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CAPITOLO II

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Dove si legge della felicità di conte Folco, come fosse celebrata dal biondo Fiordaliso

Al primo squillo di corno, quel tale squillo che avea fatti rimanere sospesi con le braccia in aria gli arcieri, conte Ugo stette egli pure sospeso, con la coppa d'oro alle labbra.

– Un ospite! – esclamò egli, voltandosi alla brigata. – Sia il ben venuto a Roccamàla.

E bevuto un sorso, mandò attorno la tazza, quella tazza d'oro lavorato con la quale i suoi antenati, da Ugo il negromante, fino a Ruberto il taciturno, avevano avuto costume di far le loro libazioni ospitali.

– Messere, – disse Fiordaliso, – io mi penso che questo sconosciuto visitatore rimarrà un pezzo alla porta e morrà anche a ghiado, se aspetta che gli apra mastro Benedicite. —

Colui che parlava in tal guisa era un giovine sui vent'anni, vestito di un farsetto azzurrognolo listato di bianco e di vermiglio, e con una zazzera bionda le cui ciocche scompigliate scendevano a nascondergli mezza la fronte e le guancie. Il viso roseo e la delicatezza dei contorni lo avrebbero fatto togliere agevolmente per una leggiadra donna travestita da paggio, se certi peli vani che ombreggiavano il labbro superiore e il basso delle guance, non avessero fatto manifesto che egli avea dritto a portare il nome mascolino di Fiordaliso, col quale era chiamato a Roccamàla, e conosciuto da tutte le graziose femmine della contèa, nel giro di venticinque miglia, ed anche più oltre.

Il conte Ugo sorrise con aria affettuosa alle parole dell'adolescente.

– Che vuoi dir tu, Fiordaliso?

– Dico, messere, che con mastro Benedicite non si può uscir mai, quando s'è dentro, nè entrare, quando s'è fuori. Egli è sospettoso come una lepre, e mal per noi se gli somiglia san Pietro, o se va egli un giorno a far da portinaio in sua vece.

– Per ora, – soggiunse il Conte, – e' bisognerà che se la tolga in pace e metta mano alle chiavi. Roccamàla non è un paradiso; ma essa non è mai stata chiusa a nessun viandante che domandasse ospizio per amor di Dio, o del valoroso barone san Giorgio che l'ha in guardia. I miei antichi furono gente melanconica e contegnosa, ma a questo debito non hanno fallito mai, e non lo dimentica di certo il mio vecchio strozziere, che è il cronista della famiglia.

– Ah! gli è dunque un uomo di dottrina, il vostro Benedicite? – chiese Ansaldo di Leuca.

– Altro ci è! Non parlo dei suoi testi latini, che n'ha sempre una serqua tra i denti, parati ad uscirne fuori. Ma e' vi sa dire quando e come fu murato il castello, e poi giù giù una infilzata di storielle, che a udirne la metà v'intronerebbero il capo per un giorno e non vi lascerebbero più dormire la notte. Ma lo so ben io, che da bambino gli ero sempre sulle ginocchia e pendevo dalle sue labbra; lo stuzzicavo sempre a narrarne di nuove, e poi non c'era più verso che potessi pigliar sonno, tante erano le immagini del tempo antico, che scendevano a popolare la solitudine della mia camera. Ma questo ospite non giunge…

– Io ve l'ho detto, messere; mastro Benedicite vorrà sapere anzitutto il nome, la patria e la condizione, se scapolo o ammogliato, e Dio sa quant'altre cose di quella fatta.

– Se egli fa ciò, vuol levarmi il mio buon nome, e noi dovremo dargli una strapazzata, appena ei venga quassù. Messeri, questo vin di Cipro… Ma che diamine fa egli, quel vecchio scimunito? Ho io ad esser chiamato per cagion sua il più tristo cavaliero d'Italia?

Questa sfuriata del conte Ugo era cagionata, siccome i lettori hanno indovinato per fermo, dai tre squilli di corno che metteva il forastiere, stanco di attendere e di piatire con mastro Benedicite.

