni cittadini della Mecca lo cercarono a dirittura nella religione. Verso la fine del sesto secolo, un dì festivo in cui i Meccani tripudiavano intorno a loro idoli, quattro spiriti eletti si trassero in disparte; compiansero gli errori del volgo; diffidarono dei proprii ragionamenti, e si promessero di andare per estranei paesi in traccia della vera fede d'Abramo. Le non sospette tradizioni musulmane aggiungono che que' savii in lor viaggi profondamente studiassero la Bibbia, il Vangelo, il Talmud; conversassero coi dotti delle tradizioni giudaica e cristiana: e che al fine tre di loro si facessero cristiani; l'altro tornato in patria, perseguitato come novatore, spinto in esilio, perisse dopo parecchi anni, mentre ansioso correa di nuovo alla Mecca ad ascoltar la parola di Maometto.

Lo sviluppo di una nuova religione, apparecchiato da coteste condizioni di cose, fu favorito dalla forma del reggimento politico della Mecca. Questa città era stanza di parecchi rami della schiatta di Adnân; tra i quali a poco a poco prevalse la tribù dei Koreisciti, mercatanti, come si vuol che significhi il nome: e certo lo meritavano per essere, più che niuna altra gente, solerti e intraprendenti nei traffichi. Un Kossai, koreiscita, impadronitosi del sacerdozio della Caaba, chiamò alla Mecca altri rami di sua tribù; cacciò o assoggettò le vecchie genti, che di allora in poi veggiamo sempre confederate o clienti di case koreiscite; e sì ridusse la potestà politica in un consiglio degli anziani koreisciti detti Sâdât, ossiano i signori;140 aristocrazia, della quale ei si fe' capo, e come principe della città. Chiara mi sembra la distinzione del potere esecutivo e del legislativo nella rozza repubblica della Mecca; sottile forma di reggimento, che parrà stranissima in uno Stato ove non era potere giudiziario, nè magistrati civili o penali; ma le costumanze universali delle tribù spiegano cotesta anomalia. Alla morte di Kossai i discendenti di lui si contesero, e alfine si divisero l'autorità esecutiva; talchè rimaneano ereditarii in poche famiglie gli uficii pubblici: adunare il consiglio; dare i segni del comando ai capitani in caso di guerra; riscuotere una contribuzione per sussidio ai pellegrini poveri; soprantendere alla distribuzione delle acque; tener le chiavi del tempio; promulgare il calendario, cosa di grave momento, per cagion della tregua. Ma il reggimento non può dirsi oligarchia, poichè, se gli uficii eran pochi e sovente cumulati, il potere supremo risedea non in quelli ma nel consiglio. Durò tal ordine politico finchè l'islamismo non lo ridusse a municipalità. Negli ultimi anni intanto del sesto secolo, privati cittadini avean riparato al difetto delle leggi penali, nella stessa guisa che avvenne molti secoli appresso in Europa. Avendo un Koreiscita sfacciatamente preso la roba d'un mercatante straniero, parecchi generosi, e tra quelli si notava Maometto giovane di venticinque anni, s'adunarono a convito, si ingaggiarono a proteggere i deboli, cittadini o stranieri, liberi o schiavi, che ricevessero alcun torto alla Mecca da uomini di qual famiglia che si fosse. Chiamaronsi la lega dei Fodhûl, dal nome di quella più antica che ricordai di sopra: e giurarono il patto, invocando l'Iddio supremo, e libando in giro una coppa di acqua del sacro pozzo Zemzem. Questa era l'Arabia innanzi la predicazione di Maometto, ai tempi dell'ignoranza come opportunamente li nominarono i Musulmani.

Nacque Maometto (a. 570) della tribù koreiscita, della nobile progenie di Kossai per Hascem, soprannome che in lingua nostra suonerebbe Frangi-pane, e fu ricompensa data dai poveri al bisavolo del Profeta. Unico figliuolo di giovane coppia, Maometto venne al mondo dopo la morte del padre; perdè la madre a sei anni; poco appresso, l'avol paterno: rimase orfanello e povero in tutela dello zio Abu-Taleb, uomo di alto affare nella città. Secondo il costume, era stato allevato in una tribù beduina, ove si avvezzò alla dura vita del deserto; ma lo rimandarono a casa, credendolo indemoniato, per insulti di epilessia. Fe' parecchi viaggi in Siria e altrove con le carovane: e una ne condusse per conto di Khadigia, donna vedova e giovane. Avvenente e ben complesso della persona; piacevole al tratto; amato da tutti per probità, gravi costumi, saviezza e bel parlare, gli altri diergli il nome di Amîn, che noi diremmo il fidato; Khadigia invaghissene e lo sposò. Così nella tranquillità d'una mediocre fortuna e nella pace domestica, ch'ei non prese altre mogli mentr'ebbe Khadigia, visse infino ai quarant'anni, praticando le virtù che appartengono ad uom privato, amando il raccoglimento e la solitudine, senza far parlare altrimenti di sè. Non si rese chiaro nelle armi fino alla guerra civile ch'egli accese, nella quale poi non mostrossi gran capitano, e moltissimi l'avanzarono di fierezza e valor nella mischia. Da meno di tutti gli altri Koreisciti, ch'eran pure i più tristi poeti dell'Arabia, ei non fe' mai versi, non potea ripeterne senza guastarli. Vantossi di non saper leggere nè scrivere; il che non tolse ch'apprendesse le tradizioni nazionali e straniere, i principii filosofici e i libri sacri d'altri popoli, che, tra quel fermento di intelletti, gli tornavano da cento bocche diverse; tra gli altri da un parente della moglie, ch'era de' quattro ricercatori della vera religione d'Abramo.

