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CAPITOLO I

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Nel quale si racconta di mastro Benedicite, strozziere, e della gran paura che avea

Il sole era tramontato in mezzo a certi nuvoloni neri neri che ingombravano l'orizzonte marino, minacciando, dopo una molto bellissima giornata, una notte burrascosa. Gli ultimi riflessi dell'astro, costretti sotto quella cappa di piombo, accendevano come una striscia di fuoco lunghesso il mare, che si vedeva nereggiare in lontananza, di là da parecchi ordini di monti e colline, che sono i contrafforti dell'Apennino ligustico.

Le giornate, essendo sul finire d'autunno, riuscivano brevi; l'aria, già fresca per la stagione, si raffreddava sempre più per l'accostarsi del temporale e per il calar della notte. E già nascosto nell'ombra, sebbene fosse murato su in alto, era il castello di Roccamàla, severo edifizio tra il monastico e il feudale, siccome era dimostrato da un campanile, vecchio avanzo di chiesa, dimenticato in mezzo a torrioni e mura merlate, le quali avevano da due lati l'abisso, e un largo fosso dagli altri due, dov'era più dolce il pendìo.

Se la memoria non mi tradisce, questo castello di Roccamàla era stato da principio un convento di frati cirsterciensi, ordine il quale, fondato appena da S. Bernardo, si propagò alla lesta come una nidiata di conigli, e corse in pochi anni a popolare i paesi vicini. In Italia, segnatamente, e' furono come le cavallette d'Egitto. Dappertutto edificarono monasteri, e in parecchi luoghi (poichè allora, a quanto sembra, la novità delle fogge presiedeva eziandio alla prevalenza di questo o di quel sodalizio di frati) si allogarono in que' conventi che altri ordini più non potevano far prosperare, tanto erano andati giù nel concetto delle anime timorate.

Senonchè, i cisterciensi, o bernardoni, come erano chiamati dalle popolazioni ligustiche dal nome del fondatore, fortunatissimi altrove, nol furono del pari nel loro ricovero di Roccamàla. Nocque loro la fortezza naturale del sito e il comandar che faceva a due ottime strade (ottime, s'intende, per i tempi d'allora); laonde, corsi e ricorsi quei monti da gente strana, Roccamàla fu presa e divenne feudo di un valoroso conte, il quale non aveva altro che la sua spada, ma sapeva con quella tagliarsi dalla pezza la sua parte di tela. E intorno a Roccamàla il conte Ugo si tagliò di siffatta guisa un largo dominio, donde appariva, come tanti suoi pari, avvoltoio appollaiato sulla rupe, pronto a calare, se le discordie altrui gliene porgessero il destro, sulla marinaresca riviera. I frati, messi fuori di sella, dovettero quindi andarsene a dimorare più giù, verso il paesello che dipendeva dalla rocca, ma dove furono sempre a disagio, e intisichirono, come una pianta in luogo uggioso, sebbene il conte Ugo non li molestasse per nulla. Il fiero castellano non badava ad altro che a rafforzare e munire la sua rocca; la quale, pochi anni di poi, per una di quelle contese così facili a nascere tra vicini, sostenne valorosamente l'assedio di uno dei signori Del Carretto, e lo rimandò con Dio, conciato, lui e la sua gente, per il dì delle feste.

Ma egli non è di questo conte Ugo, capo stipite dei signori di Roccamàla, che io debbo narrar le gesta ai lettori, sebbene talfiata e' dovrà essere ricordato con distesi ragionari. Narro di forse cento trent'anni dopo di lui, quando quel forte legnaggio faceva bella testimonianza di sè in un altro conte Ugo prode e gentil cavaliere, amante delle giostre, delle cacce, delle tenzoni, dei trovadori e de' geniali convegni, per le quali cose era quasi sempre calato il ponte di Roccamàla e risuonavano le spaziosi arcate di festevoli risa e di liete canzoni.

Gaia gente, allegre mura! Il giovine conte era ricco, potente e bello come un eroe da romanzo, e felice per sovrammercato, come gli eroi da romanzo non sogliono essere.

Il papa lo aveva benedetto, sul nascere, mandando al conte Ruberto suo padre, per sì fausto evento domestico, un sacco d'indulgenze, che potevano bastare al neonato per tutto il tempo della sua vita, e avanzarne ancora un bel gruzzolo per uso della sua gente di casa.

