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L'OLMO E L'EDERA
III

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No, la donna non c'era; ma, poichè racconto ogni cosa, non posso negare che c'era stata. Laurenti aveva ventott'anni, come mi pare d'avervi detto, e se non ve l'ho detto, sappiatelo adesso; ora e' non si giunge a quell'età senza aver sentito almeno una volta le trafitture dell'arciero bendato.

Quello di Laurenti era stato uno di quegli amori poggiati sul falso, tormentosi come un cattivo sogno, che toccano talfiata, acerbo tirocinio del cuore, ai giovinetti inesperti. Egli s'era a diciott'anni invaghito di una donna, non bella davvero, ma che pareva ed era celebrata bellissima, come tutte quelle che sanno far risaltare qualche fisico pregio con arte maravigliosa, lo circondano di svenevolezze, parlano al cuore dei riguardanti coi sogni che lasciano concepire, colle speranze che lasciano nascere, o che coltivano quotidianamente, colle vaporose malinconie, coi sorrisi, tenendo gli adoratori in un'aria impregnata d'acque nanfe e di arabici profumi. Le quali cose, accortamente vestite di seta o di velluto, accomodate con vezzi di perle e diamanti, vi creano di punto in bianco la regina delle donne, in quel regno effimero, che dura molto, solo perchè si mutano e si rinnovano i sudditi.

Costei, ch'io ho conosciuto al pari di Guido Laurenti, aveva sudditi molti, seguitata, corteggiata, adulata, e perciò senza un micino di cuore. La donna che è centro di molte adorazioni è stata paragonata al sole in mezzo ai pianeti; ma in verità io non conosco immagine più falsa di questa, sebbene tutti l'adoperiamo sovente. Quella apparenza estrinseca che ha giovato a rendere accetto il paragone, anche qui è fallace come in altre cose moltissime. Sta bene che una di cosiffatte regine da salotto e da teatro dia l'immagine del sole, e i suoi adoratori appariscano altrettanti pianeti, i quali fanno la loro brava rivoluzione intorno a lei, sempre attratti nella sua orbita e tenuti in riga del pari. Ma guardate per bene oltre la scorza dell'apparenza e vedrete che il paragone non corre più. Il sole attira i pianeti, dà loro la luce e il calore, fa germogliare le piante, produce la temperatura, che è condizione di vita ad ogni organismo, fa godere, amare, vivere insomma. Che fa, in quella vece, una delle donne di cui si ragiona? Dà luce, calore e vita ai suoi pianeti? No certo; ella non spande nè luce, nè calore, nè vita; tutto riceve da essi, e non rende mai nulla. Gli adoratori sono altrettanti fuochi che l'hanno tolta per centro, che la irradiano, la riscaldano, o tentano riscaldarla. Tentano, notate bene, tentano! Invero quella levigata superficie si riscalda un tratto; la prima crosta, l'epidermide, sente il frizzare di quelle lingue fiammanti; ma il centro, il nocciolo dell'astro maggiore, è un gelo eterno, e ogni alito infocato che giunge fin là, si converte in ghiacciuolo. Quei pianeti che danzano intorno a lei, come le mitologiche Ore intorno al Tempo, le dicono che essa è bella, che è adorata, che il suo regno è felice; raggiano verso di lei con tutta la potenza della gioventù e della passione; essa non riverbera nulla, è un corpo opaco, e le rare fosforescenze che a volte ella sprigiona, simulando la luce e il calore, non giungono neppure ai poveri pianeti; le gode qualche cometa, che viene turbinosa dalle profondità dello spazio a descrivere la sua curva violenta vicino a lei, per dileguarsi da capo.

Ad una di cotai donne aveva dato il mio Guido le primizie de' suoi affetti soavi. Novellino agli inganni, aveva fatto la sua scuola, e bisogna soggiungere, ad onor suo, che mai scuola tornò più profittevole di quella. Egli è dato cadere in trappola così agli accorti, come agli sciocchi; senonchè gli sciocchi vi rimangono, e gli accorti se ne cavano fuori. Ora, Laurenti, quantunque non senza difficoltà, nè senza danno, se n'era cavato; aveva patito, ma alla guisa delle anime forti, e non lo avea fatto scorgere. Il futuro entomologo aveva (condonatemi la frase) dato di piglio al suo cuore infermo; lo aveva aperto, arrovesciato e strizzato, per ispremerne fin l'ultima goccia d'umor guasto; poi, rasciutto, lo aveva rimesso a posto e s'era dato anima e corpo allo studio, gran rimedio alle anime affannate.

Ecco perchè non c'era nulla nel cuore del giovine naturalista; ecco perchè non c'era un'immagine di donna negli arcani penetrali della sua vita operosa.