Di quegli elementi disparati Maometto prese ciò che seppe e potè adattare ai bisogni degli Arabi. Ne compose un sistema religioso e politico, semplice, vasto, ottimo alla prova; poichè e rigenerò una nazione più prontamente che non l'abbia mai fatto altra legge, e contribuì non poco all'incivilimento d'una gran parte del genere umano, e si regge tuttavia, nè par disposto a morire. Il disegno di tal religione potrebbe adombrarsi in questo modo. Tolti da' Giudei e dai Cristiani e racconci un po' all'arabica i dommi cardinali: Dio uno, senza compagni, senza nè genitori nè figliuoli, vivente, eterno, immateriale, onnipossente; creazione; gradazione di esseri ragionevoli, angioli, demonii, genii, uomini; vita futura; giudizio universale; premio ai credenti e virtuosi di soggiornare in eterno in giardini lieti d'acque e di frutta, con modeste donzelle dagli occhi negri; supplizio agli empii il fuoco sempiterno; predestinata da Dio ogni cosa, fin chi crederebbe e chi no; ciò non ostante, come per divin trastullo, messi gli uomini tra la tentazione perpetua di Satan, e la voce dei profeti; profeti o apostoli tutti que' dell'antico testamento e Gesù Cristo; rivelati il Pentateuco e il Vangelo; ultimo e massimo apostolo Maometto; l'ultima edizione de' comandi del Creatore scritta ab eterno; recitata a brani dall'angiolo Gabriele all'apostolo illitterato, il quale venia ripetendo la rivelazione, e sì chiamolla Korân, ossia lettura. Primissimo dovere degli uomini verso Dio, la fede, anzi l'assoluto abbandono in lui; che ciò significa islâm, e indi son detti musulmani i credenti, ossia abbandonati in Dio: idea cristiana sotto nuovo nome. Il culto tra giudeo ed arabo: frequenti preghiere, pellegrinaggio alla Mecca, digiuni, con una lunga appendice di purificazioni da osservarsi e impurità da scansarsi; raccomandandosi alla coscienza di ciascuno le pratiche private, le pubbliche alla scambievole vigilanza de' cittadini. Perchè non si istituì alcun ordine sacerdotale; le preghiere in comune principiavansi dal capo politico o da ogni altro Musulmano; così anche le concioni o sermoni pubblici; e gli stessi teologi che nacquero ne' tempi posteriori non furono sacerdoti; i dervis e altre fraterie non altro che accattoni e moderni. Chiamati i fedeli a servir su la terra l'Onnipossente con la borsa e con la spada, pagando la decima e combattendo i miscredenti: l'uno statuto giudaico; l'altro effetto d'uno intendimento politico e della universale intolleranza dell'età. Precetti divini anco erano i doveri degli uomini tra di loro, dettati con forma e severità giudaica, ma ispirati dalla carità cristiana. Infatti viene innanzi ogni altro e secondo solo alla fede, espresso e positivo obbligo la limosina. La fratellanza tra i Musulmani, il rispetto delle persone e delle proprietà: donde un abbozzo di codice civile e penale, che ridusse a legge certa, universale, applicabile dall'autorità pubblica, molte male osservate costumanze degli Arabi; e sopra ogni altra la pena degli omicidii. Con ciò il Profeta correggeva, ora per espresso divieto ora per consiglio, i vizii più flagranti della società arabica: maledetto il parricidio delle bambine; proscritti l'usura, il vino, il gioco; la poligamia limitata; dati diritti di non lieve momento alle donne; la schiavitù non abolita ma mitigata e menomata, consigliandosi, e in molti casi comandandosi, la emancipazione. Da ogni parte si vede, quando si risguardi all'ordinamento sociale, come i costumi legassero le mani al legislatore, troppo superiore, non che alla sua nazione, ma al suo secolo. Per lo contrario, quell'altissimo ingegno non bastò ad improvvisare un dritto pubblico. Degli ordini politici ei non lesse altro in cielo che la uguaglianza dei cittadini tra loro e l'obbligo di ubbidire ciecamente a lui solo: principii stranieri entrambi, fecondi dapprima; e poi l'uno svanì, l'altro portò alla assurdità d'un governo assoluto senza legislatore. Questa è la somma della nuova legge. La prova dell'autorità non potendo venir che di lassù, Maometto con molta arte ne compose una sembianza. A dimostrazione del suo dio allegò e ripetè senza stancarsi quanti sapesse dei miracoli giudei e cristiani, i terrori delle tradizioni e fenomeni dell'Arabia, la bellezza del creato, la pioggia, la vegetazione, la vita, ogni beneficio che vien dalla natura, ogni mistero che l'uomo non può spiegare. In attestato della propria missione portò un sol prodigio: il divino stile, diceva egli, del Corano, che intelletto d'uomo non sarebbe arrivato giammai a comporre: e sì sfidava i miscredenti a imitarne una sola pagina. Infatti quei che noi diciamo versi del Corano ei chiamò aiât ossia miracoli. Gli altri prodigii che sogliono attribuire a Maometto i Musulmani, e, più di loro, i Cristiani, nè egli mai li vantò, nè entrano nella credenza di lor teologi: sono invenzioni di tempi più bassi e di altre nazioni; sopratutto dei Persiani che portavano nello islamismo lor fantasie indo-germaniche.

Le istituzioni musulmane, come ognun sa, furono dettate a poco a poco, abrogate ed emendate secondo le circostanze: e gli Arabi si beveano d'aver sì comodo legislatore, onnisciente e fallibile, capriccioso ed eterno. Deriva la legge da due fonti: il Corano e la tradizione, ossia le pratiche e parole di Maometto, notate dai discepoli, delle quali noi abbiamo ricordi autentici e diligenti più che non si possa aspettare in leggende religiose; emergendo non dalle tenebre di una setta e d'una antichità remota, ma dalla storia di pochi anni di persecuzione, che si voltò in trionfo vivendo i persecutori e i perseguitati e ridivenuti fratelli. Quell'ampia raccolta, ci attesta forse meglio che il Corano la sagacità, prudenza, umanità, bontà e saviezza pratica del legislatore: ed è stata guida dei Musulmani a private e pubbliche virtù. Il Corano, assai più studiato, racchiude confusamente dommi, leggi generali, provvedimenti secondo i casi, assiomi, parabole, e gli antichi racconti religiosi ai quali accennai disopra, guasti per lo più da fallace memoria o presi a sorgenti apocrife; e ciò tra ripetizioni, contraddizioni, declamazioni; in stile vario, spezzato, incisivo, per lo più sublime, talvolta monotono: un tutto incantevole agli uditori suoi, per la proprietà e maneggio della lingua; e può ammirarsi anco da noi ancorchè non di rado vi si desiderino l'accento, il gesto, le attualità che doveano rendere sì efficaci quelle parole. Ma il prestigio che le rendeva più efficaci era al certo l'universale movimento degli animi in Arabia; era l'ebbrezza che spirano le idee dell'eterno e dell'infinito assaggiate per la prima volta; era quel lampo di giustizia che splendeva agli occhi degli uomini; il naturale amor della uguaglianza improvvisamente soddisfatto; l'usura abolita; l'assistenza reciproca sì efficacemente comandata; la gratitudine dei deboli confortati; l'impeto della democrazia sorgente sotto il nome del principato teocratico; il vasto campo che s'apriva anco alle ambizioni dei grandi. Seguendo il cammino di quella fiamma che si apprese a poco a poco e poi scoppiò in incendio, si vede come le dessero alimento a volta a volta il sentimento religioso, il sociale e il nazionale, poi tutti e tre uniti insieme.