Nella sua rocca convenivano d'ogni parte i più fedeli amici che uomo vedesse mai, innamorati dei modi suoi cortesi, liberali e magnifici; ed erano tali per nobiltà di sangue, e per alto valore e prodezze, da poter rinfrescare intorno a lui, nuovo Artù, l'onorata memoria dei cavalieri della Tavola rotonda.

Egli aveva i più bei falconi d'Europa, che gli erano stati donati da un suo zio materno, gran maestro de' cavalieri di Malta. Della qual cosa era giunta voce perfino al re di Francia, il quale, avvezzo per lo innanzi a ricevere ogni anno da Malta i migliori falconi pellegrini, e non gli parendo più che il gran maestro dell'ordine facesse il debito suo con la usata larghezza, ebbe a tenerne parola co' suoi gentiluomini. E uno di costoro gli rispose: – Sire, j'ai oui dire que le Grand Maistre a un sien neveu, de fort bonne noblesse, qu' il a en grande affection, et c'est lui qui reçoit les plus beaux faucons et les plus gentils que l'on puisse voir. – A cui il re di rimando: – M'est avis que ce jeune homme, puisque il est d'aussi bonne noblesse que vous le dites, vienne chez nous, et nous le ferons notre grand fauconnier, et l'aurons en haute estime, tel éstant notre bon plaisir. Aussi nous ne perarone pas de si nobles et gentilles bêtes, si chères à monseigneur Saint-Hubert, et gagnerons un vaillant chevalier pour notre joyeuse maison de France.

Ma il conte Ugo non potè, siccome pur era desiderio dello zio, tenere lo invito, in modo tanto cortese a lui fatto dai reali di Francia. Di fama, di potenza e di onore, egli aveva quanto bastasse ad orrevole cavaliero del suo tempo; e poi, conte Ugo non avrebbe lasciata l'Italia per il trono del mondo se mai Domineddio glielo avesse profferto; imperocchè egli era amato dalla più bella tra le creature umane, da Giovanna di Torrespina, da colei che celebravano per leggiadria e valore quanti erano cultori della gaia scienza, e che lasciò ella stessa, a testimonianza del suo ingegno, le più graziose ballate in quella lingua provenzale, che era in fiore per tutta Italia, innanzi che l'amante della bellissima Avignonese facesse della lingua italiana l'idioma d'amore.

Per simiglianti venture il conte Ugo non saliva punto in superbia, che borioso non era, nè sciocco. Prode in armi, aveva combattuto daccanto al padre, e non ne menava alcun vanto; era misurato ne' modi, schietto, umano e gentile. Ed ognuno, ricordando come una indovina, chiamata dalla buona contessa Alda sua madre alla culla del bambino, avesse pronosticato: «tuo figlio sarà un uomo felice», ripeteva che il conte Ugo era felice davvero, e, quel che più monta, era degno di esserlo.

Ma cotesto per l'appunto faceva venire i brividi, ogni qual volta se ne parlasse, a mastro Benedicite, lo strozziere, o falconiere che dir si voglia, dei signori di Roccamàla.

E perchè mo'? Nato e cresciuto nel castello, il vecchio mastro Benedicite amava il signor suo, sto per dire più dei suoi falconi, i quali falconi egli amava più dei suoi occhi medesimi. Egli era un quid tra il servo e il maggiordomo, tra il castaldo e il comandante del presidio; era insomma il ser faccenda di casa; il vecchio arnese della rocca, che aveva libertà di parola come un pazzo. Stato particolare che si spiegherà agevolmente col dire che egli era fratello di latte del vecchio conte Ruberto; che aveva salvata la vita, o quasi, alla contessa Alda, un giorno che il suo ronzino le aveva vinta la mano, e che, nato strozziere, perchè tale era suo padre, e tale suo avolo, aveva pure studiato un po' di latino sui vecchi messali dei frati del paese, tanto da essere creduto uomo di dottrina da tutto il vicinato, e degno di intuonare il benedicite alla mensa dei suoi padroni, alla quale era ammesso, sebbene ad un desco più basso. Ora che i lettori sanno anche per qual ragione il nostro valentuomo si chiamasse mastro Benedicite, noi finiremo il bozzetto col dire che egli sapeva il mestier suo a menadito, e (poichè bisogna confessar tutto, il male come il bene) ne andava superbo assai più che non fosse consentito dalla cristiana umiltà.

