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III

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Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia atteggiò le labbra ad un sorriso tra l'arguto e il melenso, che rispondeva benissimo allo stato particolare di un uomo, il quale per ragione dell'ufficio dovesse indovinare a volo e che frattanto avrebbe voluto essere aiutato un pochino.

– Una meraviglia! – esclamò egli avvicinandosi e cercando di guadagnar tempo.

– Mi correggo; – ripigliò il duca di Francavilla. – Le meraviglie, nel suo circondario, sono parecchie, anzi più delle sette di cui si vantava l'antichità; – soggiunse egli, volgendo intorno una rapida occhiata, come se volesse sparpagliare il complimento tra tutte le sue ascoltatrici. – Ma intendevo parlare d'una meraviglia medievale, di una stranezza, d'un anacronismo… infine, per chiamar le cose col loro nome, del convento dei matti.

– Ah! – rispose il sottoprefetto, dando una rifiatata. – E lei, signor duca, si è inerpicato fin là?

– Certamente; il dilettante d'archeologia preistorica ha perduta la sua giornata, facendola guadagnare al curioso. Ho veduto il convento dei matti e ci ho mangiata anche la frittata dell'amicizia. —

Il duca di Francavilla non s'immaginava di aver fatto una cosa tanto singolare. Lo pensò, quando vide che tutti gli si strinsero intorno, come altrettanti bambini a cui avesse raccontato di essere andato alle tre montagne d'oro, o agli alberi del sole.

– Racconti, signor duca, racconti! – gli dissero.

– Penetrare nel convento dei matti non è mica una cosa facile!

– Davvero?

– Sicuramente, e Lei può stimarsi fortunato. Ci è una guardia così severa contro tutti i curiosi!

– È vero quello che se ne dice? – domandò la signorina Adele Ruzzani.

– Signorina… – rispose il duca, – io veramente non so che cosa se ne dica…

– Che ci sono in quel convento degli uomini in collera col mondo.

– Come tutti i frati, signorina.

– Che si lasciano crescere la barba fino alla cintura; – soggiunse la signora Morselli.

– E si scavano la fossa come i certosini; – rincalzò la contessina Berta.

– Signore mie, non ho veduto niente di ciò; – rispose il duca di Francavilla. – Ho trovato delle persone a modo, con le barbe regolari, ed anche col mento raso. Che siano in collera col mondo, mi par di capirlo dal fatto che si son dati alla vita monastica. Ma infine, non mi è sembrato che odiassero tutti, poichè mi hanno ricevuto benissimo, senza sapere chi fossi, e mi hanno lasciato andare via senza domandarmelo affatto.

– Essi, – notò il sottoprefetto, – non odiano che il sesso gentile.

– Oh brutti! – esclamò la signora Morselli, con un gesto di orrore.

– Già, – continuò il sottoprefetto, – abborrono le giovani; per aver grazia davanti a loro, bisogna essere venerabili. —

La signora Morselli che voleva essere annoverata fra le giovani, arricciò il naso, peggio che non avesse fatto da prima.

– Ma in che modo è andato a battere lassù, signor duca? – ripigliò il sottoprefetto, lasciando a mezzo il suo dialogo con la signora Morselli.

– Oh, in un modo naturalissimo, e quasi senza avvedermene. M'ero alzato stamane per tempo, e andavo al mio lavoro prediletto nella caverna della Ripa, quando mi venne udito dalla costa di rimpetto il rumore di alcuni sassi che si staccavano dall'alto e sdrucciolavano giù per la frana. Alzai gli occhi e guardai. Credetti alle prime di riconoscere un cane; ma la sua andatura guardinga per un sentiero così strano, mi pose in sospetto.

– Un lupo, forse? – disse la signora Morselli, fingendo un brivido di leggiadra paura.