Il Profeta incominciò a provarsi in casa. Supposta dapprima (gennaio 611) una visione dell'angiolo Gabriele, dissene alla moglie che gliene credette; poi ad Alî cugin suo, fanciullo di undici anni; a Zeid liberto e figliuolo adottivo; e, in quarto, a quegli che fu dopo lui il principale sostegno dell'islamismo, Abu-Bekr, personaggio di grandissima saviezza. Allargandosi e prendendo forma, la nuova religione fu derisa; e Maometto non se ne mosse: Cercò d'attirarsi i plebei, poichè i grandi lo spregiavano. Desta la tarda gelosia del politeismo, insospettita la nobiltà contro il novatore, fecero opera a screditarlo; poi a vicenda lo minacciarono e vollero attirarselo con promesse; gli fecero mille oltraggi; poser le mani addosso ai seguaci più deboli; costrinserli a spatriare. Maometto ciò nondimeno perseverava con mirabilissima costanza, coraggio e mansuetudine; affidando la pericolante vita all'onor della parentela, la quale non lo abbandonò ancor che fosse, la più parte, idolatra. Per virtù di quell'unico legame della società arabica, poteron anco rimanere alla Mecca pochi altri proseliti di nome. Dopo undici anni, crescendo sempre i convertiti tra le persecuzioni, Maometto si attirò cittadini di Iathrib che poi fu detta Medina; e mutò l'apostolato in congiura contro la patria. Allora gli ottimati della Mecca, posposto ogni rispetto, vollero spegnere il capo; e non potendolo fare con le leggi, chè non ve n'erano, ogni casa patrizia mandò il suo sicario per render comune il misfatto, e impossibile la vendetta della casa di Hascem. Ma i costumi posero nuovo ostacolo non preveduto: la schiera dei sicarii non osò violare l'asilo domestico del proscritto; si appostò fuori la notte: ed egli accorgendosene fuggì.

La qual notte ebbero principio un pontificato, un impero ed un'era. Questa si messe in uso diciassette anni appresso; quando, tra gli ordini che si istituivano appo i Musulmani ad esempio delle nazioni incivilite, parve fissare data comune agli atti pubblici, smettendo le epoche diverse osservate in alcune parti dell'Arabia. L'occasione è variamente riferita dai cronisti. Secondo alcuni la diè Abu-Musa-el-Ascia'ri governator di Bassora, lagnandosi con Omar califo, che gli avesse scritto lettere senza data. Mohammed-ibn-Sirîn, citato da Ibn-el-Athîr, narra in vece che un Arabo appresentatosi ad Omar gli dicesse: “Convien porre le date.” “E che è cotesto?” domandò Omar; e quegli: “È una usanza dei Barbari, i quali scrivono: tal mese e tal anno”. “Mi piace,” replicò il califo: “ponghiamo dunque le date.” Onde, convocata la dieta dei Musulmani, si disputò se fosse da prendere l'era di Alessandria, o l'usanza dei Persiani che notavano gli anni di ciascun re; ovvero far capo dalla missione di Maometto; o infine dalla hegira di lui, la emigrazione cioè, la Separazione solenne, l'atto d'un uomo libero che ripudia la società in cui sia vissuto. Fu vinto il partito della hegira, e sanzionato da Omar; il quale contemplò quello evento come divisione di due epoche: l'una d'errore, l'altra di verità. Nondimeno si contò non dal giorno della fuga, ma dal principio dell'anno in cui avvenne lasciandosi il calendario come stava, cioè l'ordine antico dei mesi, e lunare il periodo dell'anno, come per ignoranza lo volle Maometto.141

Fuggissi il Profeta a Medina (622); adunò i discepoli; maneggiò gli antichi e i nuovi da savio capo di parte; li infiammò, promettendo bottino e paradiso; combattè con varia fortuna; vincitore usò verso i nemici il più sovente con magnanimità; rade volte inflessibile, rade volte assentì o comandò assassinii; fu sempre giustissimo coi suoi partigiani; nè acquistò mai per sè stesso, ma per loro. Alfine traendo mezz'Arabia sotto le insegne sue, gittò via la maschera o forse il sincero proponimento della tolleranza che già gli era parsa sì bella, quando i politeisti il perseguitavano, e i Giudei si collegavano con essolui. E allora la repubblica aristocratica della Mecca piegossi a patteggiare col cittadino ribelle (a. 628); poco appresso a salutarlo principe, a confessarlo profeta, a sgomberar la Caaba dei trecensessanta idoli, per renderla al culto del Dio uno (a. 630). Le tribù beduine, le città del Iemen, tutti gli Arabi fuorchè i cristiani di Hira e di Ghassan ch'erano soggetti agli stranieri, credettero, accettarono per interesse, o per forza si sottomessero; abbattuti per ogni luogo i simulacri delle antiche divinità; sforzati a tacersi, o a celebrare il Vincitore, i poeti che l'aveano nimicato sì gagliardamente; accettati i luogotenenti suoi nelle province: la nazione divenne una, e riconobbe un sol capo.

Questi intanto aspirava a cose maggiori. La religione rivelata dal creatore del mondo non potea limitarsi a un sol popolo, e il popolo arabo non potea restare in pace tra sè quando non portasse la guerra in casa altrui. Pertanto il Profeta non avea mai fatto eccezione di genti nè di luoghi alla legge di combattere gli infedeli tanto che si convertissero o pagassero tributo. Quando gli parve certa la sottomissione dell'Arabia, e prima anco di entrare alla Mecca, osò mandare messaggi ai potenti della terra, richiedendoli di far professione dell'islamismo. Dei quali il re di Persia, che si tenea signor feudale dell'Arabia, lacerò le insolenti lettere; il che intendendo Maometto, sclamava: “E così Dio laceri il suo reame:” e a capo di dieci anni i Musulmani il fecero. Il re d'Abissinia non parve ostile. Nè anco il maggior principe di cristianità, Eraclio, che sedea sul trono di Costantinopoli; il quale onorò l'ambasciatore, e lietamente udì la rivoluzione che s'operava in Arabia e tornava a danno immediato dei Persiani. Pur egli si trovò esposto il primo agli assalti de' Musulmani, poichè i suoi vassalli di Hira uccideano un altro legato di Maometto, e questi immantinente mandava a farne vendetta. Ancorchè oppressi dal numero alla battaglia di Muta (a. 629), gli Arabi addimostrarono in quello scontro la virtù che dovea soggiogar tanta parte del mondo. Ucciso il capitano, dà di piglio alla bandiera Gia'far fratello di Alî; gli è tronco un braccio, ed ei la passa all'altra mano; mozzatagli anco questa, stringesi l'insegna al petto coi moncherini, finchè spirò trafitto di cinquanta ferite: nessuna a tergo. E fu rinnalzato il vessillo da un altro guerriero; e ricondusse a Medina i gloriosi avanzi della strage.