E adesso che lo si conosce intus et in cute, co' suoi vizi e con le sue virtù, e non si può dubitare che non amasse il conte Ugo, come va, chiederete, che a mastro Benedicite venissero i brividi, ogni qual volta si toccasse della felicità del padrone?

Qui giace nocco, lettori amorevoli, e se vorrete tirare innanzi a leggere con quella pazienza medesima che io a scrivere, farò di chiarirvi il negozio tra breve, senza guastar l'ordine del racconto, il quale ora mi costringe a prendere una viottola di fianco. Parrà una digressione, un perditempo, e non è che una scorciatoia, per la quale faremo un viaggio e due servizi.

Il dotto strozziere se ne stava nella sua falconeria, comodo edifizio accanto alla seconda porta della rocca, dove erano tutte le generazioni di falchi e d'astori, ed ogni altro arnese attinente alla caccia. Quella nobile famiglia di bestie aveva faticato di molto nella giornata, poichè il conte di Roccamàla era andato con numerosa brigata a falconare, ed aveva cavalcato per una ventina di miglia, fino al castello di Torrespina, facendo gran caccia di uccellame e selvaggina. Il buon nome degli alati cacciatori di Malta era stato nobilmente sostenuto al cospetto di leggiadre dame e cavalieri, e mastro Benedicite raddoppiava il cibo a' suoi figliuoli, com'egli soleva chiamarli, dando loro le interiora, cuori e fegatelli di starne, lepri, ed altri volatili e quadrupedi, che erano stati feriti a morte dai rostri di quelle bestie valorose.

– Optime, fili mi! Tu non hai nessuno che possa starti a paro. Nullus tibi se conferet heros, sebbene tu abbia già i sessanta suonati. Tò, mio dolce amico, questo è per te. —

Queste parole, erano rivolte ad un bel falco randione, che mastro Benedicite s'era recato amorosamente sul pugno, offrendo alle sue allegre beccate uno spicchio di carne sanguinolenta. Era quello il beniamino dello strozziere, e degnamente rispondeva alla preferenza affettuosa di mastro Benedicite, facendo il fatto suo per modo da non toccargli neppure il sommo delle dita, e interrompendo ad ogni tratto il suo pasto (notate gran tenerezza) con un picciol grido di gioia e di gratitudine.

– E tu, che fai costì, manigoldo? – borbottò poco stante mastro Benedicite, facendo la voce tanto ruvida, quanto era stata dolce dapprima. – Metto pegno che ancora non sarà nulla a suo posto, nè lunghe, nè cappelli.

– C'è tutto, zio, ed ho anche ripulito per bene il pavimento; – rispose, senza scomporsi punto per quella infinita ruvidezza, un biondo adolescente, che era venuto allora a stringersi ai fianchi del vecchio falconiere.

– E la lezione?

– La so.

– Tanto meglio per te, se tu di' il vero, fannullone. Orvia, sentiamo un tratto… Quante sono le generazioni de' falchi? —

Il fanciullo stette un po' sopra pensiero; quindi rispose a mezza voce:

– Sono sei…

– Ah, ah! – gridò mastro Benedicite, in quella che proseguiva a dare il pasto alle sue bestie – certuni lo dicono, ma cotestoro, ragazzo mio, non sanno neanco l'abbicì della falconeria.

– Sono sette; – si provò a dire il fanciullo.

– Sette, sì certamente, sette e non sei. La prima?

– Il randione.

– Adagio, adagio a' ma' passi e non mettiamo il carro davanti a' buoi. Si va dal minore al maggiore, de minore ad majorem. Il primo legnaggio sono lanieri, che sono i più vani: molta apparenza e poca sostanza. E il secondo?

– Il secondo, son quelli chiamati pellegrini.

– Sta bene, e perchè?

– Perchè persona non può trovare il loro nido; anzi sono presi come in pellegrinaggio, e sono molto leggeri a nutrire, cortesi e di buon'aria, e valenti e arditi.

– Bene, bene! – borbottò il falconiere – e il terzo?

– Il terzo sono falconi montanini, che si nascondono dappertutto, e quando son nascosti non fuggono più; il quarto falconi gentili; il quinto…

– Non correr già a precipizio! Festina lente, ragazzo mio! Che cosa sono anzitutto i falconi gentili?