– Al nome di Dio! – esclamò Ansaldo di Leuca. – Questi è uomo di vaglia.

– E quel vecchio pazzo non se ne dà per inteso! Suvvia, Fiordaliso, scendi tu alla porta, e vedi che cos'è egli mai che ha intorpidite le gambe al nostro falconiere. —

Fiordaliso corse con quella baldanza che è propria de' giovani e che a lui era accresciuta dieci cotanti dalla amorevolezza del suo signore. Ma egli era appena sulle scale, che vide giungere ansante, trafelato, mastro Benedicite; laonde, aspettatolo sul pianerottolo, rientrò con esso lui nella sala, con una curiosità in corpo da lasciarsi indietro una dozzina di femmine. Intendiamoci bene, di femmine e non di donne, poichè tra queste e quelle, sebbene non ammessa dal vocabolario, corre una differenza grandissima.

– Orbene, mastro Benedicite, – gridò conte Ugo, appena ebbe scorto da lunge lo strozziere, – e come va che i forastieri chiedono ospitalità e non l'ottengono, a Roccamàla? —

Senonchè, fatto questo rimprovero in forma di domanda, egli vide la faccia dello strozziere, e, buono com'era, tosto raddolcì la sua voce per dirgli:

– Ma che è, Benedicite? Che cosa sono quegli occhi stralunati, e quel viso smorto?

– Egli è, messer lo Conte… – balbettò il vecchio – egli è… ho calato il ponte… cioè, l'avevo alzato e poi lo rinvenni calato… Un pellegrino, che afferma giunger da Roma… e mi pare che venga piuttosto da casa il diavolo…

– Potrebb'esser tutt'uno! – esclamò Ansaldo di Leuca.

– Sarà come voi dite, messere Ansaldo; ma io penso che questo forastiero del malanno… insomma, io so quel che mi dico…

– Sì, sì! – interruppe ridendo il conte Ugo, dopo aver fatto cenno degli occhi a Fiordaliso, il quale fu sollecito ad uscire da capo. – Ma voi avete a sapere eziandio, mastro Benedicite, che il nostro castello, anco a voler partecipare alle vostre superstizioni, non ha paura del diavolo. Qui c'è stato parecchi giorni il santissimo Bernardo di Chiaravalle, quando Roccamàla era convento del suo ordine, e la benedizione di un tanto uomo non basta ella a raffidarvi?

– Essa, con vostra licenza, messer lo Conte, non ha impedito…

– Ah, ah! vecchie storielle da raccontarsi quest'inverno accanto al fuoco. Ma dove lasciate voi, uomo di salda memoria, le benedizioni di due papi? Dove la visita del vescovo Gualberto? Macte animo, generose senex! vi dirò io, imitandovi; noi siamo armati di bolle, d'indulgenze e d'acqua santa, per ricevere anco una visita dello spirito maligno. Portae inferi… come dite voi, che io non lo ricordo più, il vostro latino?

– Non praevalebunt, messer lo Conte; e così Dio v'ascolti! – soggiunse mastro Benedicite, che, vedendosi là, al cospetto del suo signore e di tanti allegri cavalieri, incominciava a stupirsi d'avere avuto paura.

– Ben venga il diavolo, se pure è egli che giunge! – disse Ansaldo di Leuca.

– Egli è alla perfine un cavaliero di alto legnaggio, sebbene caduto in disgrazia del più possente barone del mondo, – soggiunse Enrico Corradengo, – e noi ci terremo ad onore di averlo commensale.

– Ecco un forastiero che fa parlar molto di sè, – conchiuse il conte Ugo, – e noi vedremo se la persona sua risponderà alla nostra aspettazione. Ad ogni modo, sia il benvenuto tra noi. Mastro Benedicite, aprite, vi prego, al vostro spauracchio. —

Il falconiere andò verso l'uscio della sala e la spalancò. Frattanto si udiva lo scalpiccìo dei piedi nel corridoio, e la gaia voce di Fiordaliso.