Venuto a morte Maometto (giugno 632), mentre apprestava nuovo esercito a vendicare la sconfitta di Muta, lasciò lo Stato in sommo pericolo. Accesa la guerra esterna; falsi profeti sorgeano per ogni luogo; le tribù nomadi ricusavano le decime, e scioglieansi dal novello freno; la nobiltà cittadina vogliosa di ridividere l'Arabia in cento e cento republichette; i discepoli dell'islamismo non scevri d'ambizione, sospetti, e gare di parte: e, tra tutto ciò, non sapeasi chi dovesse prender lo Stato; perchè o una frode domestica occultò il pensiero del Profeta, o egli differì troppo a manifestarlo, ovvero, e ciò mi pare più probabile, volle seppellir seco la profezia, e lasciare il principato alla elezione, come portavano i costumi degli Arabi. Ma lasciò anco il Profeta una generazione d'uomini che potea trionfare di questi e di maggiori ostacoli. Maometto avea maturato in veraci virtù i capricci cavallereschi della nazione. Mentre allettava la comune degli uomini coi vili beni di questo mondo e gli imaginarii godimenti dell'altro, avea spirato agli animi più puri lo zelo della verità morale; ai più malinconici la fede; agli uni e agli altri una stoica abnegazione; a tutti l'amor della patria; chè patria ed islamismo furono per gli Arabi di quel tempo una sola idea. Io non dirò altrimenti della magnanimità di tanti compagni del Profeta, perch'è nota a tutti, e i nomi di Abu-Bekr, Omar, Alî, Khâled, Sa'd-ibn-abi-Wakkas agguaglian forse que' degli Aristidi, de' Cincinnati e degli Scipioni. De' sentimenti che prevaleano in tutta la nazione voglio addurre uno esempio solo; e son le parole d'un Beduino, diligentemente conservate dalla tradizione, e trascritte da Tabari, che fu il primo che dettasse gli annali dell'islamismo. Tre anni appresso la morte del Profeta, trentamila Arabi afforzandosi con sapienti mosse tra i canali dell'Eufrate inferiore, fronteggiavano centomila Persiani condotti dal più sperimentato capitano della Persia. Avanti di venire alla decisiva battaglia di Cadesia, aveano gli Arabi mandato oratori a Iezdegerd ultimo re sassanida: il quale, sentendo parlar da conquistatori que' ch'era avvezzo a risguardar come vassalli, sdegnosamente li domandò qual delirio spingesse gli Arabi a provocare le armi della Persia; gli Arabi, dicea, poveri e divisi e ignoranti e barbari più che niun altro popolo della terra. Se disperata miseria li faceva uscir da' deserti, aggiunse il re, ei li soccorrerebbe di vitto e di vestimento, lor darebbe alcun governatore pien di bontà. A che tacendo gli altri per antica riverenza, un Beduino, Mogheira per nome, così parlò: “È proprio di gentiluomo, gli disse, rispettare la nobiltà del sangue in altrui: e sappi, o re, che tal riguardo solo, non rossore, non paura, fa sì dubbiosi al risponderti cotesti compagni miei, che son nati delle case più illustri dell'Arabia. Ma esporrò io ciò ch'essi tacciono. Dicevi il vero, o re, poveri fummo, se poveri mai v'ebbe al mondo: giacevamo su la ignuda terra; vestivamo pel di cameli e lane, filati da noi stessi; la fame ci portò sovente a mangiar le cavallette e i rettili del deserto; perchè le figliuole non scemassero il cibo ai maschi, i padri vive le seppelliano. Idolatri e ignoranti, ci scannavamo l'un l'altro: e questa era la religione nostra. Quando, mosso a pietà, Iddio ci mandò un profeta, uom noto, di famiglia notissima, di tribù ch'è la prima tra gli Arabi. Ei ci guidò alla vera religione, e noi credemmo finchè Iddio non gli diè ragione con illuminare le nostre menti. Ed ora che seguiamo i comandamenti di Dio, siam popol nuovo; siam diversi da quegli Arabi di pria: lo sappia il mondo! Chiamate gli uomini al mio culto, ci ha detto Iddio: chi assente, avrà i vostri dritti e doveri; sopra cui ricusa ponete un tributo; se il dà, proteggetelo; se no, combattete contr'esso: e a' vostri morti in battaglia è serbato il paradiso, ai sopravviventi la vittoria. Scegli dunque, o re: paga il tributo con umiltà, o t'apparecchia a combattere.”

Pria che la nazione potesse levarsi a tant'orgoglio, ebbe a sostenere la breve ma durissima prova, alla quale accennai, e che fu vinta dai valorosi compagni del Profeta; indi riveriti a ragione come santi dell'islamismo. Prevengon essi la guerra civile con senno non minor che l'ardire; esaltano al sommo uficio Abu-Bekr: e questi con potente mano ridusse alla unità politica e religiosa le tribù e cittadi che tentavano di spiccarsene; e sì unite, tra per amore e per forza, pria che potessero pensare ad altre novità, lanciolle sopra i due imperi bizantino e sassanida, e le inebriò di vittorie (632-634). Abu-Bekr designò a successore Omar, che mantenne l'unità; diè principio agli ordini pubblici; estese i conquisti (634-644), e nominò alla sua morte sei elettori, i quali scelsero Othman. Sotto costui il corso delle armi musulmane non si frenò perchè non si potea: la pace interna fu distrutta; ed egli espiò col sangue la parte ch'ebbe a tale scompiglio. Succedeagli Alî per elezione fieramente contrastata, onde divampò quella guerra civile che esaltava al trono Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân, capitano dell'esercito di Siria, e rendeva ereditario il principato in casa Omeiade. Ripigliavasi allora la guerra straniera, sospesa alquanto per cagion della guerra civile: i limiti dell'impero estesi entro dieci anni dopo la morte di Maometto infino alla Persia, alla Siria e all'Egitto, arrivarono, entro un secolo, allo stretto di Gibilterra dalla parte di ponente; dalla parte di settentrione e di levante alla Tartaria e alla valle dell'Indo. Ma pria di discorrere per qual modo quelle terribili armi incominciassero a infestare la Sicilia, è mestieri particolareggiare le mutazioni politiche e sociali che lo islamismo portò nella nazione arabica.142