Il fanciullo era rimasto a secco. La voglia di far presto gli aveva fatto perdere il filo.

– Ma… – disse egli – i falconi gentili sono… sono…

– Sono quel che tu non sai, per quanto io vedo. E quello che tu non sai, gli è che i falconi gentili sono nobilissimi, prendono la gru, e non hanno che un male, cioè di volar troppo lungo, per modo che si bisogna averne buon cavallo per seguirli, e quassù per i nostri greppi non approderebbero. Ora al quinto, e bada a non incespicare.

– Il quinto – proseguì il nipote – son gerfalchi, li quali passano tutti gli uccelli della loro grandezza, e sono forti, fieri, ingegnosi e bene avventurati in cacciare e in prendere; il sesto è il sagro, molto grande e somigliante allo sparviero.

– All'aquila! all'aquila! – interruppe mastro Benedicite. – Vedi mo', Anselmuccio, questo è appunto un sagro; o dove ti sembra egli che rassomigli allo sparviero? Quello che tu di' è l'astore, non già il falco sagro.

– All'aquila; – soggiunse il ragazzo, risovvenendosi, – ma, degli occhi, del becco, delle ali e dell'orgoglio somigliante al gerfalco. Il settimo…

Mastro Benedicite non aveva messo a tortura il nipote, che per farlo giungere a quel settimo.

– Eccolo, il settimo, – interruppe egli con aria di trionfo – eccolo, il randione, cioè, il signore e re di tutti gli uccelli, che non è niuno che osi volare appresso di lui, nè dinanzi. Vedi, figliuol mio, tu lasci il randione contro qualsivoglia uccello munito di poderose ali, e non c'è verso di fuggirgli; cadono tutti tramortiti in tal guisa, che l'uomo li può prendere, come fossero morti. —

E ciò detto, essendo finito con la lezione il pasto delle sue bestie nobilissime, mastro Benedicite si volse da capo al beniamino randione:

– Non è egli vero, fili mi dilectissime, che voi siete uccello da cosiffatte prodezze? Or via, pigliate il cappello e buona notte. Salve tandem!

Il falcone, con la mansuetudine di tutti i suoi pari, quando siano manieri, e stati da gran pezza a scuola sotto un buon maestro d'arte aucuparia, raffermò con moti quasi soavi le palpebre, si lasciò incappellare come un membro della confraternita della Morte, e coi geti annodati ai piedi si pose chetamente sul bastone a dormire.

Ora, in quella che mastro Benedicite si metteva attorno agli altri falconi per far loro il medesimo uffizio, si affacciò sull'uscio della falconeria un famiglio.

– Ohè, mastro Benedicite, s'ha egli da alzare il ponte, questa sera?

– Che ponte mi vai tu pontando ora? – gridò stizzito il falconiere.

– Sì, il ponte, il ponte! – disse di rimando quell'altro. – Messer lo Conte e tutta la sua gente sono per andare a mensa, e credo non aspettino più altri da fuori.

– Questo sapevo; e poi?

– E poi, mastro Benedicite, io non c'entro. Se a voi piace che il ponte rimanga calato, accomodatevi pure. Voi avete da messer lo Conte ogni autorità, per far questo ed altro…

– Sì certo, e me ne vanto; – rispose lo strozziere, che parlava allora da comandante della guardia – e penso di non essere venuto meno alla fiducia di messere Ugo. Il ponte è alzato.

– È calato, – s'impuntava a dir l'altro – qui siete in errore; è calato.

– Amico, – esclamò mastro Benedicite, dopo aver bene squadrato in viso il famiglio, alla luce di una lanterna che aveva accesa durante quel po' di conversazione, – bibisti quam maxime, a quel che pare.

– Che cosa dite? io non intendo il vostro latino.

– Dico che tu t'impacci de' fatti tuoi, e non mi venga a far l'omo; dico infine che tu se' pazzo, o ubbriaco. —

Quell'altro si strinse nelle spalle, facendo con le labbra l'atto di chi alla perfine non ci ha nè sal nè pepe da metter su. E mentre il vecchio, presa la lanterna, esciva dalla falconeria per avviarsi alla porta della rocca, si fece in tal guisa a proseguire il discorso:

– Io non volevo far altro che darvi un cenno della cosa. Per me, poi, stia calato, o si alzi, non me ne importa un frullo. Ad altri, in cambio, può talentare che l'escita sia libera, e non c'è nissun male. Già, chi ha da venire a darci molestia quassù? Nemici molti, si farebbero scorgere troppo tempo prima. Pochi, avrebbero degna accoglienza. E se pure non si ha paura del diavolo… il quale del resto non ha bisogno…

– Sta zitto là, manigoldo! – gridò Benedicite, e fu ad un pelo di mettergli la palma della mano sui denti. – Tu non sai quel che ti dica, e meno ancora di quello che hai detto poc'anzi del ponte calato.