– No, una volpe. Non istetti molto ad accertarmene, osservando la sua coda alta e vistosa. Avevo il mio fucile ad armacollo; ma la distanza era troppo grande e non mi fidai di lasciarle andare una botta. Un contadinello che veniva dietro a me, con un carico sulle spalle, mi disse: – "Badate, se volete prenderla, io posso insegnarvi il suo covo, che è là." – E mi additava una balza, sormontata da cinque o sei pini bistorti, a forse cinquecento metri dal punto ov'era la volpe. – "Vuoi tu accompagnarmi?" – gli dissi. – "Per ora, fino a mezza strada, – mi rispose; – ma se volete aspettarmi, tanto che io consegni questo carico alla badìa, vi accompagnerò fino alla tana." – Non sapevo che si trovasse una badìa da quelle parti, e domandai che frati ci fossero. – "Non son frati, – mi disse il contadino, – quantunque vestano da frati; il parroco dice che son lupi travestiti da pastori; la gente dice che son matti." – "E tu che cosa ne dici?" – "Che potranno benissimo esser matti, ma che di sicuro non sono lupi, e che non vanno vestiti da pastori, perchè hanno la tonaca, proprio alla maniera dei frati." – La cosa mi parve singolare. Lasciai correre la volpe e interrogai il contadino, sperando di cavarne qualche notizia intorno a quel convento di frati che non erano frati, di lupi che non erano lupi, e di matti che potevano esser savi, più di tanti e tanti che ne hanno la riputazione. Ma il contadino mi aveva detto quasi tutto quel che sapeva. Gli abitatori del convento non li conosceva; soltanto ne aveva veduti due o tre da lontano, e non era in relazione che col frate converso. Egli non mi sapeva descriver nulla, neanche l'abito di quei monaci, se avesse qualche particolarità notevole, che lo avvicinasse ad un ordine, o lo distinguesse da un altro. Ed io, curioso come… un uomo, risolsi di accompagnarlo fino alla porta del convento. Tanto, a sentir lui, era tutta strada per andare verso i pini, dove ci aveva il suo covo la volpe. Mi allontanavo invece dalla mia caverna ossifera; ma questa mi avrebbe sempre aspettato. Eccomi dunque, signore e signori, in viaggio per il convento dei matti. Si passa un torrentello, si entra in una forra, si scende ancora, fino ad un ponte massiccio, d'un arco solo, che mette ad una torre quadrata con le sue feritoie in basso, le sue caditoie in alto e i merli sul colmo, come ogni torre che si rispetta.

– Dio, come descrive bene! – mormorò la signora Morselli. – Par di vederla.

La modestia del duca di Francavilla fece le viste di non aver udita la mezza voce del soprano sfogato.

– Di là dal ponte, – diss'egli, continuando, – è una macchia fitta di frassini e di cerri che nasconde il sentiero. Che pace, là dentro! Solo a vedere quella conca di verde cupo, ho intesa la vita monastica, e per cinque minuti ho invidiati i santi uomini che vissero là dentro, ignorati dal mondo.

– Fino alla soppressione delle fraterie; – notò il sottoprefetto. – L'eremo di San Bruno è stato venduto dieci anni fa.

Le signore mostravano desiderio di udire la continuazione del racconto. E il duca proseguì:

– Entrato sotto il portico in compagnia del contadino, vidi il frate converso, un giovialone con tre giri di pappagorgia, tondo come una botte, ma giovane ancora, e con due occhietti neri che non stavano mai fermi. Voleva parere arcigno, ma non gli riuscì. – "Che cosa vuole, questo signore?" chiese egli al contadino. – "È un cacciatore, e domanda di riposarsi un poco." – "E vorrà un bicchier di vino, m'immagino." – "Padre, – risposi io, – l'ora è troppo mattutina." – "Che! mattina o sera, è sempre ora di bere." – "Concedo, ma a patto che si sia mangiato un boccone." – Il converso mi guardò con aria compassionevole. – "Non è l'opinione di tutti i filosofi; – rispose; – Anassagora pretende che si debba ber vino soltanto post pastum; Zenone invece sostiene che potum semper juvabit." – Volli mettermi anch'io all'altezza di quella erudizione burlesca e replicai: – "Ambedue s'accordano per combattere la dottrina di Talete." – "Ah sì? – ribattè egli con accento tra il burbero e il rabbonito. – E che cosa dice Talete?" – "Aqua optima rerum." – "Per risciacquarsi il viso una volta alla settimana, non nego." – "Padre, io m'inchino alla sua equanimità; il mondo fu più severo di Lei, e condannò il sistema di Talete all'oblìo." Queste parole mi fruttarono un sorriso del frate converso, il quale mi disse: – "Venga al convento e farà colazione." – In ogni altra circostanza avrei ringraziato, rifiutando; ma quella fortunata occasione di visitare un convento di matti non era da lasciarsi sfuggire, e ringraziai, accettando. Signor ricevitore, non avrebbe fatto lo stesso? Intanto, guardavo il mio uomo, così tondo e così vispo, con quella sua tonaca color tabacco, tutta strappi e frittelle. L'illusione era perfetta; avevo davanti un vero frate torzone. Sbrigatosi dal contadino e preso l'involto sulle braccia, il converso mi accennò di seguirlo. La strada era più grande che non l'avessi creduta da prima, vedendo quella macchia così fitta di cerri e di frassini. Il mio strano compagno mi domandò se fossi del paese, ed io notai l'aria di contentezza che si dipinse sulla sua faccia rubiconda, appena gli ebbi detto che ero forestiero, che mi trovavo a Castelnuovo per ragione di studio. "Il priore è gentilissimo, – mi disse, – e sarebbe anche ospitale, se le visite non fossero quasi sempre di curiosi, che vogliono sapere chi siamo, e perchè viviamo qui ritirati." – "Non vorrei essere importuno" – mi affrettai a rispondere. – "No, non ci pensi neanche; – replicò il converso! – Lei è uno studioso, dunque non è un curioso." – Mi parve che la distinzione fosse molto arbitraria, ma lasciai correre, pensando che lo studioso mascherava abbastanza bene il curioso e che sarei potuto giungere a quel benedetto convento. La strada costeggiava un rigagnolo, ma a poco a poco si alzava sul fianco della collina. Qua e là, a giuste distanze, sorgevano certi tabernacoli, che rispondevano alle stazioni della Via crucis. Dalle vette circostanti si vedevano spuntare i tetti dei romitorii. Finalmente, svoltato un angolo tra due poggi, mi si parò davanti agli occhi una valle, con qualche segno di coltivazione, e un grosso edifizio nel mezzo.

– Il convento di San Bruno: – disse il sottoprefetto, approfittando di una pausa del narratore. – È stato venduto per ottomila lire, e un solo taglio d'alberi ne ha fruttate cento cinquantamila.

– Ai frati nuovi?

– No, a certi speculatori che avevano comperato l'eremo e poi lo hanno rivenduto ai frati nuovi, ai matti, come li chiamano in paese.

– Son matti davvero! – gridò la signora Morselli. – Odiare le donne! Ma si può dar di peggio?

– E quanti sono? – chiese Adele Ruzzani, a cui piacevano poco tutte quelle interruzioni.

– Nove, per ora, ma se ne aspettano cinque.

– Graziosi, quei novizi! – esclamò il sottoprefetto.

– Avanti, coi nemici delle donne! – ripigliò la signora Morselli. – E Lei, cavaliere, non li obbliga a smettere?

– Signora, mi dica lei come si potrebbe farlo. Sono in regola con tutte le leggi dello stato. Non sono mica una famiglia di monaci all'antica; sono una brigata d'amici che vivono in comune, e non domandano d'essere riconosciuti come ente morale.

– Non ci mancherebbe altro! un ente morale, questo covo di celibi!

– Covo di celibi! Ben trovato! Come a dire un covo di bricconi; – gridò il duca di Francavilla, dando la sua occhiata in giro, per comprenderci anche la signorina Adele, senza aver aria di far preferenze:

– Bisogna disfare il covo! – ripicchiò la signora Morselli, facendo di buona voglia la sua parte di mamma. – Signor cavaliere pensiamoci.

– Eh, pensiamoci pure; – disse il sottoprefetto con aria di condiscendenza, temperata da un sorrisetto e da una crollatina di spalle. – Se in Parlamento penseranno a votarmi una legge contro il celibato, non dubiti, mi metterò subito in campagna, con una mezza dozzina di carabinieri. Signor Prospero, Lei mi aiuterà, chiamando sotto le armi la guardia nazionale.

– Propongo un altro metodo; – entrò a dire il ricevitore del registro. – Sono quattordici, i frati di San Bruno? Si va col sindaco e con quattordici ragazze da marito.

– Bella trovata! – gridò la signora Morselli. – Resta a vedersi se le ragazze di Castelnuovo si degneranno di fare la strada per quei quattordici sciocchi. Già m'immagino che saranno anche brutti.

– No, signora mia; – rispose il duca di Francavilla; – li ho veduti in refettorio e…

– A proposito. Ella deve continuare la sua storia, signor duca. Era rimasto… Dov'era rimasto?