Il Profeta, fatto principe, non volle o non potè rendere gli uomini uguali in società, com'eranlo per natura, diceva egli, al par dei denti d'un pettine, senza distinzione di re nè di vassalli.143 Lasciò le donne inferiori nei dritti civili; gli schiavi affidati alla carità religiosa più tosto che a leggi espresse: e quanto agli infedeli non è uopo dire che li volle sudditi dei credenti. Ma tra i Musulmani liberi pose uguaglianza assoluta: la nobiltà, che avea governato gli Arabi da tempi immemorabili e contrastato il Profeta finchè potè, non ebbe dritti, non ebbe nome nella legge. I congiunti di Maometto, a pro dei quali parrebbe fatta un'eccezione, furon chiamati soltanto a partecipare insieme con lui, con gli orfanelli, co' poveri e coi viandanti, alla quinta parte del bottino; risguardati perciò piuttosto indigenti privilegiati che ottimati della nazione. Morto poi Maometto, e tenuto lo Stato per dodici anni da Abu-Bekr e Omar, intrinsechi e vecchi compagni che appieno conosceano i suoi intendimenti e con somma religione li applicarono e svilupparono, la nobiltà li ebbe inflessibili avversarii. Abu-Bekr, quanto il potè in un brevissimo regno e agitato, volle scompartire ogni acquisto della repubblica musulmana a parti uguali tra' credenti. Omar tenne altro modo. I conquisti della Persia, della Siria e dell'Egitto gli dierono abilità a far uno ordinamento più regolare e vasto d'assai; nel quale ebbe a scorta gli uficii d'azienda sassanidi e romani, e per sorte da dividere le immense entrate delle città datesi a patti, che intere cadeano nell'erario pubblico, non toccando ai combattenti altro che quattro quinti della preda fatta con la spada alla mano. Fe' descrivere dunque Omar, l'anno quindici dell'egira (636), nei registri o divani, come li chiamarono con voce persiana, da una parte le entrate pubbliche, dall'altra tutti i Musulmani. L'ordine della lista fu che la schiatta di Adnân, donde nacque il Profeta, fosse posta innanzi la schiatta di Kahtân; e nella prima i Koreisciti innanzi le altre tribù; e la casa di Hascem innanzi tutt'altra dei Koreisciti; senza eccezione, a favor del principe, il quale fattisi mostrare i ruoli che aveano steso, e trovandovisi il primo, “Non questo, disse, non questo io vi comandava: mettete Omar là dove Iddio l'ha messo.” Così la sua e le altre famiglie koreiscite preser grado secondo la consanguineità che legavale a quella del Profeta; il rimanente delle tribù e parentele di Adnân, secondo l'anteriorità nel professare l'islamismo; e lo stesso nelle tribù di Kahtân. Tutti parteciparono delle entrate pubbliche, patrimonio comune dei Musulmani, secondo i precetti di Maometto, che poi rimasero lettera morta ne' libri di dritto, ma rigorosamente osservaronsi in quei primi tempi in una società democratica e piena di fervore religioso. Inoltre è da considerare che sotto i califfi Abbassidi, e fors'anco prima sotto gli Omeiadi, noverandosi la popolazione musulmana a milioni, e sendo sparsa su la metà del mondo conosciuto, i divani divennero necessariamente ruoli di milizie e di impiegati, retribuiti più o meno a piacer del padrone. Ma sotto Omar, potendo tuttavia contarsi i Musulmani a migliaia, tutti Arabi e soldati dell'islâm o famiglie de' soldati, il precetto con men difficoltà mandossi ad esecuzione. Ognuno ebbe dunque in sorte una provvisione sul tesoro pubblico, ma disuguale, variando la somma in ragion composta del merito religioso, e dei bisogni e valore di ciascuno. Alle vedove del Profeta, madri dei Credenti, come le chiamavano, diè Omar dodicimila o diecimila dirhem144 all'anno; settemila ne toccò Abbâs zio di Maometto; cinquemila ciascun fuggitivo della Mecca che avesse combattuto alla giornata di Bedr, la prima vinta da' Musulmani; quattromila il rimanente dei soldati di Bedr; e scendeasi gradatamente secondo l'anzianità nel servigio militare, con la sola eccezione che si ragionava sempre la quota del cavaliere più che quella del fante, e davasi un caposoldo ai più valorosi. Quanto agli uomini di Kahtân che sì virtuosamente combatteano allora in Siria, ebbero, come meno anziani in islamismo, duemila, mille, cinquecento, e fino a trecento dirhem. Alle donne furono assegnate pensioni proporzionali a quelle dei capi di lor famiglie, da cinquecento dirhem che n'ebbero quelle de' guerrieri di Bedr, infino a dugento. Alle altre donne e a tutti i fanciulli, e infine anco ai lattanti, cento dirhem. Gli schiavi non furono esclusi. Omar non volle per sè che il parco mantenimento suo e della famiglia: domandollo ai cittadini con dir che un tempo avea fatto il mercatante, ma avea dovuto smettere per amor dei negozii pubblici; e ottenuta la provvisione, fieramente si adirò una volta che gli amici tramarono di accrescergliela. Ma verso gli altri fu prodigo sì che non lasciò mai un obolo nel tesoro; e consigliato di serbar qualche somma per lo avvenire: “No” rispose; “sarebbe una tentazione pei miei successori.” Il valsente delle pensioni si diè ai poveri in derrate, ritraendosi che nelle alte regioni dell'Arabia centrale fu dispensata da principio una porzione di vittovaglie a ciascuno; poi due misure di farina ogni mese, quanto Omar avea ragionato il bisogno d'un uomo, facendo nudrire sessanta poveri per certo spazio di tempo. Crescendo alfine la liberalità del governo, e la delicatezza d'un popolo che pochi anni innanzi s'era cibato ed or è tornato a cibarsi di datteri e cavallette, si diè pane in luogo di farina; poi del pane condito con olio; poi vi si aggiunse un pezzo di cacio; poi si fornirono due pasti al dì: mattina e sera.145 Così fatti particolari non mi sono sembrati indegni della storia, nè sì minuti che non meritassero luogo in un abbozzo di quadro generale, perchè valgon meglio che i giudizii degli scrittori a mostrare il súbito e maraviglioso mutamento della società arabica in quel tempo, e la prima forma che prese. Fu democrazia sociale come oggi si direbbe, la quale forma ben rispondeva ai principii fondamentali dell'islamismo: uguaglianza, e fratellanza. E si vide, con esempio avventuratamente raro nel mondo, un popolo re nudrito per tutti i deserti dell'Arabia a spese dei vinti, come l'altro popolo re l'era stato entro le mura di Roma.