– Orbene, vedete di per voi; è alzato o calato? Erano allora per l'appunto alla porta, e i buffi dell'aria esterna s'ingolfavano rumorosamente sotto l'androne. Mastro Benedicite non rispose, che non avea tempo da schermire di lingua col famiglio, e con passo deliberato corse da un lato dell'androne a cercare un uscio socchiuso, donde usciva un po' di luce fumosa e un suon di voci avvinazzate.

– Che fate voi qui, pendagli da forca? Giuocate a zara? Avrete tempo a giuocare, quando sarete con Satanasso, che il malanno vi ci porti illico et immediate!Chi ha calato il ponte, che è stato levato pur mo' sotto i miei occhi?

– Mastro Benedicite, – rispose uno degli arcieri, alzandosi dalla panca, – noi non ci siam mossi di qui. Se il ponte era alzato, come voi dite, penso che lo sarà tuttavia.

– No, vi dico; è calato.

– Sarà qualche paggio, – entrò a dire un altro della brigata, in quella che tutti uscivano dalla camera per tener dietro allo strozziere, – sarà qualche paggio randagio, che ne fa qualcuna delle sue.

– Baie! Questi manigoldi si calano giù nel fosso dalle finestre, quando loro metta conto di uscire a far le scorribande nel vicinato. E così si fiaccasse una volta il collo, messer Fiordaliso, che ha introdotto il costume di appendersi alle scale di corda! Ma qui, vivaddio, gatta ci cova, o voi altri avete calato il ponte, ed ora che siete alticci dal vino, non ve ne ricordate più altro. —

Gli arcieri, che ben sapevano di non averci messo mano, ma che pure volevano farla finita con le sfuriate di quell'autorevole personaggio, non risposero verbo. Chi tace acconsente; e per tal guisa fu tacitamente ammesso che il ponte di Roccamàla, la sera del 29 novembre, giorno di san Saturnino, dell'anno del Signore 1284, era stato levato e calato.

Ma quel ch'era stato disfatto bisognava rifare. E già si appigliavano alle manovelle per trarre le catene, allorquando si udì dall'altro lato del fosso lo scalpito di un cavallo che risaliva galoppando il pendìo, e, subito dopo, lo squillo di un corno che domandava ospitalità al conte Ugo di Roccamàla.

– Chi diamine giunge a quest'ora? – esclamò uno degli arcieri.

– Proprio a tempo, – soggiunse un altro, – per farci risparmiar la fatica!

– E come ha fretta, il sere! E' suona alla disperata.

– Su, su, tirate, alla croce di Dio, e non mi state a far chiacchiere! – interruppe lo strozziere.

– O perchè volete voi che si alzi il ponte, ora, per calarlo da capo? E l'ospite che giunge, per dove volete che passi?

– Che ospite del malanno! Vada a farsi impiccare per la gola…

– Ma… e messer lo Conte, se giunge a risaperlo…

– Messer lo Conte… messer lo Conte… vi comando io, e pagherò io per tutti. —

E dicendo queste parole, il vecchio strozziere tremava a verghe.

– Poffarbacco! – esclamò uno degli arcieri – si direbbe che avete paura di una visita di messer Satanasso in persona. Basta, sia come vi talenta, o, per parlar latino alla vostra guisa, fiat volontas tua, mastro Benedicite. Orsù, figliuoli, alle manovelle!

– Sì, sì, alle manovelle! – ripetè lo strozziere, più morto che vivo, senza stare a piatire coll'arciere, e mettendosi all'opera egli stesso con le braccia tremanti.

– Ohè! ohè! messeri! In tal guisa si ricevono gli ospiti, dalla gente costumata?