– Entrate, messere pellegrino; venite a scaldarvi e a rifocillarvi un tratto in buona compagnia. —

Allora fu veduto entrar nella sala un uomo smilzo e lungo come… dove pescherò io il paragone? come le speranze dell'autore di questo racconto.

Egli si fece innanzi, rasentando una ricca mensa, intorno alla quale erano seduti dieci o dodici convitati. La sua cappa di bigello, tutta sgualcita e rattoppata in più luoghi, il sarrocchino coperto di nicchi marini e il largo cappello che s'era lasciato ricadere dietro le spalle, facevano contrasto co' farsetti e giustacuori di velluto variopinto, con le berrette piumate, e le collane d'oro alle quali accresceva splendore la luce riflessa dei doppieri. Ma più assai che le vesti, contrastava la sua pallida faccia coi volti allegri degli ospiti di Roccamàla.

Chi era costui? Un romèo, cioè un pellegrino che veniva da Roma. Pellegrini si dicevano coloro i quali andavano a sciogliere il voto ai luoghi santi, e segnatamente al sepolcro di Cristo; romèi più propriamente coloro i quali andavano alla eterna città, per baciare il piede al Giove di bronzo, ribattezzato San Pietro, e per ottenere la benedizione del papa. Ma quello del romèo non era un mestiero, sibbene uno stato accidentale e transitorio dell'uomo; ora, che altro fosse, e a qual ceto appartenesse il nuovo venuto, non era dato d'intendere. Poteva essere un povero diavolo, che, stanco di servire gli uomini, si fosse accomodato ai servigi di Dio, od anco un barone, carico di peccati, che fosse andato a pentirsene a Roma, col cilicio alle reni e col bordone tra mani.

La cera del pellegrino non lasciava intendere se egli fosse di questa o di quell'altra specie; ma certo non era d'uomo da poco. Il viso, un tal po' allungato e scarno, mostrava que' fini contorni che non sono oggi, e per fermo non erano allora, di gente rozza e villana. Assai meno poteva indovinarsi l'età, imperocchè quel suo viso era tale da rispondere ad ogni congettura, e si poteva dargli trenta come sessant'anni; privilegio dei vecchi e dei giovani invecchiati, allorquando gli uni e gli altri abbiano membra asciutte, e carni e peli senza un colore spiccato.

Per farla finita con le dipinture, diremo ch'egli era aitante della persona, e per avventura oltre la comune degli uomini, che infine i suoi modi erano d'uomo punto impacciato nel farsi innanzi ad una nobile brigata.

Egli entrò diffatti con passo fermo e sicuro, affrontando gli sguardi curiosi; e rasentando, come ho già detto, la mensa, andò difilato verso il conte Ugo, che al suo apparire s'era cortesemente alzato da sedere, per farglisi incontro.

– Entrate, messer pellegrino; – aveva detto quest'ultimo, accompagnando le parole con atti graziosi. – Deponete il vostro bordone e il cappello, e sedete qui daccanto a me. Il nostro Fiordaliso cederà di grand'animo il suo posto al nuovo ospite che la nostra buona ventura ci manda.

– E non gli chiede nemmanco il suo nome! – borbottò fra i denti mastro Benedicite, in quella che andava a sedersi al suo posto consueto, nel basso, della tavola. – Già, egli è sempre stato così, come tutti i suoi vecchi! Suo padre, il taciturno, non apriva la bocca che cinque o sei volte all'anno, e ci volevano proprio i forastieri, per fargliele metter fuori, quelle quattro parole! —

Il pellegrino, intanto, si era seduto a fianco del conte Ugo, e dalle sue mani aveva ricevuto la coppa ospitale; ma in cambio di recarsela alle labbra, stava curiosamente a guardarla.

– Vi piace questa coppa, messer pellegrino? – ripigliò a dire il conte Ugo. – A me duole di non potervela offerire in presente, dacchè essa è la coppa dei signori di Roccamàla, la coppa di un mio famoso antenato, che portava appunto il mio nome, or sono forse cento e trent'anni. Non è egli vero, mastro Benedicite?