Pur nascea, come ognuno se ne accorge, insieme con la novella società una gerarchia di merito civile e religioso e una disuguale partecipazione nei comodi della repubblica; le quali condizioni cominciarono a costituire nuov'ordine di ottimati, naturalmente opposto all'antica nobiltà. Omar, tra per necessità e disegno, diè un altro crollo all'antica nobiltà, mutando alquanto le associazioni per la guarentigia del sangue, prima base della società arabica; poichè volle che si tenessero per mallevadori, akila come diceano gli Arabi, non più gli uomini di una medesima parentela esclusivamente, ma gli ascritti nel medesimo divano, i quali erano ormai diversi dai primi, quando parte di molte tribù era rimasa in patria, l'altra stanziava con l'esercito nei paesi vinti, e spesso componeasi d'uomini raggranellati di varie genti.

Nondimeno l'elemento primitivo della società arabica trionfò del silenzio di Maometto e dei divani di Omar. Impossibil era di spezzare a un tratto gli antichissimi legami delle parentele; impossibile di condurre gli Arabi alla guerra altrimenti che per tribù; impossibile di dar loro capi appartenenti ad altre famiglie, fuorchè il condottiero supremo dell'esercito. Le brigate dunque, i reggimenti, i battaglioni, le compagnie, a modo nostro di dire, rimasero ordinate per parentele con poche eccezioni; capitanaronle gli antichi nobili: e tra sì rapidi conquisti il bottino accrebbe l'avere delle famiglie; i convertiti stranieri ne accrebbero il numero, ponendosi sotto la protezione degli uomini di maggior séguito, e divenendo clienti, o come gli Arabi diceano, maula. Così la nobiltà crescendo di potenza per cagion della guerra, più prestamente che non diminuisse per l'ordinamento delle pensioni d'Omar, ruppe, poco appresso la costui morte, il freno della legge. L'antagonismo delle schiatte aiutò il movimento; poichè i figli di Kahtân rifatti guerrieri e prevalenti di numero nell'esercito di Siria, non vollero restar da meno nel grado sociale e nella distribuzione dei premii. Fu offerta loro la occasione da M'oâwia capo della casa Omeiade, il quale capitanava quell'esercito e per comunanza di sangue e d'interessi trovava partigiani tra l'antica nobiltà della schiatta di Adnân, mentre l'ambizione lo piegava a favorire la rivale stirpe di Kahtân. Di cotesti elementi nacque una fazione che contese il poter dello Stato alla famiglia ed a' compagni del Profeta, che è a dire al novello ordine di ottimati religiosi. Cominciò la lotta in corte appo Othman, che fu ucciso dai nuovi ottimati, perch'ei favoriva la parte di Mo'âwia. Esaltato da loro Alî, gli Omeiadi vennero alle armi; trionfarono degli avversarii che erano divisi tra loro per le pretensioni della casa d'Alî; e così fu reso ereditario il principato in casa Omeiade. Cotesta rivoluzione scompose l'ordinamento degli ottimati religiosi, e in breve tempo li ridusse a meri dottori in legge; dal quale grado inferiore dopo due secoli tentarono di risorgere i discepoli loro. Da un'altra mano mentre combattean le due aristocrazie, la democrazia surse impetuosa contro di entrambe, ma penò tre secoli a vincere e non potè usar la vittoria. Io terrò discorso a luogo più opportuno di cotesti partigiani della ragione contro l'autorità religiosa e politica. Similmente aspetterò che occorra negli avvenimenti la influenza politica dei giuristi, per descriverne i motivi e i limiti. Per ora basti all'argomento nostro di notare le tre divisioni ch'erano nate nella società musulmana, le quali tendeano all'aristocrazia religiosa, all'aristocrazia militare, e alla democrazia; mentre il principato correva in fretta verso la tirannide.

L'autorità dei primi successori di Maometto, sendo quella medesima del Profeta, senza la profezia, restò molto indeterminata. Solamente si sentiva alla grossa, che i Musulmani non apparteneano ad alcun uomo, ancorchè dovessero ubbidire a un capo per lo comun bene spirituale e temporale: cioè che componeano una repubblica sotto un supremo magistrato che tenesse insieme del pontefice e del capo di tribù. Questa par sia stata la mente di Abu-Bekr e di Omar, quando, lasciate da canto le appellazioni degli antichi re arabi e stranieri, si chiamarono con nuovi nomi, l'uno Khalîfa (ch'è a dir successore) dell'Apostol di Dio, e l'altro anco Emir-el-Mumenîn, ossia Comandator dei Credenti. Elettivo, come s'è detto, il califo, vivea frugale quanto i più poveri Musulmani, del proprio o di uno stipendiuccio; senza lista civile; senza fasto; senza guardie: arringava il popolo; sopportava paziente le rimostranze degli infimi come dei grandi; consultavasi d'ogni provvedimento con gli altri compagni del Profeta, depositarii dei detti di quello, e però di tutte le scintille dell'eterna sapienza, che non fosse piaciuto a Dio di manifestar nel Corano. Così praticossi per dodici anni dalla morte di Maometto a quella di Omar, tra que' primi fervori del movimento religioso e nazionale: e molti savii ordini si fecero fuorchè designare i limiti legali di un potere esercitato con tanta civil modestia. Ma quando tal dichiarazione fu consigliata dalle divisioni che cominciavano ad agitare la repubblica; quando gli elettori deputati da Omar moribondo proposero patti fondamentali ad Alî, e, vedendoli rigettare da lui, esaltarono al califfato Othman che li accettava, allora non era più tempo a porre freno all'autorità. Le fazioni, pigliate le armi, spinsero necessariamente i proprii capi al potere assoluto: la nascente libertà degli Arabi perì tra le guerre civili, al par che quella di Roma e tant'altre; oppressa dall'esercito della fazione vincitrice, come lo sarebbe stata da quel della fazione vinta, se a lui fosse toccata la vittoria. Reso dunque il califato ereditario in casa Omeiade, il doge divenne czar. Una sola guarentigia restò, cioè che il califo non potea mutare le leggi, venendo quelle dal cielo, e non essendone permessa altra interpretazione che la dottrinale. Ma ognuno intende quanto debole e precario ritegno fosse la voce da' dotti ad un principe riconosciuto da loro medesimi, come conservator della fede e arbitro delle forze dello Stato. D'altronde la immobilità teocratica della legge nocque molto più che non giovasse ai Musulmani, perchè attraversò le riforme fondamentali divenute necessarie per la mutazione dei tempi e per la vastità del territorio; e fece che tante ribellioni, tanto sangue sparso, non portassero altro frutto che di tor via le persone dei governanti, senza correggere il dispotismo che li rendea sì tristi.