Queste parole, accompagnate da un riso sarcastico, venivano dall'altra banda del fosso. Mastro Benedicite non poteva scorgere chi fosse, essendo egli sotto la luce della lanterna, e il nuovo capitato fermo di là dal ponte nella oscurità della notte; ma tant'è, gli parve di scorgere un paio d'occhiacci fiammeggianti, e per moto naturale si recò le dita alla fronte, per farsi il segno della croce.

– Domine salvum fac… Vade retro Satana… – borbottò egli tra i denti. – Alzate, alzate, in nome di Dio!

Intanto il riso sarcastico si faceva udire da capo, e la voce con esso.

– Ah! ah! grazie, grazie, per mia fe', mastro Benedicite! Un povero romèo è egli dunque un cane tignoso, che gli si chiudano le porte sul muso? In verità ch'io mi facevo più ospitali i signori di Roccamàla. —

Tocco nel vivo, lo strozziere si fe' qualche passo innanzi, ma senza por piede sul tavolato del ponte, e tirando intorno a sè tutti gli arcieri, perchè gli facessero buona difesa; quindi, con voce che si provava a far parere sicura, rispose:

– I signori di Roccamàla furono sempre e saranno i più ospitali cavalieri della cristianità, messer pellegrino, e cotesto abbiatevelo per fermo. Appunto in quest'ora c'è corte bandita a tutti i più riputati che portino spada e cappa in questi dintorni, e scorre il vin di Cipro, che alla mensa del serenissimo doge di Venezia non se ne bee del migliore. Ma gli ospiti del magnifico conte Ugo son persone a modo, e non hanno la vostra meschina figura, messer pellegrino, sebbene io la scorgo attraverso questa mezza oscurità.

– Ah, voi giudicate l'uomo dalla apparenza? Io dovrei pigliarvi allora per un otre, se bene vi scorgo a mia volta. Andate là, mastro Benedicite… e non vi faccia meraviglia ch'io vi chiami col vostro nome, poichè l'hanno pur mo' gridato gli uomini vostri. Andate là, ed annunziate al magnifico conte Ugo la venuta di un povero pellegrino di Roma.

– Di Roma! – ripetè con piglio d'incredulità lo strozziere, in quella che dentro di sè si raccomandava a tutti i santi del calendario.

– Ne dubitate? Ci ho gusto. L'uomo che dubita è l'uomo che pensa. Ma io ci ho di buone testimonianze a mettervi fuori, che potranno acquetare la vostra timorata coscienza. Vengo da Roma, dove ho visto il Papa e la Santa Madre Chiesa, che fanno insieme una buonissima vita. Peccato che non abbiano figliuoli! Basta, io porto qui, sulla sella del mio magro ronzino, una gerla di coroncine benedette e d'indulgenze plenarie, e poi le più succose dispense che ogni buon cristiano possa desiderare; dispense di sgravarsi senza dolore, checchè sia stato decretato in contrario; dispense di mangiare il proprio simile, quando si abbiano buoni denti, e di bere senza ubriacarsi, mettendo acqua nel vino. Che ve ne pare, mastro Benedicite? son io degno di entrare?

– Su, su, arcieri! – urlò il vecchio strozziere. – Alle catene, alle catene!

Ma sì, a persuaderli che gli tenessero bordone! Gli arcieri erano rimasti stregati dalle bizzarrie del pellegrino, e sghignazzavano ereticamente, senza badare alle furie di mastro Benedicite. Ed egli a gridare, a tempestare, a pigliarli pel collo (che la paura gli raddoppiava le forze), fino a tanto non li ebbe ridotti all'obbedienza. Ma, sebbene ci si mettessero tutti, ed egli medesimo si provasse ad aiutarli, le catene non iscorrevano punto.

– Voi non fate il debito vostro, manigoldi; tirate a voi con quanta forza avete!

– Mastro Benedicite le catene hanno la ruggine. Intanto quell'altro continuava a ridere.

– Mastro Benedicite, la ruggine è molto più cortese dama che voi non siate cavaliero. Ora, voi vedete, già venti volte, non una, avrei potuto passare, e nol fo, per non usare villania al vostro signore. Ma se egli non è malnato castellano, udrà i tre squilli di corno che si mandano alle porte della sua rocca. —

Così parlò il pellegrino di Roma, e, posto mano al corno che gli pendeva da fianco, suonò con esso tre volte.

– Misericordia! – esclamarono gli arcieri. – Questa è la tromba del giudizio universale.

Il Libro Nero

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