– Sì, messere; – rispose il vecchio, – Ugo il negromante mori nel 1150. E la coppa, narrano le cronache, fosse quella di Borman, gigante che i Liguri adorarono poscia come un dio, la quale fu donata al conte Ugo dalla fata Melusina. Il santo vescovo Gualberto voleva buttarla giù nel torrente, ma il vostro trisavo Aleramo…

– Basta, basta! – interruppe il Conte. – Ecco già un monte di parole per una coppa che non ne franca la spesa, quantunque sia d'oro. Ella ha un sol pregio, messer pellegrino; vo' dire l'amorevolezza con la quale io la presento a' miei ospiti.

– Lo so, messer lo Conte, lo so; – rispose il romèo. – Questa è la fama che di voi corre nel mondo.

Quindi, rivoltosi alla brigata, soggiunse, innanzi di recar la coppa alle labbra:

– Nobili messeri, io bevo alla vostra felicità, se pure è possibile che un uomo sia al mondo felice.

– Grazie dell'augurio, messer pellegrino; – disse Ansaldo di Leuca; – ma voi m'avete l'aria di dubitarne. O perchè non potrebbe uomo esser felice in questo mondo?

– In hac lacrymarum valle; – borbottò mastro Benedicite. – Ora vediamo che cosa gli sa risponder costui. A' suoi pari non hanno di certo a mancar le ragioni! —

Ma il pellegrino li lasciò a bocca asciutta ambedue, contentandosi a rispondere:

– Messere, a chiarirvi cotesto per bene, si vorrebbe una troppo lunga dissertazione.

– E voi sarete stanco; – entrò a dire il conte Ugo.

– Oh, non già, messer lo Conte! – rispose il pellegrino. – Vengo da Roma a piccole giornate, e non fo molta fatica. Oltre di che, il còmpito ch'io m'ho preso laggiù, mi ha consentito di giovarmi dell'opera di un ronzino; e Lutero, comunque non faccia gran mostra di membra, è un animale che sa il debito suo.

– Che nome! Lutero! – esclamò Enrico Corradengo.

– Un nome greco; – rispose il pellegrino – a Roma si studia molto il greco, oggidì.

– Gran città, quella Roma! non è egli vero, messer pellegrino?

– Sì, davvero, gran città; e chi non l'ha veduta, sia detto con vostra licenza, nobili messeri, non ha veduto nulla. E dire che di presente ella non è ancor giunta a quel tanto di grandezza che papa Leone X ha in mente!

– Leone X! – non potè rattenersi dallo interrompere mastro Benedicite. – O non è più papa Onorio IV?

– Ah! voi siete forte di cronologia, a quel che pare, mastro Benedicite! – rispose il pellegrino. – Onorio IV se ne è salito diritto al cielo, dove sta pregando per la conservazione di Santa Madre Chiesa e pel suo trionfo sui tristi che le fan guerra. Ora abbiamo pontefice il sant'uomo Leone X, munificentissimo principe, il quale dà opera a grandi e laudabili novità. Vedrete la basilica di San Pietro, quando sarà riedificata, e mi saprete dire s'ella non sarà divenuta la più gran meraviglia del mondo cattolico. —

Così dicendo, il pellegrino fece col capo il cenno di chi ha nominato una cosa sacra. Mastro Benedicite non aggiustava fede a' suoi orecchi medesimi. Quell'umile e costumato pellegrino, che parlava con tanta reverenza cristiana, era egli colui che di là dal ponte levatoio di Roccamàla gli aveva pur dianzi parlato, a lui mastro Benedicite, in sì beffarda maniera? Un uomo avveduto avrebbe, a dir vero, notate sulla faccia del pellegrino, segnatamente ai lati delle labbra, alcune rughe, nelle quali usa nascondersi l'ironia, e in certe guardature, che accompagnavano le parole, sarebbe colto in flagranti lo scherno. Ma il buon falconiere, quantunque sapesse di latino, non era uomo da intendere questi nonnulla; argomentate poi se potesse coglierli a volo! Egli era come trasognato, e già si pentiva in cuor suo di aver così male inteso, e peggio giudicato, un uomo che faceva testimonianza di tanta religione.

