Читать книгу Ginevra, o, L'Orfana della Nunziata - Antonio Ranieri - Страница 29

XXII.

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Riavutami un istante dal mio strano turbamento, e rasciuttemi le lacrime col lembo della mia vesticciuola, il garzoncello ed il vegliardo entrarono lentamente nel palazzo Santo Buono. Il giovinetto si rivolse più volte per vedermi; e quando fu per isvoltare il peristilio della corte, affisse gli occhi sopra di me così pietosamente, che parve che il cuore gli si spezzasse.

Un istante appresso disparve; e con lui sparì il prestigio dell'ora, del sole, della stagione e dell'universa natura; ed io mi feci fredda come il ghiaccio.

Il dì seguente, quando, in sulla più bell'ora della mattina, io cominciai le mie gite alla fontana, sentii sciogliermi le ginocchia appena rividi l'aria aperta. Sudavo e gelavo a un tempo, e mi palpitava il cuore in un modo così concitato, che pareva che allora allora mi si schiantasse. Ma non mai, non mai, in tutte le dieci volte ch'io ritornai alla fonte, mi fu conceduta la cara vista, in cui io aveva risposto tutto il mio bene, tutta la mia speranza. Quando rivenni l'ultima volta dalla fonte, entrai, senza quasi avvedermene e come un automato, nel palazzo Santo Buono, se forse mi fosse dato di vedere il giovinetto. Ma il portinaio, ch'io non aveva veduto, mi fece accorta di se con un fiero calcio, gridandomi in capo che non si conveniva alla scalza e stracciata canaglia d'entrare ne' palagi de' principi.

Erano già dieci giorni ch'io non vedeva più nè il vecchio nè il giovinetto. Prima ch'io lo vedessi, era un gran tempo ch'io aveva perduta la consuetudine di piangere. Ma dal dì che lo vidi, m'era stato nuovamente conceduto questo divino benefizio, e mai non tornavo dalla fontana e non vedevo il palazzo Santo Buono, ch'io non fossi costretta a farmi adagio adagio dietro la cantonata di Santa Sofia, e quivi sotto una bella immagine della Vergine ch'era affissa nel muro, versare, fra spessissimi singhiozzi, un torrente di calde lacrime; chiamando l'ignoto giovanetto, se non col nome che aveva, con quello almeno che gli aveva dato il mio cuore, di vita mia, di anima mia, di mia sola speranza, di mio angelo, di mio universo, e raccomandandomi alla Vergine, che almeno un'altra sola volta me lo mostrasse. Seppi di poi che quell'immagine era un capolavoro di Raffaello, involato nell'anno novantanove dalla casa di un medico valorosissimo, che dal popolaccio del suo rione, al quale egli aveva per lunghi anni prestato i soccorsi dell'arte sua senza ricompensa veruna, fu a colpi di pugnali e di mazze trucidato e sfracellato, e il tronco corpo gittato dalla finestra.

L'undecimo dì, era verso le ventitrè ore, io tornava con la secchia dalla fontana, allorchè presso la medesima cantonata di Santa Sofia riconobbi subito all'angelico viso il garzonetto, che senza il vecchio m'attendeva. Appena mi vide, l'angeletto mi s'appressò, e, sollevandomi dal peso importabile della secchia, mi pigliò dolcemente per la mano, e mi condusse in un solitario viottolo, ch'era accanto a quella cara immagine. La quale riguardando e pure credendola sola autrice di tanto mio bene, quali lacrime d'ineffabile dolcezza e di riconoscenza mi piovvero dagli occhi, e quante!... Appena ci fummo sottratti alla vista degli uomini, l'angelo mio mi strinse al suo seno palpitante, e con le sue calde labbra inghiottendo le lacrime ch'io versava a torrenti; era più alto di me e mi baciò sulla fronte. Poi curvato il collo tutto bello di giovinezza, m'afferrò con le sue labbra le mie e mi vi stampò un bacio di memoria immortale. O Creatore del Tutto! Allora dovevi chiamarmi alla tua pace... ma forse temesti che anche nel paradiso io ti avrei ridomandata la terra.

Dimmi, anima mia, come ti chiami?... mi domandò l'angeletto. Ginevra, io risposi singhiozzando.