Santa quiete dell'anima! Come il filosofo di Orazio, ma non disutile, nè paganamente beato come lui, Guido Laurenti se ne stava nella sua solitudine, monaco di un ordine nuovo, senza un espresso voto di verginità, e senza desiderio di infrangerlo. I nobili cuori hanno di cosiffatte calme, come i grandi mari; e stanno allora, le vele penzoloni, aspettando le etèsie.

Ma un giorno (allorquando si racconta, e' bisogna sempre giungerci, a questo benedetto ma e a questo benedetto giorno), egli avvenne che Guido Laurenti facesse una piccola variante nelle sue consuetudini giornaliere. Egli soleva dedicare la mattina al suo uffizio di giardiniere, e il pomeriggio alla passeggiata; ma quel giorno, dopo il desinare, per non so quale ragione, si trattenne in casa, e in cambio di andare alla sua solita gita, scese in giardino e andò a sedersi con un libro tra le mani, a quel posto dove era uso sedersi la mattina, dopo avere inaffiato i suoi fiori.

Qui cade in acconcio uno scampolo di descrizione. Il giardino di Laurenti era una lista di terreno, che correva per forse cinquanta metri lunghesso la collina, e dal lato della scesa era sostenuto da uno spesso muraglione, del quale ogni acquaio, ogni screpolatura, alloggiava un cespo di semprevivi, di capperi o d'altre pianticelle di facile contentatura. A' piedi del muraglione si dilungava comodamente una conserva di piante esotiche, ultimo lembo di un vasto giardino, anzi di una villa signorile, che andava a far capo ad una palazzina gialla, il cui piano superiore e il tetto rilevato a quattro acque, col suo parafulmine in cima, si vedevano sbucare da una selva di magnolie e di allori. Intorno a quella palazzina era il vero giardino, con ogni maniera di fiori; e tra il giardino e il muraglione saliva dolcemente una larga prateria, qua e là seminata di fiori disposti a canestri, di salci, larici pigmei, e tutta corsa da stradicciuole sabbiose che serpeggiavano per ogni verso, fino alla conserva anzidetta.

Quel giardino era sempre stato argomento d'invidia pel nostro botanico. Ogni mattina, dopo aver curato i suoi fiori, egli andava a sedersi sul ciglio del muraglione, e contemplava quell'orto delle Esperidi. Misurava la vastità di quel terreno coltivato, così difficile a trovarsi nel centro della città, paragonandola coi pochi metri del suo giardino pensile, e stava guardando lunga pezza, con fanciullesca attenzione, i lavori di quel beato giardiniere che aveva spazio così largo da albergare tanta varietà di magnifiche piante della flora dei tropici.

Il luogo dove il nostro botanico andava a sedersi, era presso un olmo di smisurata altezza, appartenente al giardino inferiore, ed ultimo avanzo di un lungo viale che era stato disfatto, per cedere il campo alla prateria. Quel malinconico superstite di una rigogliosa dozzina di olmi, sacrificati alla moda britannica, saliva co' suoi rami più su del giardino pensile di Laurenti. Il muraglione, per tutto quel tratto, era coperto di edera, e i lettori già capiscono che cosa ne avvenne; che cioè l'edera, come una donna innamorata, aveva un bel giorno gettate le sue braccia al collo, vo' dire al tronco, dell'albero maestoso. Amplessi tenaci, che si ripeterono in breve su per i rami, producendo tra l'albero e il muro una sequela di pittoreschi festoni e una lieta figliolanza di neri corimbi. Marito e moglie, era una vaghezza a vederli. Non curante della proprietà altrui, smesso perfino quel ritegno naturale che vieta alla donna di fare il primo passo, l'edera s'era maritata, e Dio misericordioso aveva benedette le nozze. I rispettivi proprietarii, che non s'erano accorti degli amoreggiamenti, non si vollero riscaldare il sangue quando il pateracchio fu fatto, e la prescrizione passata. Poi, la consuetudine di vederli uniti (e vi so dir io che facevano assai miglior figura di certi matrimonii) fu tale, che allorquando il proprietario di sotto fu per atterrare i due filari di olmi del suo viale all'antica, non gli diè l'animo di far mettere la scure sull'ultimo albero, e di vedovare quella tenera, quantunque assai nodosa, consorte.

Per amore di verità debbo dirvi che egli non ci si piegò tutto ad un tratto, e stette anzi in forse per qualche dì. Ma finalmente vinse la pietà, e, più ancora che la pietà, il pensare che in fin de' conti quell'olmo era l'ultimo del viale, che era molto accosto al muraglione, e in quella che sarebbe rimasto come una rarità, non avrebbe fatto impedimento, nè sconcio.

L'olmo e l'edera

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