– E come si vive a Roma? – domandò Fiordaliso. – Chi non ha sulle spalle i gravi carichi della santa religione, non ci morrà mica di noia?

– Dio ne guardi, messere! Roma è l'Atene d'Italia. Sua Santità è un uomo co' fiocchi; vo' dire un degno vicario di Dio. Il redentore del mondo è rappresentato laggiù come si addice a così alto barone. E il Machiavelli, con la sua Mandragora! Quella è una commedia! Il papa ha già voluto udirla recitare due volte. E il Bembo! Che piacevole uomo e che latinista di vaglia! Figuratevi, nobili messeri, ch'egli ha scritto ad un amico suo, non avesse a leggere le epistole di san Paolo, per non guastarsi la buona latinità! La mercè di questo valentuomo, che è segretario ai brevi, gli oracoli del Vaticano sono espressi con una eleganza, che non fu mai la maggiore. La vergine Maria si chiama Dea Lauretana; papa Leone è assunto al pontificato jussu deorum immortalium; celebrar la messa da morto si chiama litari Diis manibus, ed altre frasche simiglianti, che capirà per bene mastro Benedicite, il quale ho udito essere molto intendente della lingua del Lazio. —

Lo strozziere, toccato nel suo debole, chinò gli occhi modestamente sul tagliere. La diffidenza, che gli era nata in petto contro il forastiero, incominciava ad andarsene in fumo.

– Voi dicevate, messer pellegrino, della basilica di San Pietro.

– Affè, sarà quella un'opera stupenda. Figlio di Lorenzo il Magnifico, Leone X non farà che cose magnifiche. Ma ci bisognan danari.

– Nulla res sine pecunia! – sentenziò Benedicite.

– Sì, veramente, e a cotesto si pensa per l'appunto ora, e chiunque aiuterà alla grand'opera avrà indulgenze a macca.

– E voi, messer pellegrino, – entrò a dire il Conte, – se ben m'appongo, ne avete in buon dato.

– Sì, messer lo Conte, ne porto attorno per cui piacciono. Vo in Monferrato; di là passerò in Lamagna, dove spero il negozio abbia a prosperare più assai che in ogni altra parte d'Europa. Ahimè, sono stato un grande scioperato fino ad ora, e mi bisogna racquistare il tempo sprecato, con qualche opera buona. Ma già questi non sono discorsi da farsi a mensa, e in compagnia di tanti orrevoli cavalieri. Proseguite, di grazia, i vostri interrotti ragionari, se pure ad un forastiero è permesso di udirli.

– Che diamine! Noi stavamo appunto per chiedere una ballata a Fiordaliso, il nostro bel paggio, che la pretende a poeta, e, in fede mia, non senza ragione.

– Mi sarà grato udire ciò che bisbigliano le Muse nell'orecchio di un sì leggiadro garzone.

– Oh, non vi aspettate grandi cose, messer pellegrino! – rispose Fiordaliso, che si era fatto rosso come una brace. – Io non ho studiato d'arte poetica, e vo strimpellando il liuto come un menestrello villereccio.

– Suvvia, Fiordaliso, non ci buttiamo giù di questa guisa! Il nostro ospite avrà forse udito più valorosi trovatori che tu non sia; ma io metto pegno che egli non rimarrà al tutto scontento dei fatti tuoi. Sentiamo dunque la tua ballata! —

Il paggio non si fece pregare più oltre, e andato a pigliare in un cantuccio il liuto, incominciò a trarne parecchi accordi, i quali volevano proprio dimostrare come il suonatore fosse stato troppo modesto, paragonandosi ad un menestrello giramondo. Quindi, giusta il costume degli antichi trovatori, non ancora perduto in que' paesi feudali, si fece a cantare in questa maniera:

– Conte Folco è prode e bello,

Esemplar de' cavalieri.

Fido albergo è il suo castello

Di dugento balestrieri.

Cento lance ei mette in guerra.

È possente e paventato;

Ma più ancora avventurato

Dell'affetto d'ogni cor.