E intanto, carezzata e stretta e ribaciata da lui, io, fuori di me e senza sapere che fosse, cominciai, mischiando stranamente alle lacrime un sorriso di tenerezza, cominciai a stringermelo al seno ed a baciarlo anch'io... ed a ribaciarlo.

Quando ci fummo riposati lungamente l'uno sul seno dell'altro, ove il cuore taceva, il mio angeletto, sollevatomi leggerissimamente il capo con ambo le mani, mi disse:

Amore mio, quanto mai sei bella! Com'è mai possibile che il cielo abbia potuto condannare alla sventura una sua abitatrice, quale tu sembri negli atti, nel volto e in tutta la tua angelica persona. Tu mi sembri uno di quei fantasmi che mi si sono talvolta rappresentati alla mente, quando standomi col mio babbo le lunghe ore in qualche tempio, mi è stata dalla divina parola promessa la beatitudine dei cieli, tutta accompagnata dalle incantevoli forme delle anime eternamente beate. O mio solo bene, mia sola speranza, quanto apparisce strano ed inesplicabile il contrasto ch'è fra gli squallidi cenci che ti ricuoprono e la tua tenera e trasparente carnagione, ed il tuo viso bianco e rosato a un tempo, e quegli occhi neri e quelle nerissime chiome che ti si smaltano sugli omeri. O fanciulla del paradiso, fa ch'io non ignori chi sei; che il cuore già mi dice, che come nelle mie membra mal coperte e brutte di povertà e di dolore, scorre un sangue nobile e gentile, che così nobile e gentile debb'essere quello che ti trasparisce dalle membra e dal volto.

O gran Dio! come io precipitai dal paradiso nell'inferno a quella inchiesta! Io grondai tutta, m'annegai in un pelago di confusione, e desiderai veracemente che la terra s'aprisse per inghiottirmi. I quattro anni che avevo valicati in casa il cuoco mi avevano fatta pur troppo accorta che gli uomini credono, che l'essere in sul primo vagito gittata dalla miseria o dalla paura nella buca de' reietti, sia un'infamia che debba perpetuamente, sino alla morte e dopo la morte, pesare sul capo della vittima.

In fine Iddio mi concesse tanta forza, ch'io non mi morii, ma giunsi a dirgli:

Amore... dimmi prima chi tu sei... e poi ti dirò delle mie sventure.

Ed essendomi io tutta arrossita nel viso:

Ginevrina adorata, mi disse, tenendomi sempre le sue mani sulle tempie e sulle guance, e così sostenendo un poco levato verso di se il volto che naturalmente per vergogna mi s'inchinava, tutto quello che vuoi ti dirò. Io non sono più io dal dì che ti vidi. Angelo mio, mi pare che se il mio babbo mi avesse data una sorella, che così io l'amerei, come ora ti amo. Babbo era il più famoso chimico che siesi conosciuto qui: dico era, perchè si può dire ch'egli già più non vive. Alcuni venerabili vegliardi, tutti poveri come noi siamo, che sempre vengono a visitarlo, dicono fra loro sommessamente, ch'egli fu il primo ad introdurre lo studio di quella scienza in questo ch'essi chiamano estremo canto dell'universo civile. Costoro dicono pure ch'egli doveva morire ventidue anni fa sul patibolo, dove morì un suo più che fratello, che non mi ricorda il nome, che aveva il primo formato qui un orto di piante rare e medicinali, come quello ch'è ora in Foria, e gli fu divelto a furia dal popolo, come malefico effetto d'incantesimo diabolico: dove morirono, finalmente, tanti grandi uomini così nelle armi come in tante altre o arti o scienze, che non so nominare: e dicono, che, per lunghi anni, mai più quest'infelice contrada non sarà bella d'uomini somiglianti, perchè dal sangue, essi soggiungono, può rinascere sangue; ma non ingegno, nè sapere, nè grandezza altra verace. Mio padre scampò quella morte, perchè un generale di certi popoli barbari, con la forza dei quali si commettevano qui tutte quelle atrocità, fu meno barbaro de' nostri medesimi cittadini, e, dimandatolo esso, come per farne uno scempio maggiore, lo mandò in esilio. Babbo andò ramingo in Francia, dove fu sforzato di accettare un tozzo di pane il dì dal forestiere: e mi racconta sempre che nessuno assenzio è amaro quanto quel pane. Otto anni di poi mi racconta che tornò qui con una moglie francese, dalla quale ebbe me: ma la mia nascita costò la vita a mia madre, e fu la prima mia sventura. Poi ebbe un impieguccio, col quale sosteneva sottilmente la sua vita. Sett'anni fa lo perse, e poco di poi in non so quale sperimento chimico acciecò. Così fummo ridotti all'estrema mendicità in cui ora ci troviamo. Il dì che seguitò a quello in cui gli occhi miei si scontrarono ne' tuoi, babbo infermò, ed è ancora infermo in un tugurio che abitiamo dalla croce al Sacramento. Rotto e stanco dall'età, dall'inedia e dal morbo, giace sopra un misero letticciuolo come un tronco inerte. Gli occhi, quel solo spiracolo dell'anima e della vita, sono già spenti. Io moribondo pongo le mani sul suo cuore per sentire se palpita, appresso l'orecchio alla sua bocca per udire se respira. Parmi talvolta di nulla sentire, di nulla udire, e gitto un grido disperato, piango la sua morte, e mi sento morire io stesso. Poi mi rilevo, lo guardo, mi viene dalla sua vista lo spavento del cadavere, mi riappresso agonizzante, gli ripongo la mano sul cuore, che risponde languidissimamente al tremito di essa. Allora ritorno col mio volto sul suo pallido volto, lo bagno delle mie lacrime, lo riscaldo col mio fiato anelante; poi rimango tramortito sopra lui. Questa è la vita che meno. Ma, oh Dio, Ginevra, è già un'ora che noi siamo abbracciati, che l'anime nostre sono confuse insieme, anzi sono una sola. Lo spavento di trovare mio padre estinto mi divide, come con una scure, da te. Dio mio! che separazione! che nuovi movimenti io sento nel mio cuore! Come m'è divenuta cara la vita dal momento che ti vidi! come mi pare di conoscerti, d'essere stato sempre al fianco tuo, dal primo giorno ch'ebbi la coscienza di me stesso. Ginevrina mia, credimi: mi pare che fino a questo momento io sia andato ansante, anelo in cerca di qualcosa, ed ora mi pare che questa cosa io l'abbia trovata e che sei tu e che fossi tu ab eterno. Stringimi, stringimi forte al tuo seno...

Ed io forte forte lo stringeva...

Stringimi questa mano, che ad ogni tua stretta io sento passarmi nel cuore una beatitudine sovrumana...

Ed io la stringeva, ed erano entrambe di ghiaccio!

Tornami a baciare, Ginevra...

Ed io gl'infiggeva sul petto, sulle labbra, sul volto, sugli occhi e su quei celesti capelli io non so quante migliaia di baci... ed egli snodando le mie nere chiome, le accostava alle sue labbra come cosa sua, e con un sentimento, che non si può dire con parole, di beatitudine e di disperazione insieme, le baciava e poi tornava a baciare.

Seguitava ad esprimere quanto poteva lo stato dell'anima sua, ed io pendeva fra attonita e palpitante dal suo labbro, perchè ogni sua parola m'era una rivelazione di quello che io sentiva nel profondissimo dell'anima mia, e non bastava ad esprimere. Alla fine, diradicandosi da me come una quercia dal suolo dov'ella è fitta da più secoli, rivolse gli occhi al cielo quasi accusandolo di tanto dolore, trasse un sospiro disperato; e facendosi la più tremenda forza, mi respinse convulsivamente da se, perchè altra via di staccarci non v'era, raccomandandomi che il dimane, in sul mezzo dì, io l'avessi atteso sotto l'immagine... e si allontanò da me soffermandosi ad ogn'istante, come strascinato a un tempo da due avverse possanze, dalla magia della mia presenza e dall'immagine del padre moribondo. Un momento di poi, fra il crepuscolo di quell'ora, io vidi sparire l'incantato fantasma dietro la curvatura del vicoletto; ed appoggiata al muro medesimo dov'egli mi aveva lasciata, rimasi come un cadavere in piedi, finchè battette l'ora all'oriuolo di San Giovanni, e m'avvertì dello scempio che mi attendeva a casa donna Mariantonia.

Ginevra, o, L'Orfana della Nunziata

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