Venendo in ultimo a considerare il momento militare dei conquistatori, si vedran le tribù ordinate alla guerra ed esercitate fin da tempo immemorabile: avvezzi da fanciulli a maneggiare armi e cavalli, usi a condurre cameli, caricar bagaglio, mutare il campo, affrontare pericoli, ubbidire ai capi nelle mosse e zuffe, andare a torme, schiere, drappelli, secondo le suddivisioni della tribù; e i capi a computare sottilmente le distanze de' luoghi, riconoscere o indovinare il terreno, disegnare colpi di mano, agguati, ritirate, in vastissimi tratti di paese. Indi pratica di strategia nei condottieri, disciplina nei soldati: che, tra tanta ignoranza e licenza, appena si crederebbe. Indi le prime battaglie degli Arabi contro Persiani e Bizantini, sì superiori ad essi di numero, furono vinte meno per non curanza della morte e furia a menar le mani, che per la rapidità e precisione delle mosse; per le schiere compatte, spedite a rannodarsi o combattere spicciolate; pei complicati disegni di guerra mandati ad effetto con agevolezza; per l'arte, presto appresa, di afforzarsi ne' luoghi opportuni ed a tempo ricusare o presentar la battaglia. Il califo bandia la guerra sacra; nominava il capitano d'una impresa e l'investia del comando, com'era antichissima costumanza appo di loro, annodando un pennoncello in cima alla lancia del candidato. Dato il ritrovo all'oste, accorreanvi le tribù dei contorni, intere o in parte, con lor condottieri e capi inferiori fino a que' di dieci uomini e anche di cinque: gente usa a vedersi in volto, a conoscere il valore l'un dell'altro, a sostenere in ogni evento la riputazione di sua famiglia, parentela e tribù: e spesso portavan seco loro le donne, non consigliatrici a viltà; per l'amor delle quali o per l'onore, più fiate gli Arabi sconfitti tornarono alla battaglia e vinsero; o quelle difesero con le proprie mani gli alloggiamenti assaliti dal nemico. Avean cavalli e fanti; i fanti in cammino montavan talvolta su i cameli, talvolta v'andavan anco i cavalieri menando a guinzaglio lor destrieri e in altri incontri togliean essi in groppa i fanti. Armati della sottile, lunga e salda lancia arabica, spada, mazza, e altri d'archi e frecce; ma ancorchè destri al saettare poco assegnamento faceanvi: son colpi di sorte, diceva un famoso guerrier loro, sbagliano e imberciano.146 Copriansi di giachi di maglia e scudi. In giusta battaglia aspettavano per lo più la carica del nemico; sosteneanla con rara fermezza secondo il precetto del Corano e il romano concetto di Khâled-ibn-Walîd che solea scorrer le file esortandoli: “Ricordatevi, Musulmani, che lo star saldi è fortezza, l'affrettarsi debolezza, e che con la costanza va la vittoria.”147 Sia che dessero il primo assalto, sia che ripigliassero quello del nemico, piombavano come turbine coi loro infaticabili cavalli levando il grido di Akbar Allah (è massimo Iddio); sparpagliavansi dopo la carica, e d'un súbito rannodati faceano nuovo impeto sul nemico disordinato nello inseguirli, e sì lo rompeano e laceravano; avviluppavano e sterminavano i fuggenti. I Bizantini e i Persiani, gravi per le armadure e per la formalità degli ordini militari ai quali era mancata da lungo tempo l'anima e l'intendimento, mal resistettero a tal nuova tattica: i primi inoltre uomini senza patria, raunaticci di tante genti, tratti per forza alle armi, condotti da capitani cui scegliea caso o favore; i secondi accolti anche di varie nazioni e classi sociali diffidenti l'una dell'altra, anzi nemiche.

Dagli eserciti passando ai popoli di que' due imperii, li vedremo avviliti dal dispotismo, rifiniti dalle tasse e dalla rapacità degli officiali pubblici; scissi da assottigliamenti religiosi; i Persiani anco dalle contese sociali de' tempi di Mazdak, dalla paura dei ricchi e cupidigia dei poveri: e qual meraviglia se tra l'universale scontentamento paresse manco male la falce dei conquistatori, i quali ragguagliavano gli imi ai sommi, disarmavano la religione dello Stato, permetteano il culto cristiano sol che si pagasse un picciol tributo, o aprivan le braccia per accogliere i vinti nella loro famiglia, nella loro Chiesa e nella loro repubblica? Così le vecchie società cedeano il luogo alla giovane società dei vincitori. Così ridivenuti nazione, spinti da delirio religioso e da interessi mondani, allettati dal bottino, dalle pensioni, dalla fertilità delle terre, dai mille lucri che offrian le nuove province, i popoli arabi emigravano successivamente verso di quelle. E se non potean portare in lor colonie nè libertà, nè quiete; se negli ordini loro si nascondea l'antagonismo della legge coi costumi, del dispotismo con la nobiltà e con la democrazia; questa schiatta forte, piena d'alacrità e di speranze, operosa, industre, paziente, audace, trovandosi in condizioni geografiche favorevolissime e tirando altre schiatte alla sua lingua e religione, dava principio a un periodo novello nella storia dell'umanità.