– In vista del convento. Ma il resto del viaggio può esser soppresso, senza nuocere alla chiarezza del racconto.

– No, no, vogliamo tutto, dall'a fino alla zeta.

– Non le facciamo grazia d'una virgola.

– Capisco, – disse il duca ridendo, – non mi permettono di far punto.

– Incominci, la prego, a non far punto e virgola; – gridò quel capo ameno del ricevitore.

– Obbedisco; – replicò il duca di Francavilla, inchinandosi. – Dalla svolta a cui eravamo rimasti, fino al convento, sono forse mille passi, e la strada scende insensibilmente fin là. Non si direbbe che, in un luogo alpestre come quello, si nasconda una valle, e direi quasi una conca, di così dolce declivio. Ah, non è questo che vogliono, signore mie? Accettino dunque il mio metodo; prendiamo la via più breve ed entriamo difilati in convento. È fabbricato come tutti gli altri, ha un portone, un androne, un parlatoio; certi santi dipinti a fresco lungo le pareti, e i miracoli di san Bruno nelle lunette tra i cornicioni delle mura e gli archetti della vôlta; un cortile con un porticato in giro, il pozzo nel mezzo, e gli ortaggi intorno al pozzo. Dico male; ortaggi, no; ci hanno piantato dei fiori. E questi fiori mi hanno dato da pensare. Perchè dei fiori, nel convento dei matti? Non è una comunità di odiatori delle donne? Ora, dove non si amano le donne, e che servono i fiori? Io non mi ci raccapezzo, e lascio il quesito ad ingegni più accorti del mio. Accennerò soltanto una cosa, che potrà servire come schiarimento agli studiosi. Il frate converso mi ha detto che il priore non ama l'aglio e tollera appena il prezzemolo nella frittata.

– Avanti, signor duca, avanti!

– Sono agli ordini delle signorie loro. Andando oltre in compagnia del converso, incontrai un frate, vestito in tutto come il mio accompagnatore, ma più pulito quel tanto. Mi parve un uomo sui quarant'anni, ma forse lo faceva più vecchio la gravità dell'aspetto. Non badò a me, tranne per rispondere al mio saluto con un cenno del capo. – "Padre Anselmo!" gli disse il converso, inchinandosi. – "Fratello Giocondo!" gli rispose quell'altro. Seppi così che il converso si chiamava Giocondo; un bel nome e bene appropriato al personaggio. – "Chi è questo padre Anselmo?" gli domandai. – "È il bibliotecario" mi rispose il converso. – "Diamine! non l'hanno in cantina, la biblioteca?" – "Che! Magari avessero più vino e meno libri! Ma già, all'esser tinozzi di quel buono, preferiscono d'esser pozzi di scienza, ed hanno fatto una biblioteca ricchissima." – Più avanti, c'incontrammo in un altro. – "Padre Bonaventura!" disse il converso, inchinandosi come prima. – "Fratello Giocondo!" rispose quell'altro, e tirò via. – "E questo chi è?" domandai. – "L'astronomo." – "Come? Avete anche un osservatorio?" – "Sicuramente, e un laboratorio di chimica, e tante altre diavolerie. Tutte le settimane i padri si radunano un giorno a capitolo, e mettono i loro studi in comune." – "Benissimo! E faranno un giornale?" – "Ci hanno pensato, – mi rispose fratello Giocondo, – ma finora non sono in numero per impiantare anche una tipografia. Presto saranno quattordici e allora stamperanno il giornale scientifico." – "Riescirà interessante e lo leggerò volentieri." – "Credo che sarà difficile; fanno conto di stamparne a mala pena quindici copie; una per ciascheduno di loro, ed una per la biblioteca. Almeno, così ho sentito dire." – Rimasi di stucco. Saranno matti, sì e no, pensavo, ma certamente sono molto curiosi. Seguitai il converso; vidi la chiesa, che è stata trasformata in biblioteca; quindi entrai nella sala del capitolo, che ha i sedili torno torno, come al tempo dei frati Camaldolesi, con la giunta di certi scaffali nel mezzo, per le riviste scientifiche, letterarie ed artistiche di tutte le parti d'Europa. Dal medaglione della vôlta, san Bruno benedice ogni cosa. —

L'undecimo comandamento: Romanzo

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