S'è felici in sulla terra

Fin che regni in terra amor. —


– Bene, Fiordaliso, bene! – gridò Ansaldo di Leuca.

E tutti in coro ripeterono il ritornello:

S'è felici in sulla terra

Fin che regni in terra amor.


Il giovinetto proseguì, accompagnandosi cogli accordi del suo liuto:

– Sulla preda all'aure scaglia

I falcon più peregrini;

Pronti in giostra ed in battaglia

Ha cavalli saracini.

Lieto il fan di censo opimo

Le vitifere pendici;

Ma più lieto i fidi amici

Che gli fan corona ognor.


L'uom felice in terra estimo

Fin che regni in terra amor. —


– Gli amici, Ugo, tu l'hai udito, gli amici! – disse Enrico Corradengo, dopo che ebbero ripetuto il ritornello.

– Sì! – rispose Ugo. – L'amicizia è la più bella cosa e la più cara che al mondo sia.

– Adagio, messere! – gridò Fiordaliso. – Io non ho anche finito.

– Tira innanzi, dunque, da bravo!

Incuorato dal plauso della brigata il paggio intuonò la terza strofa:

– Carlomagno invidia a lui

Così dolce e lieto stato;

Ch'ei non è tra' prodi sui

Più securo e più beato.

Conte Folco a regio impero

Ben potria levar le brame;

Ma più grato a lui reame

Parve ognora un fido cor.


Più felice è l'uomo invero

Se gli arrida in terra amor. —


– Hai ragione, Fiordaliso! – esclamò conte Ugo. – L'amore accanto all'amicizia, ma un grado più in su. Questo è nella natura delle cose, e voi non ve ne dorrete, amici miei, non è egli vero?

– No, per mia fè! – rispose Ansaldo di Leuca. – E' bisognerebbe essere egoisti di tre cotte, per dolersene. Le dame anzitutto! Ma ci ha da essere ancora una strofa…

– Sì, messere; – soggiunse il paggio, – ed eccola appunto:

– Per lui sol non disumana,

Disdegnò d'un re l'omaggio

Valorosa castellana

Di gran cor, d'alto legnaggio.

È regina e imperatrice,

Se tien Folco in suo governo,

Se per lei d'affetto eterno

Per lei palpita il suo cor.


Sulla terra è l'uom felice

Fin che regni in terra amor.


– Bene! benissimo! – gridarono tutti, e ripeterono in coro, siccome avevano fatto per l'altre strofe:

Sulla terra è l'uom felice

Fin che regni in terra amor.


– Questo conte Folco era un uomo felice davvero – disse Ugo, in quella che si toglieva dal collo la sua collana d'oro, per cingerne il suo paggio prediletto. – Felice davvero! e a tutte le sue venture s'aggiunge questa, di essere cantato da sì gentile poeta. Che ne dite voi, messer pellegrino?

– Che avete ragione, per quanto si riguarda al poeta. I suoi versi sono graziosi, e meritano il presente che avete sì nobilmente fatto all'artefice. Ma il concetto, con sua e vostra licenza, non mi par giusto del pari.

– Oh! oh! – sclamò Fiordaliso, turbato nel suo trionfo poetico.

– Non c'è oh che tenga! soggiunse il pellegrino. – Recatevelo in santa pace; voi non avete, messer Fiordaliso, fatto prova di molta filosofia; laonde io mi fo' lecito di consigliarvi a studiare qualche buon libro intorno a questa materia, e in particolar modo il libro della vita, che le Sacre Carte hanno simboleggiato nell'albero della scienza del bene e del male.

– Fiordaliso, tu se' spacciato! – gridò Ottone di Cosseria.

– Periisti! – aggiunse il latinista Benedicite, dal fondo della tavola.

– Orbene, – disse, dopo una breve sosta il poeta, messo in puntiglio – correggete voi con la vostra scienza, messer pellegrino, quel che c'è di errato nei miei grami concetti!

– E perchè no? Tengo la giostra. Date qua il vostro liuto e vedremo di cavarne un costrutto. —

Il Libro Nero

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