138

Sce'b si chiama il tronco, come sarebbe Adnân; la prima diramazione si dice Kabîla; la seconda, I'mâra; la terza, Bain; la quarta, Fekhid; la quinta, A'scîra; la sesta, Fasîla: imperfette denominazioni e spesso confuse. Più comunemente la tribù vien detta Kabîla. Ho seguíto in tal distinzione l'antica e pregevole opera di Ibn-Abd-Rabbih (Kitâb-el-Ikd, Ms., tom. II, fol. 43 recto), che cita l'autorità di Ibn-Kelbi.

139

La Kufîa, Kefía o Keffieh, che si pronunzia in questi varii modi, è un fazzoletto quadro legato intorno al capo con doppii giri di una funicella di pelo, e scende al collo e alle spalle. Ordinariamente listato a verde e giallo, o tutto bianco. Il professore Dozy, Dictionnaire des noms des vêtements ec., p. 394, sostiene che la origine di questa voce sia italiana. Credo al contrario che gli Arabi l'abbian portato in Italia.

140

Sâdât è plurale di plurale, come lo chiamano i grammatici arabi, della voce notissima Sâid, signore. Con questo titolo significativo chiamansi i senatori della Mecca di quel tempo nelle antiche tradizioni che raccolse Ibn-Zafer nel libro intitolato Nogiabâ-'l-Ebnâ ossia dei “fanciulli egregii.” Se ne parla a proposito di un aneddoto di Maometto fanciullo di dodici anni, entrato per caso nella sala del consiglio, mentre vi si trattava un alto affare. Vedi il MS. di Parigi, Suppl. arabe 486, fol. 48 verso, e Supp. arabe 487… La presente citazione si riferisca al solo titolo che non credo sia dato da altro autore. La istituzione e autorità del consiglio è nota.

141

Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. I, fol. 3 recto e verso.

Sul giorno della fuga, gli eruditi non son di accordo; ponendolo chi in giugno e chi in settembre 622. Vedi Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes, tom. I, p. 16, seg.

In ogni modo il primo anno dell'egira cominciò il giovedì 15 luglio 622, secondo gli astronomi arabi, e, secondo l'uso comune, il 16; contando gli astronomi il principio della giornata da mezzodì, e i magistrati e il popolo dal tramonto del sole. Vedi Sédillot, Manuel de Chronologie universelle, Paris 1830, tom. I, p. 340, seg.

142

Parendomi inutile e noiosissimo di far citazioni in un quadro generale, mi contenterò di ricordare ai lettori le opere principali da consultarsi su la storia degli Arabi avanti l'islamismo e nei primi tempi di quello. Sono: il Corano; le Tradizioni di Maometto, delle quali la raccolta più compiuta che si trovi data alle stampe è il Mishkat-ul-Masabih, versione inglese del capitano Matthews; Pococke, Specimen historiæ Arabum; Universal history, ancient part, tom. XVIII., modern part, tom. I; Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes.

L'ambasceria degli Arabi a Iezdegerd si legge in Tabari, Annales regum, edizione del Kosegarten, tom. II, p. 274 a 281, e se ne trova un compendio nel tom. III di M. Caussin, p. 474, seg., e una versione francese di M. de Slane, Journal Asiatique 1839, tom. VII, pag. 376, seg. Sarebbe superfluo lo avvertire ch'io non ho composto il discorso di Mogheira, ma soltanto abbreviatolo, lasciandovi per lo più le parole dell'originale.

143

Hariri, Mecamêt, ediz. di M. de Sacy, p. 34, edizione di MM. Reinaud e Derenbourg, p. 39. Questa tradizione è data nel Commentario. Veggasi anche lo aneddoto raccontato da M. Caussin, Essai, tom. III, p. 507.

144

Dirhem è corruzione della voce greca e latina drachma. Significa appo gli Arabi un peso e una moneta di argento. Il valore della moneta così chiamata è stato, come sempre occorre, vario ne' varii tempi e luoghi: spesso moneta di conto, ma non effettiva. I dirhem che abbiamo dei califfi, ancorchè in tempi posteriori ad Omar, tornano in peso d'argento a sessanta centesimi di lira italiana più o meno. Parmi che questo sia stato anco il valore che s'intendea sotto la denominazione di dirhem al tempo di Omar. Si può supporre che una giornata di lavoro presso i popoli stanziali di Arabia tornasse in quel tempo circa a due dirhem; poichè lo schiavo persiano il quale per vendetta uccise quel gran principe, sendo ito a chiedergli giustizia contro il proprio padrone che l'obbligava a pagare due dirhem al giorno, Omar gli avea risposto che mettendo su un molino a vento, avrebbe potuto vivere e soddisfare quel tributo.

145

Mawerdi, Ahkâm Sultânîia, lib. XVIII, ediz. Enger, p. 345 seg. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. II, fol. 93, seg., sotto l'anno 15. Ibn-Khaldûn, Parte II, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tom. II, fol. 171 recto. Ho seguíto a preferenza Mawerdi, antico e rinomato scrittore di dritto pubblico. Le cifre son date con qualche divario da Ibn-el-Athîr e dagli altri compilatori moderni. Ma si ricava da tutti: 1º Che fossero scritti nei divani anche i fanciulli, le donne e gli schiavi; 2º Che vi fosse un minimum come noi diremmo, al quale avea dritto ogni persona di qualunque sesso, età e condizione. Perciò le pensioni più grosse debbono riguardarsi in parte come retribuzione militare, o riconoscenza di meriti particolari, e in parte come quota dei guadagni comuni, appartenente ad ogni associato nella fraternità musulmana.

146

Omar-ibn-Madî-Karib, interrogato dal califo Omar su la virtù delle varie maniere d'armi, rispondea così per le saette; per la lancia dicea: or è tuo fratello, or ti tradisce, ec. Egli si piccava sopratutto di maneggiar la spada e l'espresse con una parolaccia alla quale il califfo rispose con lo staffile. Ibn-Abd-Rabbih, Kitâb-el-I'kd, MS., tom. I, fol. 50 verso.

147

Ibn-Abd-Rabbih, op. cit., tom. I, fol. 26 verso. Tacito avea scritto: Velocitas juxta formidinem; contatio propior constantiæ est. De Mor. Germ. Ciò che dico delle armi e tattica dei Musulmani nei primi secoli dell'islamismo si ricava anche dai varii racconti di lor guerre, non meno che dai trattati di Leone il filosofo, Leonis imperatoris Tactica, cap. 18, edizione di Meursius, p. 810, seg., e di Costantino Porfirogenito, Constantini Tactica, ibid., p. 1398, seg.

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I

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